Che agli alunni sfugga la natura della difficoltà
della versione mi appare evidente: appena consegnato il testo da tradurre, i
candidati si precipitano a cercare i significati delle parole sul
vocabolario. I risultati sono univoci: per la maggior parte le versioni
consistono in una assurda sequenza di frasi quasi tutte senza senso. Lo studio
delle lingue classiche finisce per suggerire agli studenti che la frase
sgrammaticata e informe, il discorso insensato e privo di contenuto siano
espressioni linguistiche accettabili. Per noi il periodo complesso, la
ricchezza lessicale, l’etimologia e il senso storico sono i vantaggi più
evidenti dello studio delle lingue classiche. Anche nel mondo tedesco a cavallo
tra Settecento e Ottocento sembrava che la cultura moderna dovesse rendersi
autonoma e che lo studio delle opere antiche si perdesse in un’erudizione
oziosa. A questa contestazione Hegel
replicava innanzitutto dal lato del contenuto. A chi sosteneva che
l’attività didattica si può esercitare su qualunque materia, Hegel rispondeva
che l’esercizio non è indifferente alla materia: solo un contenuto valido e
significativo corrobora la mente, le procura contegno, saggezza, presenza di
spirito, senza le quali essa non acquisisce la versatilità. “Chi non ha conosciuto
le opere degli antichi ha vissuto senza conoscere la bellezza”. Il nutrimento
offerto dalle opere antiche non è però soltanto nel loro contenuto; non meno
importante è la forma in cui è realizzato. Il rigoroso studio grammaticale
delle lingue classiche si raccomanda così – questa la conclusione di Hegel –
come uno dei mezzi didattici più nobili e universali. Se la didattica
gentiliana era guastata da intenzioni classiste; l’attuale scuola pubblica non
fa meglio sotto il profilo sociale: disprezzando gli obiettivi didattici, essa
mantiene ignorante chi la frequenta.
1.
Osservando[1] una volta il corso di recupero di
latino di un mio collega che con meravigliosa finezza filologica estraeva
davanti agli alunni morfologia, semantica ed etimologia da ogni parola, mi sono
chiesto se gli amorevoli indugi di quel recupero non comportassero la rinuncia
ai vantaggi della quantità: è almeno probabile che la traduzione di cinquanta frasi
permetta di memorizzare più parole e più regole sintattiche, permetta di
acquisire più familiarità con lo spirito della lingua, di quanto possa fare lo
scrutinio dei misteri di tre frasi. Il mio collega procedeva
secondo il suo apprendistato nel liceo gentiliano che, sicuro del lavoro della
scuola media e incurante se non desideroso di future perdite di alunni, si
dedicava di preferenza all’approfondimento filologico.
L’eredità dell’impostazione gentiliana e la fine dello studio del latino e
della grammatica italiana alle medie hanno generato la convinzione diffusa
della difficoltà enorme, addirittura insormontabile della versione.
Eppure la traduzione di testi scritti richiede una competenza meno elevata di
quella richiesta da una lingua straniera – infatti è già meno agevole capire
chi la parla, e parlarla e redigervi testi scritti è ancora più difficile. Non
solo, tra il lessico italiano e quello latino (un po’ meno quello greco) si
presenta una forte somiglianza. Risulta dunque un’unica vera difficoltà di
traduzione, quella per cui le lingue classiche si differenziano dall’inglese e
dal francese, ma sono simili al tedesco: l’ordine tipico delle loro frasi non è
quello a cui siamo abituati dalla nostra lingua: soggetto – predicato –
complementi, ma uno diverso: soggetto – complementi – predicato.
Che agli alunni sfugga la natura della difficoltà della versione mi appare
evidente durante la sorveglianza agli esami di Stato. Appena consegnato
e letto il testo da tradurre, si apre la fase ventilata dello sfogliare il
vocabolario: i candidati si precipitano a cercare i significati delle parole.
Ma iniziare così la versione è il modo migliore per fallirla: le parole hanno
più significati e la loro ambiguità si accentua a scuola, che propone non le
lingue usate in un unico momento storico, ma sviluppate in una lunghissima
diacronia. I risultati rilevati in fase di correzione sono univoci: per
la maggior parte le versioni non tanto contengono errori gravi
di comprensione, quanto consistono in una assurda sequenza di frasi quasi tutte
senza senso. Questo fallimento generale non è rilevato dai commissari che, in
esecuzione del principio ‘inclusivo’ della scuola attuale, accettano tutto e
trasformano la valutazione da atto del riconoscere il valore
ad atto del dare un valore. Che alunni con simili abilità di
traduzione siano stati ammessi all’esame di Stato dimostra peraltro che
l’atteggiamento valorizzante dei commissari è stato già
proprio dei docenti nei precedenti anni di liceo.
