martedì 25 giugno 2019

Breve storia dei musei (e di come ce li hanno sottratti) - Daniela Pietrangelo, Leonardo Bison



Pochi giorni prima delle ultime elezioni politiche, era il primo marzo del 2018, Luigi Di Maio presentava la lista degli ipotetici ministri di un ipotetico governo 5 Stelle. Uno dei profili più sorprendenti era quello del ministro dei beni culturali designato,Alberto Bonisoli: il suo profilo da outsider della politica, laureato alla Bocconi, esperto di moda e design e direttore di un’accademia di Belle arti privata, appariva del tutto inadatto a portare avanti le riforme in senso nettamente pubblicistico e statalista nel campo della cultura che il Movimento 5 Stelle annunciava nel suo programma. In campagna elettorale il M5S prometteva di voler smontare pezzo per pezzo le recenti riforme del ministro precedente, quel Dario Franceschini capace pochi giorni più tardi di uscire sconfitto anche in un collegio, considerato roccaforte, di Ferrara. Bonisoli sarebbe poi diventato ministro di un governo fondato su di un contratto che non conteneva traccia alcuna degli impegni programmatici dei 5 Stelle.
Esattamente un anno dopo, nei primi giorni di marzo 2019, si è appreso che un fondo afferente alla corona dell’Arabia Saudita era in procinto di entrare nel consiglio di amministrazione del Teatro alla Scala di Milano, in cambio di una donazione di 15 milioni. La notizia doveva rimanere nell’ombra: una simile elargizione era impossibile da giustificare politicamente. Per questo, l’operazione è saltata dopo due settimane di rimpalli di responsabilità. Eppure, quella donazione sconveniente risulta perfettamente legale e in linea con lo statuto della Fondazione Teatro alla Scala, tanto che il sindaco di Milano Giuseppe Sala si è affrettato a dichiarare che «il Cda della Scala non ha alcuna preclusione nei confronti dell’Arabia saudita». Ma gli italiani hanno preclusioni verso la possibilità che un qualsiasi milionario, italiano o straniero, possa prendere il controllo dei maggiori teatri lirici del paese? A giudicare dal fuggi fuggi dei politici quando la notizia è trapelata, probabilmente sì.
In effetti buona parte dei più importanti beni culturali italiani è gestita da Fondazioni di Partecipazione, che possono ricevere finanziamenti privati da chiunque, e spesso a qualunque costo: dal Teatro dell’Opera di Roma, al Palazzo Ducale di Venezia, dal Museo Egizio di Torino fino, appunto, alla Scala di Milano. Finché questi finanziatori non erano i sauditi, sembrava che la questione non ponesse problemi: in un ormai celebre diverbio tra il direttore del Museo Egizio di Torino e Giorgia Meloni, quest’ultimo vantava a gran voce che il Museo Egizio «non riceve fondi pubblici», come dato positivo e niente affatto problematico. Dato peraltrogrossolanamente falso, ma questa menzogna gratuita non è stata sottolineata da alcun giornale dell’epoca. Come si è arrivati fino a qui, senza alcun dibattito pubblico e senza alcun contraddittorio?
Una rapida privatizzazione
Il processo è durato oltre 25 anni, procedendo rapidamente senza che l’opinione pubblica avesse i mezzi (le informazioni) per comprenderne la portata. Nel 1993 i servizi di guardaroba, biglietteria o visite guidate all’interno dei musei pubblici venivano esternalizzati (obbligatoriamente), cedendo a grandi gruppi legati alla politica circa l’80% degli introiti di istituti quali Colosseo e Museo degli Uffizi. Il provvedimento fu votato all’unanimità dal parlamento. Nel 1996 i teatri lirici venivano trasformati in fondazioni di diritto privato, ancora una volta senza alcun contraddittorio, e da lì in poi fondazioni private per gestire pezzi di patrimonio culturale pubblico venivano create per Musei statali (Museo Egizio a Torino, Maxxi a Roma) e non, come i musei di Torino, Venezia (tra i quali Palazzo Ducale), Brescia, Bologna e via discorrendo. Fino a quando, il 13 novembre 2017, tutti i direttori dei più grandi musei italiani (divenuti nel frattempo a gestione autonoma) proponevano a gran voce di trasformare tutti i musei in fondazioni di diritto privato. Tutto questo senza che il parlamento abbia mai provveduto a distinguere gli enti privati che gestiscono patrimonio pubblico dagli enti privati che gestiscono patrimonio privato.
