domenica 9 giugno 2019

scrive Stieg Larsson, sull'omicidio di Olof Palme



Lo scrittore svedese Stieg Larsson, autore della trilogia Millennium, tre settimane dopo l'omicidio di Olof Palme, il premier socialdemocratico, spedì una lettera di sette pagine a Gerry Gable, caporedattore di Searchlight, il periodico britannico schierato contro il razzismo. Il testo è stato scovato nell'archivio segreto di Larsson da Jan Stocklassa, ex diplomatico e scrittore, che proprio da quelle carte è partito per la sua inchiesta, lunga otto anni, dedicata al caso Palme. Larsson suggeriva di seguire le due piste che oggi – come racconta Jan Stocklassa nel suo libro L'uomo che scherzava col fuoco, in uscita per Rizzoli – sono le più accreditate dalla polizia: i servizi segreti sudafricani e i neofascisti svedesi. Ecco la lettera


Stoccolma, 20 marzo 1986

Cari Gerry & amici,
l’omicidio del primo ministro svedese Olof Palme è,
a essere del tutto sinceri, uno dei delitti più incredibili
e sconvolgenti di cui io abbia mai avuto l’ingrato compito
di occuparmi.

Sconvolgente per come la storia si avvita di continuo
su se stessa, cambia bruscamente direzione,
dando origine a nuove sconcertanti scoperte, per poi
mutare ancora, in vista del passo successivo. Incredibile
per la sua portata politica e per il fatto che – per
la prima volta nella storia, credo – un capo di governo
sia stato ucciso senza che si abbia la minima idea del
o dei colpevoli. Inquietante – i delitti lo sono sempre
– poiché la vittima era il primo ministro, un uomo apprezzato
e rispettato in Svezia, non solo dai socialdemocratici
ma anche da chi (come me) non lo è.

Da quando il telefono si è messo a squillare nelle
prime ore del mattino di sabato 1º marzo, e il mio
caporedattore mi ha informato del delitto ordinandomi
di farmi trovare alla scrivania, il mio mondo
è costantemente nel caos. Provate a immaginare se
doveste occuparvi dell’omicidio della signora Thatcher
e l’assassino fosse scomparso senza lasciare
traccia.

E poi lo shock. Quel sabato mattina, mentre la notizia
si spargeva per la Svezia ancora addormentata,
ho incontrato persone che d’impulso uscivano in strada,
con volti pallidi e cupi. In redazione ho visto navigatissimi
cronisti di nera – uomini e donne che hanno
visto di tutto, più e più volte – interrompersi all’improvviso
a metà della scrittura di una frase, chinare
il capo e scoppiare a piangere.

Io stesso mi sono ritrovato di colpo in lacrime, quella
mattina. È successo quando mi è piovuta addosso
una disperata sensazione di déjà-vu, nel momento in
cui mi sono reso conto che in meno di tre anni era la
seconda volta che perdevo un primo ministro: il primo
era stato Maurice Bishop, a Grenada – un uomo
per il quale nutrivo affetto, rispetto e fiducia più che
per molti altri. E adesso succedeva ancora.

Dopo, messo da parte lo sconforto e sepolto il signor
Palme, ecco il momento in cui i reporter tutt’a
un tratto si accorgono di quanto questo caso sia un
esempio da manuale.

A volte si sviluppa al ritmo concitato di un romanzo
di Robert Ludlum. Certi giorni, invece, assomiglia
a un mistero alla Agatha Christie per poi
evolvere in un poliziesco in stile Ed McBain, con
una spolverata di spacconeria alla Donald Westlake.
La posizione della vittima, l’incidenza politica,
l’assassino senza volto, le congetture, le piste che
non portano a nulla, arrivi e partenze di presidenti
e monarchi, i percorsi delle automobili, le dicerie, i
pazzoidi, quelli che «io l’ho sempre saputo», le telefonate,
le soffiate anonime, gli arresti e la sensazione
che si ha quando si crede che i conti stiano per
quadrare… e invece si approda solo al nulla e alla
confusione.

Su questa storia si scriveranno libri.

Di norma, chi uccide un capo di governo viene catturato
o ucciso nei secondi o minuti immediatamente
successivi al fatto. E l’indagine di solito si riduce a un
caso aperto e subito chiuso. Stavolta no.
Qui abbiamo un primo ministro che fa una passeggiata
serale insieme alla moglie, senza guardie del
corpo nel raggio di chilometri. E abbiamo un assassino
che svanisce nel nulla.

