( tratto da The Revolutionary Socialists - traduzione di
Pino Dragoni)
Ancora una volta le masse hanno
dimostrato di essere di gran lunga più avanti dell’intellighenzia politica,
prendendola di sorpresa quando in migliaia hanno risposto all’appello di
Mohammed Ali a scendere in strada e a manifestare contro al-Sisi.
Hanno intonato di nuovo i canti e gli
slogan della rivoluzione del gennaio 2011 nelle piazze e nelle strade,
nonostante il rischio di subire arresti e una dura repressione. Le manifestazioni di venerdì 20 settembre nelle città egiziane
rappresentano un avanzamento qualitativo nel percorso dell’opposizione al
regime di al-Sisi. Il muro della paura creato da anni di uccisioni, arresti e
torture ha cominciato a infrangersi, con tutto ciò che questo
può significare in termini di possibilità di un movimento di massa e di
resistenza nel prossimo periodo.
In molti parlano di complotti e divisioni
interne al regime per spiegare questa ondata di manifestazioni, sottolineando
la relativa riluttanza della polizia nel reprimere le proteste. Idee come
queste riflettono una grave mancanza di fiducia nelle masse e nella loro
abilità di superare le sconfitte del passato e sfidare ancora una volta il
regime. Inoltre, sono indice di una mancata consapevolezza del fatto che le
masse che oggi si oppongono al regime non sono le stesse che hanno partecipato
alla rivoluzione di gennaio.
Questo non significa ovviamente che le
divisioni e le fratture nella coalizione dominante instaurata dal colpo di
stato del 2013 non abbiano un ruolo nell’attuale momento politico. Anzi, sono
un elemento essenziale di questo scenario. Divisioni e fratture
come queste solitamente annunciano l’emergere di un movimento di massa dal
basso (che può prendere una direzione riformista o rivoluzionaria), perché
mandano un segnale chiaro alle masse che le difese del regime si stanno facendo
più deboli e iniziano a collassare.
È impossibile capire le potenzialità del
movimento attuale senza comprendere la natura della crisi che sta attraversando
il regime militare. Al-Sisi è salito al
potere a capo di una contro-rivoluzione, con l’obiettivo chiaro di sradicare il
movimento politico di massa nato dalla rivoluzione del gennaio 2011. È riuscito
a creare una base sociale formata da una vasta sezione della classe capitalista
e della classe media a sostegno del suo programma di
dittatura militare. La ratio di questo
sostegno è stato il panico che la rivoluzione di gennaio ha generato tra queste
classi: panico nei confronti dell’ondata di scioperi, delle proteste sociali e
dei lavoratori, e dei movimenti politici giovanili che chiedevano giustizia,
democrazia e libertà. Sono stati presi dal panico anche
per l’ascesa dei movimenti islamisti e la loro importanza sulla scena politica.
L’accordo era chiaro. La borghesia egiziana avrebbe ceduto sia le sue ambizioni a gestire una
parte del potere sia una quota significativa dei propri profitti
all’istituzione militare, in cambio dello sradicamento della rivoluzione che ne
minacciava gli interessi.
Questo genere di accordi non sono una
novità. In cambio della protezione da una rivoluzione e dalle minacce dal basso
le borghesie sono spesso disposte a fare enormi concessioni a un uomo forte
militare. Ma la situazione creata da questo tipo di accordi ha un carattere
eccezionale e temporaneo. Una volta che la rivoluzione è stata sconfitta
definitivamente, i movimenti politici e sociali che minacciavano il vecchio
regime sono stati eliminati, viene ristabilito l’ordine dalle forze armate e i
rivoluzionari sono finiti in prigione, in esilio o al cimitero, l’accordo di un
tempo diventa un fardello insopportabile per la borghesia.
Così, l’uomo forte militare da eroe e
salvatore si trasforma nel tiranno corrotto da cacciare. È proprio la sua permanenza al potere a minacciare la stabilità e
immediatamente iniziano a comparire fratture nell’alleanza nata dalla
“necessità” imposta dalle circostanze della rivoluzione.
D’altra parte, la crisi causata dalla
rivoluzione ha portato a una ricomposizione degli equilibri di forze
all’interno dello Stato stesso. Nell’era Mubarak, il
regime si fondava su un delicato equilibrio tra la presidenza, l’esercito e il
ministero dell’Interno. La rivoluzione ha stravolto questo assetto e così
l’esercito ha “messo i piedi in testa” al ministero dell’Interno (per
dirla con le parole usate da Mohammed Ali) e la presidenza ha
“messo i piedi in testa” all’esercito.