Ed eccoci ancora ai Sauditi che provano a prendere il controllo della Scala di Milano. Una situazione non nuova, dal momento che i grossi gruppi economici di Torino o Venezia controllano i musei della città già da oltre dieci anni, che pure sembra aver scosso l’opinione pubblica e messo alle strette la politica.
Poche settimane prima, il 7 febbraio 2019, il movimento Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali, di cui fanno parte i due autori di questo articolo, aveva tentato, con successo, didenunciare pubblicamente un sospetto che gli operatori de settore nutrivano da anni: che si fosse prossimi a una trasformazione di tutti i più grandi musei statali (Colosseo, Uffizi, Brera, Reggia di Caserta…) in fondazioni private, sulla falsariga di quanto avvenuto nel 1996 per i Teatri lirici. Quella denuncia elencava gli indizi per cui si poteva ipotizzare tale operazione, e spoegava quanto deleteria sarebbe stata per il patrimonio pubblico; illustrava anche i motivi che spingevano l’establishment economico-finanziario italiano a voler controllare i nostri musei pubblici, sottolineando anche un aspetto poco noto: i possibili meccanismi di evasione fiscale che possono attivarsi attraverso la donazione (detassata al 65%) di denaro da parte di privati a enti privati che gestiscono patrimonio pubblico. Le motivazioni anzitutto economiche alla base della trasformazione dunque dovrebbero preoccuparci non poco. Dopo qualche settimana di silenzio, il ministro Bonisoli ha smentito la possibilità che i musei divengano Fondazioni, e i sostenitori della trasformazione non hanno trovato argomenti per difenderla: il processo di privatizzazione ha subìto un arresto, ma per quanto?
Come detto le motivazioni sono soprattutto economiche, eppure c’è un altro aspetto che spinge questi gruppi di potere a voler controllare il nostro patrimonio culturale con il sistema delle fondazioni: un aspetto squisitamente ideologico, che dovrebbe portarci a considerare il patrimonio culturale, i nostri musei (ma anche tutti gli altri spazi culturali, quali i siti archeologici o i teatri lirici), come un terreno fondamentale di scontro nel tentativo di abbattere l’egemonia neoliberista.
Dal pubblico al privato
L’istituzione-museo nel corso dei secoli è stata oggetto di critiche e revisioni continue, campo d’azione non solo scientifico ma soprattutto politico ed economico.
Nel Diciottesimo secolo si cominciò a considerare la divulgazione del sapere come una responsabilità pubblica: nacquero allora i musei, con l’acquisizione di collezioni private da parte di alcuni enti statali. L’accesso era in genere regolato da norme e possibile solo dietro il pagamento di un biglietto. Seppur l’idea dei musei aperti a tutti nacque durante l’Ancien régime, fu con la Rivoluzione francese che i musei (anzitutto il Louvre, precedentemente pensato per conservare le collezioni reali) divennero pubblici e accessibili a tutti i cittadini senza distinzione di ceto o reddito. Possiamo affermare che in quel periodo nascono i musei europei, in modo radicalmente diverso da quanto accadeva negli Stati uniti, dove un percorso parallelo e distinto portava al concetto di museo-impresa, luogo nato da iniziative private da gestire come un’attività imprenditoriale, che punta a svolgere un ruolo attivo di orientamento del gusto pubblico imponendo, attraverso i canali dell’industria culturale, passioni e mode. Il modello americano negli ultimi vent’anni si sta imponendo in Europa, con la differenza non da poco che il museo non nasce dall’iniziativa privata ma occupa uno spazio precedentemente pubblico.