Insomma, siamo seri: da dove si comincia un’indagine
che ha letteralmente migliaia di sospettati e
neppure una pista?

Perdonatemi questo esordio farfugliante. Non
avevo neppure messo in conto di scrivere tutte queste
cose.

Venendo al punto, ho pensato di scrivervi del delitto
Palme fin da subito. Ho abbozzato otto o nove lettere
senza concluderne neppure una. Perché? È presto
detto: perché prima che io avessi il tempo di concludere,
emergeva qualche nuovo e sorprendente elemento
che impartiva alla vicenda una nuova direzione. Così,
ogni volta dovevo strappare quel che avevo scritto e
ricominciare daccapo.

Perciò questa lettera è solo un tentativo di darvi
un ragguaglio su cosa, in relazione all’omicidio, è
un dato di fatto e cosa no. Dopo aver passato le ultime
tre settimane a convivere con questo delitto
ventiquattr’ore su ventiquattro, ho grosse difficoltà
a mantenere il giusto distacco, e dato che questa
sera l’intera indagine sembra essere finita in un
vicolo cieco, questo ragguaglio sarà anche un modo
per mettere ordine nei miei pensieri e fare il punto.
Cosa che potrebbe tornarvi utile, qualora decideste
di scrivere un articolo nel prossimo numero. Cercherò
di citare solo le informazioni pertinenti.

Tanto per cominciare, cos’è accaduto e cosa sappiamo
sul delitto?

Un paio di minuti dopo le undici di sera del 28 febbraio
Palme esce dal cinema Grand in compagnia della
moglie e del figlio maggiore. L’uscita al cinema è stata
decisa in un momento imprecisato della giornata di
venerdì; Palme ne ha fatto cenno davanti a un giornalista
alle due del pomeriggio, ma i loro programmi
non erano noti al pubblico.

Il primo ministro, come spesso accadeva, ha congedato
le guardie del corpo dicendo che non avrebbe
avuto bisogno di loro per tutta la sera. Niente d’insolito
in quella richiesta, poiché tutti sanno che Palme
amava passeggiare di notte da solo, quando non era
in servizio e non c’era nulla che rendesse necessarie
misure di sicurezza supplementari. In ogni caso, non
è chiaro se la polizia di sicurezza fosse al corrente dei
suoi programmi per la serata.

Fuori dal cinema, Palme e la moglie hanno dato la
buonanotte al figlio e – dato che il cielo era limpido e
il gelo svedese ordinario – si sono incamminati verso
casa. Qualche minuto dopo che si sono separati, per
puro caso il figlio si è voltato e ha notato un uomo alle
spalle dei genitori; non è riuscito a vederlo in faccia
ma la descrizione dell’abbigliamento dell’uomo, che
il figlio ha rilasciato in seguito, è coerente con quella
dell’assassino fornita da altri testimoni.

Due minuti dopo, il primo ministro e la moglie hanno
incrociato un testimone, il quale si è fermato al loro
passaggio. Questi ha raccontato che i coniugi erano
tallonati da un individuo, e che altri due uomini precedevano
la coppia. Ha avuto l’impressione che fossero
tutti insieme, e ne ha concluso che i tre sconosciuti
fossero la scorta del politico.

Il primo ministro e la moglie hanno imboccato
Sveavägen, hanno attraversato la strada per guardare
una vetrina, poi hanno ripreso a camminare.
All’angolo tra Sveavägen e Tunnelgatan l’assassino si
è avvicinato al primo ministro e gli ha esploso un proiettile
calibro .357 Magnum nella schiena.

Per la polizia tutto fa pensare che l’omicidio sia
stato commesso da un professionista, e la stampa
sembra concordare, pur con un margine di dubbio.
L’assassino ha sparato un solo colpo, ma la pistola è
una delle armi leggere più potenti al mondo. Chiunque
abbia conoscenze in materia sa quanto possa essere
devastante l’effetto di un unico colpo. Risulta
che il proiettile è penetrato al centro della schiena
– tranciando la spina dorsale, devastando i polmoni,
lacerando la trachea e l’esofago – e ha lasciato un
foro di uscita abbastanza ampio da contenere un cappello.
La morte è stata istantanea, o è sopraggiunta
entro pochi secondi. La pallottola non era progettata
per frammentarsi, ma era rotante e incamiciata, in
modo da poter perforare anche un eventuale giubbotto
antiproiettile.