La conclusione non può che essere questa: attualmente lo studio delle
lingue classiche suggerisce agli studenti che la frase sgrammaticata e informe,
il discorso insensato e privo di contenuto siano espressioni linguistiche
accettabili, che gli autori classici, pur essendo i creatori del nostro
linguaggio e della nostra cultura, ci abbiano lasciato testi adeguatamente
traducibili in modo assurdo. In altri termini: lo studio delle lingue
classiche, che nella scuola gentiliana era la palestra delle competenze più
raffinate, è diventato nella nuova scuola la zona oscura in cui cessa di valere
la logica e si regredisce alla libera associazione.
Tutto ciò sembra non costituire un danno evidente perché il liceo classico
attrae scarse iscrizioni e soltanto i pochi diplomati che sceglieranno gli studi
letterari sentiranno (c’è almeno da sperarlo) la sofferenza per la loro
impreparazione. Ma non soffrire non significa essere in salute. Anche nel caso
meno grave che la convinzione di poter scrivere impunemente assurdità sia
arginata entro l’ambito nel quale ci si è abituati a farlo e non esondi su
tutta l’intelligenza, resta tuttavia il danno della mancata acquisizione delle
conoscenze e delle competenze che nascono dallo studio delle lettere classiche.
Queste hanno la particolarità di essere studiate su testi che il tempo ha
selezionato in modo drastico, spesso crudele; per questa selezione esse sono
lingue dotte, lingue non funzionali ai bisogni quotidiani, per i
quali spesso sarebbe sufficiente la gestualità e l’espressione linguistica si
aggiunge per cortesia, ma dirette all’argomentazione – filosofica, storica,
retorica – e alla forma artistica. Esse non sono lingue morte (è
morto il tronco da cui si diparte il ramo?), come si sente spesso, ma sono il
fondamento della cultura, perché nella maggioranza delle attuali lingue europee
le forme sintattiche sono debitrici della sintassi latina e i termini astratti
derivano dal greco attraverso la mediazione del latino. Lo studio delle lingue
classiche permette dunque di acquisire la padronanza del periodo complesso, di
tesaurizzare le parole astratte indispensabili a ogni discorso teorico e di
connetterle ai gesti a cui in definitiva risalgono. A questo proposito si
pensi, per esempio, alla parola ‘concetto’ la cui etimologia riconduce alla
presa riuscita dell’oggetto (da cui anche il tedesco ‘Begriff’).
L’etimologia non può sostituire la semantica e la sintattica; assicurando però
la connessione del termine astratto al gesto, è uno strumento indispensabile
per afferrarne il contenuto, dunque per impedire che le catene argomentative si
risolvano in un calcolo, che i termini diventino pure convenzioni esterne e
quindi più sorgenti di perplessità che elementi di scienza.
Che la complessità sintattica, il lessico astratto e l’etimologia siano
appresi direttamente dalle opere classiche ha un ulteriore significato:
confutare la convinzione ingenua che il mondo sia appena venuto fuori dal
nulla, che tutto sia possibile e dipenda dalla nostra spontanea creatività, che
dunque ci si dia alla creatività prima di avere imparato. Le lingue classiche
sono l’ostacolo più importante alla presunzione e al dilettantismo.
2.
Per noi il periodo complesso, la ricchezza lessicale, l’etimologia e il
senso storico sono i vantaggi più evidenti dello studio delle lingue classiche.
Altrove e in passato non è stato così. Nel mondo tedesco a cavallo tra
Settecento e Ottocento il periodo complesso non era ancora stato emarginato dal
giornalismo, le lingue classiche non costituivano il passato della lingua in
uso e quindi non offrivano approfondimenti etimologici, l’ignoranza non era
così fitta da comportare il disprezzo del passato. A quel tempo era possibile
scorgere altri motivi per lo studio delle lingue classiche. Quelli più decisivi
sono indicati in uno dei discorsi ginnasiali di Hegel[2].