Ma torniamo ai musei europei del Diciannovesimo secolo. Si imposero allora i compiti morali di un museo: bisognava offrire al pubblico un’opportunità di edificazione personale attraverso l’esaltazione di valori che avrebbero contribuito a trasformare l’individuo in cittadino modello. Il museo nasce e si sviluppa non solo con il compito di acquisire e conservare reperti e opere di interesse culturale, ma soprattutto ha la grande responsabilità sociale di garantire l’educazione e di porsi al servizio della collettività. Nel corso dei decenni questo modello evolve, con la crescita del nazionalismo e dell’imperialismo le collezioni museali si trasformano in senso maggiormente statalista e celebrativo, ma il solco è segnato. Per tutta questa fase, è bene sottolinearlo, sono ancora le élites nazionali ad avere il saldo controllo su cosa va preservato, come, e per chi.
Ma in tempi recenti accade qualcosa. Si rafforza, repentinamente, la convinzione che la responsabilità sociale del museo debba superare i confini convenzionali e trovare nuove forme di applicazione.
Negli anni Sessanta il museo scopre la sua vocazione sociale e riorganizza la sua struttura e narrazione partendo dal basso. Si inizia a sviluppare un approccio meditato e consapevole alle politiche di acquisizione e di esposizione, oltre che una maggiore coscienza e comprensione del loro potenziale ruolo nel costruire delle società più inclusive. Si comprende che i musei possono comportarsi come catalizzatori per la rigenerazione sociale, conferendo poteri alle comunità per aumentare la loro autodeterminazione, sviluppare la fiducia e la capacità di esercitare maggiore controllo sulla qualità della propria vita e sullo sviluppo dei quartieri nei quali vivono. Negli Stati uniti nasce l’Anacostia Neighborhood Museum, il primo museo di quartiere, nel 1967. Ciò segna un cambiamento significativo nel modo di concepire un museo: pensato non più soltanto come un’istituzione finalizzata a migliorare la conoscenza, a promuove la ricerca e a conservare la memoria, ma soprattutto come un organismo creato grazie all’apporto diretto della comunità alla quale si rivolge. Una nuova idea di museo nasce da Hugues de Varine, nel 1971, per la prima volta parla di Ecomuseo ovvero un organismo che, pur rivolgendosi a un pubblico esterno, ha come interlocutori principali gli abitanti della comunità i quali, anziché visitatori passivi, diventano parte attiva, partecipando alle decisioni di pianificazione dei contenuti e del museo stesso. Il tema del diritto dei cittadini alla partecipazione alla cultura viene posto al centro della Convenzione di Faro, un trattato internazionale promosso dal Consiglio d’Europa al quale aderiscono 47 paesi europei (che l’Italia deve ratificare dal 2013). Un testo di grande importanza, a tratti rivoluzionario, promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini scardinando i ruoli di gestione e promozione del patrimonio culturale e incoraggia i processi di valorizzazione partecipativi dal basso. Anche molti artisti contemporanei hanno messo in discussione il ruolo dei musei, osservato le loro pratiche, sono intervenuti in essi e hanno contribuito a ridefinirli. In molti hanno utilizzato l’istituzione museale come dispositivo critico per analizzare la società contemporanea e denunciarne gli aspetti negativi. Una delle opere d’arte più potenti e d’impatto degli ultimi tempi rimane, a distanza di anni, quella realizzata nel 1992 da Fred Wilson, dal titolo Mining The Museum per il Maryland Historical Society di Baltimora, opera in cui l’artista riflette sul ruolo del museo, sull’effetto che una certa scelta espositiva ha sul visitatore, su cosa esprime e sullo sbilanciamento dei musei a favore della cultura borghese bianca. L’artista creò all’interno del museo dei riallestimenti espositivi con l’intento di arrivare a una narrazione museale inclusiva, per esempio esponendo nella stessa teca un paio di manette di metallo utilizzate per gli schiavi contrapponendole a una serie di brocche e bicchieri d’argento riccamente decorati.