L’assassino ha poi esploso un secondo colpo su
Lisbeth Palme, moglie del primo ministro, ma evidentemente
non aveva lo scopo di ucciderla: l’avrebbe
colpita alla spalla, se lei non si fosse voltata
di scatto. Di conseguenza, la pallottola ha trapassato
una spallina del cappotto, provocando soltanto
qualche ustione superficiale. Partendo da questi fatti
si possono avanzare congetture sulla professionalità
dell’assassino: certi ritengono che mirasse a
uccidere, ma che essendo un dilettante abbia commesso
un errore dovuto all’agitazione; altri affermano
che semmai questo dimostra che si tratta di
un professionista e che il secondo colpo aveva l’unico
scopo di spaventare Lisbeth Palme affinché non
lo inseguisse.

Dopo l’omicidio, l’assassino si è allontanato lungo
quello che sembrerebbe un «percorso di fuga ben pianificato»,
prendendo la scalinata in fondo a Tunnelgatan
e rendendo così impossibile l’inseguimento in
auto.

Quelli che ho riportato finora sono fatti concreti,
in linea con la versione ufficiale della polizia.
È da qui che cominciano i problemi.

Diversi testimoni hanno fornito descrizioni vaghe,
spesso contraddittorie, dell’assassino. La più
ricorrente, e dunque probabilmente la più corretta,
è questa: uomo bianco, fra i trenta e i quarant’anni,
statura media e spalle larghe, con un berretto grigio
più o meno della foggia di quello di Andy Capp ma con
lembi che si possono calare sulle orecchie, un giaccone
scuro lungo fino ai fianchi e pantaloni scuri. Più di
un testimone dice che portava un piccolo borsello con
cinghia, di quelli nei quali si tengono, per esempio,
soldi e passaporto.

Da una serie di testimonianze si evince quanto
segue:

1. Lars, un uomo sui venticinque anni, ha incrociato
l’assassino in fondo a Tunnelgatan, ma senza essere
visto, perché i due sono passati ai lati opposti
del gabbiotto di un cantiere. Lars ha esitato per pochi
preziosi secondi – meno di un minuto – dopodiché
ha deciso di corrergli dietro. In quel momento
non sapeva che la vittima era il primo ministro. Si
è lanciato su per gli ottantasei gradini, ma quando
è arrivato in cima alla scalinata dell’assassino non
c’era traccia. D’istinto, Lars ha proseguito lungo
David Bagares gata, dove dopo un quarto d’ora si è
imbattuto in…

2. … una coppia che veniva a piedi verso di lui. Ha
chiesto ai due se avessero visto un uomo che correva
via, e loro hanno confermato che sì, lo avevano
visto mezzo minuto prima. Lars era stupito
– ha poi raccontato – di non essere più riuscito a
scorgerlo, dato che l’uomo non aveva poi così tanto
vantaggio.

3. Una quarta testimone, di cui non compare il
nome, ma che è nota come «Sara», ha segnalato
un nuovo avvistamento l’indomani mattina.
Sara, che ha ventidue anni ed è un’artista specializzata
in ritratti, intorno all’ora del delitto
stava camminando lungo Smala gränd, a pochi
passi da David Bagares gata. A metà del vicolo
ha incrociato un uomo che corrisponde alla descrizione
dell’assassino. Sembrava di fretta, ma
quando si è trovato alla sua altezza ha esitato
per qualche secondo. Tornata a casa, Sara ha acceso
la radio, ha sentito la notizia dell’omicidio
e l’ha subito collegata all’uomo che aveva visto,
e ha buttato giù un ritratto. Il suo disegno è stato
usato come base per l’identikit tracciato dalla
polizia.

Questi quattro, scelti fra più di diecimila, vengono
ritenuti testimoni attendibili che hanno riportato fatti
incontrovertibili.

4. Un quinto testimone – reputato non altrettanto affidabile
– è un tassista che, mentre era fermo nella
sua auto in Snickarbacken, ha visto una persona
passare di corsa e saltare a bordo di una Passat
verde, o blu, che a quanto pare lo aspettava. La vettura
è partita in fretta.