In accordo con lo spirito della sua filosofia, a differenza
dell’intelletto, che è la capacità di scoprire le costanti generali che
regolano l’inquietudine della realtà, ragione è la facoltà superiore che
dapprima, come dialettica, scopre le antinomie nel generale, poi,
come speculazione, le risolve, così da pervenire a conoscere
l’essenza della realtà. In pedagogia la dialettica si mostra
come esigenza di estraniarsi da sé del soggetto, come esigenza di cercarsi nel
lontano; la speculazione è invece un ritrovarsi nel
lontano, quindi il conciliare la sua estraneità e ritornarvi a sé. Il sistema
filosofico hegeliano contiene dunque una critica profonda di ogni pedagogia che
presupponga uno sviluppo individuale secondo un progresso rettilineo
dall’incompetenza alla competenza e si arrovelli per bruciarne le tappe:
contrariamente a un pregiudizio molto diffuso, la filosofia hegeliana non è
dominata dall’idea di progresso, ma la coniuga con la circolarità; così che lo
sviluppo non è indeterminato, ma ha come fine il ritorno all’inizio, e la sua
fecondità è condizionata dalla capacità di consegnarsi al lontano.
Ripercorriamo in breve le argomentazioni del discorso di Hegel. Egli
osserva che in passato l’apprendimento del latino era a tal punto la parte più
essenziale dello studio teorico, che alle altre discipline si riconosceva
utilità pratica, non dignità formativa. In seguito la giusta esigenza che un
popolo esprima nella propria lingua i tesori della conoscenza scientifica, i
metodi meccanici o erronei adottati nello studio del latino e la preoccupazione
per il ritardo con cui si acquisivano molte importanti conoscenze e abilità
misero in crisi la certezza che il latino fosse il mezzo formativo principale
se non unico. Dalla crisi è emerso un sistema scolastico distinto su tre
livelli: quello che insegna nozioni e abilità pratiche, quello che offre
competenze superiori senza la letteratura antica, quello che ha conservato lo
studio delle lingue classiche come base dello studio teorico.
Si contestò tuttavia, e lo si fa ancora oggi, che gli studi classici
dovessero conservare questa funzione: sembrava che la cultura moderna dovesse
rendersi autonoma e che lo studio delle opere antiche si perdesse in
un’erudizione oziosa.
A questa contestazione Hegel risponde innanzitutto dal lato del contenuto.
La letteratura greca, e poi quella latina, rappresentano l’eccellenza da cui
occorre partire nell’azione didattica: “Chi non ha conosciuto le opere degli
antichi ha vissuto senza conoscere la bellezza”. A chi ribatte che l’attività
didattica si può esercitare su qualunque materia, Hegel risponde che
l’esercizio non è indifferente alla materia, che questa è un nutrimento per la
mente che vi si esercita: solo un contenuto valido e significativo corrobora la
mente, le procura contegno, saggezza, presenza di spirito, senza le quali essa
non acquisisce la versatilità.
Il nutrimento offerto dalle opere antiche non è però soltanto nel loro
contenuto; non meno importante è la forma in cui è realizzato.
Poiché la forma va perduta nelle traduzioni, occorre imparare le lingue
classiche. Lo sforzo richiesto per imparare il latino e il greco appare un
indugio nel progresso dell’apprendimento; ma questo indugio è un bisogno
essenziale della mente. Perché siano oggetti conosciuti, la natura
e la mente devono prima essere oggetti, devono cioè essere estranei alla
mente; la cultura teorica non può dunque che iniziare dal non-immediato, dallo
straniero, da ciò che esiste soltanto nel ricordo. L’esigenza di separazione è
così necessaria da mostrarsi come istinto, come forza di attrazione esercitata
dal lontano. Cercare la profondità nella lontananza potrebbe sembrare un
inganno, ma è un inganno necessario, perché la forza della mente si misura
dall’ampiezza del suo scostamento dal centro in cui era immersa e in cui aspira
a ritornare. L’opportunità di portare la mente dei giovani in un mondo lontano
e straniero poggia sull’impulso centrifugo che la domina.
Il muro del mondo antico e della sua lingua, che separa da sé stessi,
contiene d’altra parte anche i fili del ritorno a sé: la meccanicità
nell’apprendimento delle lingue classiche è qualcosa di più di un male
necessario per arrivare ai contenuti eccellenti; proprio essa è l’estraneo che
la mente assimila per tornare a sé stessa. Alla meccanicità si connette infatti
lo studio della grammatica, che non può essere mai abbastanza celebrato perché
è l’inizio dell’educazione logica: la grammatica procura il primo incontro con
le categorie, cioè con i prodotti propri dell’intelligenza. Per la loro
semplicità esse sono quanto di più comprensibile, adatte dunque a essere
apprese da menti giovani non ancora capaci di assimilare il molteplice nella
sua ricchezza; per loro tramite l’intelligenza inizia a comprendere sé stessa;
i nomi con cui la grammatica le indica permettono infatti di distinguerle, e
possedere queste differenze è il primo passo per acquisire la capacità di
muoversi tra le astrazioni, presupposta dallo studio della logica. La
grammatica, contrariamente a un’opinione comune, è dunque il fine, non il mezzo,
dell’apprendere.