Sono anni di spinte dal basso che chiedono una revisione delle narrative dei musei, includendo altre classi, altri generi, altre etnie. Non appare un caso che i musei, in tutto il mondo e in Italia, dove questo dibattito è arrivato con molta meno forza, si siano aperti in quel momento ai privati, utilizzando la retorica dell’apertura e di fatto concedendo il controllo delle narrazioni non più alle élites statali nazionali ma a quelle economiche locali e transnazionali. In pochi decenni questa tradizione centenaria, in evoluzione, è stata messa sotto attacco, imponendo ai musei la “sostenibilità economica”, la raccolta fondi, l’autofinanziamento, tutte le tipiche caratteristiche del modello americano. Non ci sembra avventato scorgervi una reazione preventiva alle critiche esposte e alla richiesta di maggiore inclusività.
Il museo offre narrazioni, decide cosa conservare della nostra storia e della nostra identità, come renderlo patrimonio fruibile, come esprimere valori che ci rappresentano oggi e che possono diventare storia per il domani. Facile intuire quanto un simile spazio di comunicazione e formazione, dotato di un’aura di indipendenza e imparzialità, continui a essere simbolo di potere, non solo economico. Facile intuire quando possa essere utile controllare quelle narrazioni, minando l’indipendenza di un museo. Inutile dire che un ragionamento simile vale per il controllo dei palinsesti e del prezzo dei biglietti dei nostri Teatri.
Affidare la gestione del patrimonio pubblico ai privati significa affidare loro non solo la gestione dei profitti ma anche la possibilità di riorganizzare e trasmettere significati sbilanciati a loro favore, di decidere quali elementi sottolineare a scapito di altri, quali verità considerare e quali ignorare. Il museo non è mai stato uno spazio statico e imparziale, è da sempre un luogo di controllo sociale e strumento di produzione di consenso, un campo in cui è in atto uno scontro di potere tra culture diverse. Le narrazioni in esso contenute non sono mai neutrali, subiscono le pressioni e sono regolate da tensioni politiche e sociali. Gli allestimenti museali sono scelti per essere al servizio della rappresentazione e discendono sempre da una interpretazione, e ogni interpretazione è necessariamente di parte. Carol Duncan, analizzando l’uso politico che è stato fatto dei musei, dichiarò che sono «straordinarie macchine per la definizione di identità. Controllare un museo significa, controllare la rappresentazione di una comunità e alcune delle sue varietà più alte e autorevoli».
Purtroppo, impegnati su più fronti, abbiamo lasciato ad altri il controllo degli spazi culturali statali, vedendo i biglietti di ingresso crescere, i gestori cambiare, il lavoro sparire, senza riuscire a imporre un’agenda alternativa. Per le classi subalterne, e per chi vuole costruire un mondo non capitalista, riappropriarsi del ruolo pubblico e comunitario del museo e del patrimonio culturale, appropriarsi della storia e delle narrazioni identitarie in esso insite appare fondamentale per rendere possibile il cambiamento: raccontare le rivolte e i mondi possibili, le società umane che hanno prosperato in altri sistemi economici, il lato oscuro di ogni monumento costruito dal potere sulla pelle degli ultimi, è un futuro possibile per i nostri musei. Un futuro che chi li ha e li vuole trasformare in fondazioni private vuole rendere impossibile. Sta a noi riprenderci il nostro patrimonio culturale pubblico.
*Leonardo Bison, archeologo e dottorando all’Università di Bristol (Regno Unito), si è occupato soprattutto di migrazioni e interazioni culturali nel Mediterraneo antico. Daniela Pietrangelo, educatrice museale, ha collaborato con enti pubblici e privati alla progettazione e realizzazione di attività educative con particolare attenzione ai temi dell’inclusione museale e dell’accessibilità al patrimonio culturale. Entrambi sono attivi sui temi riguardanti la gestione del patrimonio culturale con il collettivo Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali.

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