Snickarbacken è una traversa di Smala gränd, ed è
possibile che quanto riportato dal tassista abbia qualche
attinenza con il percorso dell’assassino. Tuttavia,
ci sono parecchi punti di domanda. L’uomo afferma
che l’evento si è verificato circa dieci-quindici minuti
dopo l’ora del delitto, ma per coprire quel tragitto ne
bastano tre o quattro.
Inoltre, sbaglia il nome della traversa di Snickarbacken:
non cita Smala gränd, ma un’altra via.
Ciononostante, la catena di prove fa pensare che
l’assassino gli sia davvero passato accanto, e la polizia
è dell’opinione che il tassista si fosse assopito, e
che per questo abbia commesso un errore nel dare indicazioni
sull’orario. (Comunque sia, la sua testimonianza
ha avuto come effetto la ricerca di una Passat
verde o blu, soprattutto perché l’uomo ha fornito un
numero di targa parziale.)

I fatti appurati finora hanno indotto la polizia a
ipotizzare che ci troviamo di fronte a un’esecuzione
pianificata con meticolosità da più individui. Salvo il
fatto che gli inquirenti non hanno indicato, a livello
ufficiale, di quale tipo di gruppo o di persone possa
trattarsi.

Prima domanda insidiosa:
Cosa sarebbe successo se il primo ministro non
fosse tornato a casa a piedi, ma avesse preso la metropolitana
insieme al figlio, e dunque non fosse mai
arrivato nel punto ideale per il delitto?
Se ci fosse stata un’accurata pianificazione, l’assassino
si sarebbe visto costretto a rimandare l’omicidio,
a meno che altre auto per la fuga e/o diversi complici
non fossero stati previsti sin dall’inizio.
Come dicevo, le dichiarazioni di alcuni testimoni
avvalorano quest’ultima tesi. (Da notare che sono
state messe in dubbio da inquirenti e giornalisti, e che
ben poche sembrano credibili.)

1. Un uomo che ha attraversato Tunnelgatan all’ora
dell’omicidio, ma nel senso opposto, dall’altro lato
di Sveavägen, ha incrociato due uomini di mezz’età
che si allontanavano di corsa dal luogo del delitto.

2. Altre due persone confermano: parlano di due uomini
che svoltano in Drottninggatan e si separano.

3. Una quarta testimone racconta di un uomo che,
uno o due minuti dopo, è arrivato di corsa in Drottninggatan,
sì è fermato di colpo e ha fatto un cenno
a un’auto, che lo ha caricato ed è «partita a tutta
velocità».

È più o meno qui che l’indagine si arena. Certo, si
possono fare innumerevoli congetture, ma non c’è
nulla di direttamente collegabile al crimine.
Vicolo cieco. Punto.

La maggior parte dei summenzionati fatti è stata
appurata nei primi 1-2 giorni (o minuti, addirittura)
successivi al delitto. Dopodiché sono arrivati i
mitomani con il classico «sono stato io», più un certo
numero di testimonianze di scarsa o nessuna attendibilità
e – ovviamente – le telefonate anonime.
In genere dopo un attentato terroristico, perlomeno
da parte della «sinistra», la rivendicazione
dei mandanti arriva entro poche ore. Non in questo
caso.

Fra le organizzazioni che hanno tentato di prendersi
il merito del misfatto c’è di tutto, dal commando
Christian Klar al gruppo Holger Meins, dagli ustascia
a diverse formazioni destrorse e neonaziste. Nessuna
di queste rivendicazioni è da prendere seriamente in
considerazione.

Dalla notte del delitto, per vari giorni la Svezia è
stata una nazione sotto assedio: aeroporti bloccati,
rigorosissimi controlli alla frontiera, traghetti e porti
passati al setaccio. (Naturalmente questo genere
di misure non serve a niente, dato che a un omicidio
ben pianificato segue una fuga altrettanto ben pianificata.)
Tre giorni dopo l’attentato, un poliziotto viene fermato
e sottoposto a interrogatorio, perché sospettato
di essere implicato: un estremista di destra, noto per
andare in giro armato, e con un alibi traballante. Ma
lo rilasciano nel giro di due giorni, e la polizia dichiara
che non ha nulla a che vedere con il crimine.

