sabato 26 ottobre 2019

EGITTO. Quando le masse prendono l’iniziativa




( tratto da The Revolutionary Socialists - traduzione di Pino Dragoni)

Ancora una volta le masse hanno dimostrato di essere di gran lunga più avanti dell’intellighenzia politica, prendendola di sorpresa quando in migliaia hanno risposto all’appello di Mohammed Ali a scendere in strada e a manifestare contro al-Sisi.
Hanno intonato di nuovo i canti e gli slogan della rivoluzione del gennaio 2011 nelle piazze e nelle strade, nonostante il rischio di subire arresti e una dura repressione. Le manifestazioni di venerdì 20 settembre nelle città egiziane rappresentano un avanzamento qualitativo nel percorso dell’opposizione al regime di al-Sisi. Il muro della paura creato da anni di uccisioni, arresti e torture ha cominciato a infrangersi, con tutto ciò che questo può significare in termini di possibilità di un movimento di massa e di resistenza nel prossimo periodo.
In molti parlano di complotti e divisioni interne al regime per spiegare questa ondata di manifestazioni, sottolineando la relativa riluttanza della polizia nel reprimere le proteste. Idee come queste riflettono una grave mancanza di fiducia nelle masse e nella loro abilità di superare le sconfitte del passato e sfidare ancora una volta il regime. Inoltre, sono indice di una mancata consapevolezza del fatto che le masse che oggi si oppongono al regime non sono le stesse che hanno partecipato alla rivoluzione di gennaio.
Questo non significa ovviamente che le divisioni e le fratture nella coalizione dominante instaurata dal colpo di stato del 2013 non abbiano un ruolo nell’attuale momento politico. Anzi, sono un elemento essenziale di questo scenario. Divisioni e fratture come queste solitamente annunciano l’emergere di un movimento di massa dal basso (che può prendere una direzione riformista o rivoluzionaria), perché mandano un segnale chiaro alle masse che le difese del regime si stanno facendo più deboli e iniziano a collassare.
È impossibile capire le potenzialità del movimento attuale senza comprendere la natura della crisi che sta attraversando il regime militare. Al-Sisi è salito al potere a capo di una contro-rivoluzione, con l’obiettivo chiaro di sradicare il movimento politico di massa nato dalla rivoluzione del gennaio 2011. È riuscito a creare una base sociale formata da una vasta sezione della classe capitalista e della classe media a sostegno del suo programma di dittatura militare. La ratio di questo sostegno è stato il panico che la rivoluzione di gennaio ha generato tra queste classi: panico nei confronti dell’ondata di scioperi, delle proteste sociali e dei lavoratori, e dei movimenti politici giovanili che chiedevano giustizia, democrazia e libertà. Sono stati presi dal panico anche per l’ascesa dei movimenti islamisti e la loro importanza sulla scena politica.
L’accordo era chiaro. La borghesia egiziana avrebbe ceduto sia le sue ambizioni a gestire una parte del potere sia una quota significativa dei propri profitti all’istituzione militare, in cambio dello sradicamento della rivoluzione che ne minacciava gli interessi.
Questo genere di accordi non sono una novità. In cambio della protezione da una rivoluzione e dalle minacce dal basso le borghesie sono spesso disposte a fare enormi concessioni a un uomo forte militare. Ma la situazione creata da questo tipo di accordi ha un carattere eccezionale e temporaneo. Una volta che la rivoluzione è stata sconfitta definitivamente, i movimenti politici e sociali che minacciavano il vecchio regime sono stati eliminati, viene ristabilito l’ordine dalle forze armate e i rivoluzionari sono finiti in prigione, in esilio o al cimitero, l’accordo di un tempo diventa un fardello insopportabile per la borghesia.
Così, l’uomo forte militare da eroe e salvatore si trasforma nel tiranno corrotto da cacciare. È proprio la sua permanenza al potere a minacciare la stabilità e immediatamente iniziano a comparire fratture nell’alleanza nata dalla “necessità” imposta dalle circostanze della rivoluzione.
D’altra parte, la crisi causata dalla rivoluzione ha portato a una ricomposizione degli equilibri di forze all’interno dello Stato stesso. Nell’era Mubarak, il regime si fondava su un delicato equilibrio tra la presidenza, l’esercito e il ministero dell’Interno. La rivoluzione ha stravolto questo assetto e così l’esercito ha “messo i piedi in testa” al ministero dell’Interno (per dirla con le parole usate da Mohammed Ali) e la presidenza ha “messo i piedi in testa” all’esercito.