Tutti hanno accettato la situazione perché
si trattava di un’eccezione e di una necessità temporanea per garantire il
successo della contro-rivoluzione e il consolidarsi del golpe. Ma il tentativo di al-Sisi di trasformare questa nuova situazione da
un’eccezione a un dominio a lungo termine (come ha dimostrato con la riforma
costituzionale) ha generato fratture tra le diverse istituzioni statali e al
loro interno.
Anche la relativa ripresa economica (frutto
da un lato del crescente impoverimento dell’austerità e dall’altro
dell’espansione dei cosiddetti mega-progetti interamente finanziati da prestiti
occidentali e del Golfo) è di natura eccezionale e temporanea. Ad esempio, le
nuove città come la “Nuova capitale amministrativa” e la “Nuova El-Alamein”,
con le loro immense infrastrutture e i miliardi di dollari che hanno
risucchiato, non sono finalizzate all’industria, all’agricoltura, e nemmeno al
turismo, e quindi non genereranno profitti o entrate per ripagare i prestiti,
figurarsi gli interessi.
Nessun regime politico può
sopravvivere a lungo usando soltanto la repressione. C’è bisogno di un qualche
tipo di ideologia che crei un certo grado di legittimità per il regime tra
alcuni settori della popolazione. La paura può costituire la base della
legittimità in circostanze eccezionali e temporanee, ma perde di efficacia se
il regime tenta di usarla per stabilizzare il proprio dominio. Questo è ciò che ha tentato al-Sisi, soprattutto
dal momento in cui ha realizzato la riforma costituzionale, e questo è ciò oggi
sta esplodendo in faccia alla sua dittatura militare.
Siamo di fronte al completo collasso della
legittimità del regime e all’emergere di una nuova coscienza popolare che è
ostile al regime e consapevole della sua bruttezza, del suo fallimento e della
sua corruzione. Questa coscienza
popolare non si fa più ingannare da affermazioni semplicistiche sui pericoli
del terrorismo e dei Fratelli Musulman, o sul caos e sulla Siria e l’Iraq. Non
tollera più le politiche di impoverimento e di austerità, mentre si spendono
miliardi per i palazzi presidenziali, i quartieri per ricchi, l’esercito, la
polizia e i grandi imprenditori.
Ma questo vuol dire che siamo sull’orlo di
una nuova rivoluzione, o meglio di una situazione rivoluzionaria? Le fratture
nell’alleanza di classe dominante e l’esplosione della rabbia contro al-Sisi e
il suo regime rappresentano realmente un avanzamento qualitativo. Ma questo non significa che il regime sia sull’orlo del collasso, o che il
processo rivoluzionario sarà facile o breve. Gli inizi del
crollo del muro della paura e l’esplosione dell’attuale ondata di rabbia sono
importanti ma anche pericolosi.
Ma sono solo l’inizio di una lunga strada
verso la cancellazione degli effetti della sconfitta che ha messo fine alla
rivoluzione del gennaio 2011 e della ricostruzione delle fondamenta della
resistenza nelle università, nei luoghi di lavoro, nei sindacati e nelle
organizzazioni professionali. Alla fine di questa
strada le masse riconquisteranno la fiducia nella propria capacità di
realizzare il cambiamento e nella fattibilità di un progetto rivoluzionario.
Tutto ciò richiederà un duro lavoro organizzato e non avverrà certo da un
giorno all’altro.
Dobbiamo immediatamente partire da questo
passo in avanti qualitativo compiuto dalle masse. Prima di tutto dobbiamo
costruire un fronte unito di tutto lo spettro delle forze e dei gruppi di
opposizione per poter interagire con il movimento di massa e sviluppare un
programma di rivendicazioni che vadano oltre il regime di al-Sisi e il governo
militare.
Secondariamente, dobbiamo
sfruttare tutte le aperture che sono cominciate a comparire nelle difese del
regime, per ricostruire i sindacati, l’organizzazione studentesca e politica e
per ripristinare gli spazi politici che la contro-rivoluzione ha chiuso con la
forza. Abbiamo davanti una battaglia lunga e difficile ed è già iniziata con
determinazione. Le masse hanno preso l’iniziativa e ora le forze politiche
rivoluzionarie devono mettersi al passo.
Nessun commento:
Posta un commento