Poi, dopo una decina di giorni dalla notte dell’omicidio,
un altro uomo viene posto in stato di fermo per
presunta complicità. Si chiama Victor Gunnarsson,
trentadue anni, e risulta membro del Partito Operaio
Europeo (Europeiska Arbetarpartiet). Per quasi ventiquattr’ore
è sembrato profilarsi un ottimo scoop,
soprattutto quando la polizia ha dichiarato pubblicamente
di aver trovato il colpevole. (Cambiando anche
la formulazione delle accuse). Parecchi elementi
puntavano contro di lui.

È uno squinternato estremista di destra, documentatamente
ossessionato dal primo ministro – in
riferimento al quale ha più volte dichiarato che «bisognerebbe
sparargli» –, nonché noto per aver seguito
Palme durante comizi e manifestazioni pubbliche.
Si trovava nei dintorni, al momento dei fatti. Secondo
alcune fonti, era nello stesso cinema dov’era entrato
il primo ministro.

Lui non è in grado di fornire indicazioni precise su
dove si trovava, e ha mentito spudoratamente alla polizia
su diversi punti cruciali.

Possiede un berretto grigio e un giaccone simili a
quelli dell’assassino.

In quanto addetto alla sicurezza per diverse agenzie
private, è addestrato all’uso delle armi e sa maneggiare
un revolver.

Un testimone lo ha identificato come l’uomo che
ha cercato di fermare un’auto per allontanarsi dalla
zona immediatamente dopo i colpi d’arma da fuoco, in
una traversa di Tunnelgatan.

È stato visto entrare in un cinema, circa dieci o dodici
minuti dopo lo sparo, quando il film era cominciato
già da mezz’ora.

È noto per avere legami con un gruppo non ancora
identificato di estrema destra, religioso e antisemita,
con sede in California, dove ha anche trascorso vari
periodi.

Nel giro di ventiquattr’ore tutto l’interesse della
nazione si concentra sul Partito Operaio Europeo, su
cui io stesso ho scritto diversi articoli, e pare finalmente
che il caso si stia risolvendo.

Ma poi, poche ore prima dell’udienza per la carcerazione,
Gunnarsson viene rimesso in libertà. Perché?
Be’, perché il testimone che l’aveva visto cercare
di farsi dare un passaggio dopo il delitto tutt’a un
tratto non è più in grado di puntare il dito contro di lui
con una sicurezza del 100%.

La qual cosa ci porta alla data odierna: oggi la polizia
ha cancellato la quotidiana conferenza stampa, non
avendo nulla di nuovo da dichiarare. Vicolo cieco.
Riflessione: è possibilissimo che Gunnarsson venga
arrestato di nuovo; il giudice per le indagini preliminari
dice che non ci sono elementi contro di lui, ma
che merita attenzione.

E questo è tutto, per ora. Certo, potrei continuare
con le congetture per altre duecento pagine – come dicevo,
su questa storia si scriveranno libri (forse dovrei
scriverne uno io) – ma non c’è poi molta sostanza.
Abbiamo un primo ministro morto e un assassino
scomparso senza lasciare traccia.

Tra le varie ipotesi c’è quella di un nesso con certi
interessi sudafricani. La Commissione Palme, di cui
il primo ministro era un membro importante, aveva
avviato una campagna contro i trafficanti d’armi che
facevano affari con il regime dell’apartheid.

C’è anche la teoria del Pkk, il partito curdo che negli
ultimi due anni ha commesso almeno tre omicidi politici
in Svezia. Finora i bersagli erano «traditori» all’interno
dell’organizzazione stessa, ma un’idea diffusa (e
piuttosto razzista) vuole che il colpevole vada cercato
lì. Perché? Perché la sede del partito a Stoccolma è in
David Bagares gata, proprio dove l’assassino si è volatilizzato.
(Sorvoliamo sul fatto che questa teoria non
tiene conto che bisognerebbe essere molto stupidi per
correre a nascondersi nel quartier generale dei propri
mandanti, a due minuti dal luogo del delitto).

Insomma, lo scenario è questo. Se accade qualcosa
di nuovo, posso telefonarvi, se volete un resoconto, e
potete sempre usare queste informazioni come materiale
di base.

Accludo una foto di Gunnarsson, ma ricordate: il
suo avvocato intende fare causa ai giornali stranieri
che dovessero pubblicarla (io sono tra quelli che erano
riusciti ad accaparrarsela in previsione dello scoop
– prima che lo rilasciassero).

Ok, tanti saluti,

Stieg


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