Tutti hanno accettato la situazione perché si trattava di un’eccezione e di una necessità temporanea per garantire il successo della contro-rivoluzione e il consolidarsi del golpe. Ma il tentativo di al-Sisi di trasformare questa nuova situazione da un’eccezione a un dominio a lungo termine (come ha dimostrato con la riforma costituzionale) ha generato fratture tra le diverse istituzioni statali e al loro interno.
Anche la relativa ripresa economica (frutto da un lato del crescente impoverimento dell’austerità e dall’altro dell’espansione dei cosiddetti mega-progetti interamente finanziati da prestiti occidentali e del Golfo) è di natura eccezionale e temporanea. Ad esempio, le nuove città come la “Nuova capitale amministrativa” e la “Nuova El-Alamein”, con le loro immense infrastrutture e i miliardi di dollari che hanno risucchiato, non sono finalizzate all’industria, all’agricoltura, e nemmeno al turismo, e quindi non genereranno profitti o entrate per ripagare i prestiti, figurarsi gli interessi.
Nessun regime politico può sopravvivere a lungo usando soltanto la repressione. C’è bisogno di un qualche tipo di ideologia che crei un certo grado di legittimità per il regime tra alcuni settori della popolazione. La paura può costituire la base della legittimità in circostanze eccezionali e temporanee, ma perde di efficacia se il regime tenta di usarla per stabilizzare il proprio dominio. Questo è ciò che ha tentato al-Sisi, soprattutto dal momento in cui ha realizzato la riforma costituzionale, e questo è ciò oggi sta esplodendo in faccia alla sua dittatura militare.
Siamo di fronte al completo collasso della legittimità del regime e all’emergere di una nuova coscienza popolare che è ostile al regime e consapevole della sua bruttezza, del suo fallimento e della sua corruzione. Questa coscienza popolare non si fa più ingannare da affermazioni semplicistiche sui pericoli del terrorismo e dei Fratelli Musulman, o sul caos e sulla Siria e l’Iraq. Non tollera più le politiche di impoverimento e di austerità, mentre si spendono miliardi per i palazzi presidenziali, i quartieri per ricchi, l’esercito, la polizia e i grandi imprenditori.
Ma questo vuol dire che siamo sull’orlo di una nuova rivoluzione, o meglio di una situazione rivoluzionaria? Le fratture nell’alleanza di classe dominante e l’esplosione della rabbia contro al-Sisi e il suo regime rappresentano realmente un avanzamento qualitativo. Ma questo non significa che il regime sia sull’orlo del collasso, o che il processo rivoluzionario sarà facile o breve. Gli inizi del crollo del muro della paura e l’esplosione dell’attuale ondata di rabbia sono importanti ma anche pericolosi.
Ma sono solo l’inizio di una lunga strada verso la cancellazione degli effetti della sconfitta che ha messo fine alla rivoluzione del gennaio 2011 e della ricostruzione delle fondamenta della resistenza nelle università, nei luoghi di lavoro, nei sindacati e nelle organizzazioni professionali. Alla fine di questa strada le masse riconquisteranno la fiducia nella propria capacità di realizzare il cambiamento e nella fattibilità di un progetto rivoluzionario. Tutto ciò richiederà un duro lavoro organizzato e non avverrà certo da un giorno all’altro.
Dobbiamo immediatamente partire da questo passo in avanti qualitativo compiuto dalle masse. Prima di tutto dobbiamo costruire un fronte unito di tutto lo spettro delle forze e dei gruppi di opposizione per poter interagire con il movimento di massa e sviluppare un programma di rivendicazioni che vadano oltre il regime di al-Sisi e il governo militare.
Secondariamente, dobbiamo sfruttare tutte le aperture che sono cominciate a comparire nelle difese del regime, per ricostruire i sindacati, l’organizzazione studentesca e politica e per ripristinare gli spazi politici che la contro-rivoluzione ha chiuso con la forza. Abbiamo davanti una battaglia lunga e difficile ed è già iniziata con determinazione. Le masse hanno preso l’iniziativa e ora le forze politiche rivoluzionarie devono mettersi al passo.

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