Mentre infine l’abitudine irriflessa guida la comprensione della lingua
madre, la comprensione delle lingue classiche dipende dalla conoscenza e
dall’applicazione delle loro regole; il lavoro sulle lingue classiche genera
dunque l’abitudine a sussumere il particolare sotto il generale e a
particolarizzare il generale; propriamente in questa abitudine a superare il
contrasto tra particolare e generale consiste la ragione. Il
rigoroso studio grammaticale delle lingue classiche si raccomanda così – questa
la conclusione di Hegel – come uno dei mezzi didattici più nobili e universali.
3.
L’inquietudine per la decadenza della cultura liceale in Italia mi induce a
espormi al rimprovero di dilettantismo e a divulgare un procedimento il cui uso
mi facilita notevolmente la traduzione dei testi. Esso presuppone la padronanza
della logica della frase e del periodo: occorre saper distinguere la principale
dalle secondarie, il predicato e il soggetto; presuppone quindi la conoscenza
delle congiunzioni, dei pronomi relativi e dei participi. La successione dei
passi, da osservare rigidamente, è la seguente:
·
Prima di leggere, segnare con una doppia sbarra “||” il più vicino segno
forte di punteggiatura (il punto, il punto e virgola, il due punti e i segni
corrispondenti nel greco), in modo da concentrare l’attenzione al periodo da
tradurre.
·
Leggere e rileggere fino alla doppia sbarra in modo da eliminare errori.
·
Individuare gli incisi e metterli tra parentesi “(…)” per posticiparne la
traduzione.
·
Per lo stesso motivo, cercando le congiunzioni subordinanti, i pronomi
relativi e i participi, individuare le secondarie e metterle tra parentesi.
·
Individuare la principale.
·
Individuarne il predicato (in latino è particolarmente facile perché le sue
terze persone, a differenza di quasi tutte le altre parole, finiscono con la
lettera ‘t’) e sottolinearlo “___”(elegantemente, se possibile); isolare la
principale con una sbarra “|” da eventuali coordinate; osservando la persona e
il numero del predicato, individuare il soggetto e segnarlo con un cerchio
(elegantemente, se possibile); se il verbo è transitivo, individuare il
complemento oggetto.
·
Solo a questo punto precisare, con l’aiuto del vocabolario se occorre, il
significato delle parole della principale e tradurla. Memorizzare la traduzione
prima di procedere.
·
Tradurre gli incisi.
·
Tradurre le coordinate usando lo stesso metodo.
·
Individuare i predicati delle secondarie e mediante persona e numero
risalire ai loro soggetti che devono essere segnati (elegantemente, se
possibile) con una “x” sopra la prima sillaba.
·
Controllare la nitidezza della traduzione e applicare lo stesso metodo ai
periodi successivi.
Come si vede, questo procedimento, oltre al vantaggio di affrontare
innanzitutto la difficoltà più grave, quella del diverso ordine delle parole
nelle frasi, e di individuare gli elementi centrali del periodo, consente il
ricorso al vocabolario soltanto dopo che l’emersione del contesto aiuta a
selezionare il giusto significato dei singoli termini.
L’altezza degli obiettivi della didattica gentiliana era guastata da
intenzioni classiste; tuttavia l’attuale scuola pubblica,
assoggettata all’imperativo irrazionale della “vera inclusività”, rinuncia a
insegnare, né fa meglio di quella gentiliana sotto il profilo sociale:
disprezzando gli obiettivi didattici, essa mantiene ignorante chi la frequenta
e lo rallenta rispetto a chi frequenta la scuola a pagamento. Nel suo contesto
la preoccupazione di rimodulare il primo approccio alle lingue classiche può
soltanto far sorridere. Questo tentativo valga almeno come augurio di tempi
migliori.
[1] Ringrazio il
prof. Fausto Di Biase per i preziosi consigli durante la stesura di queste
riflessioni.
[2] Una nostra
traduzione del discorso menzionato è disponibile al seguente indirizzo: http://www.badiale-tringali.it/2016/08/un-discorso-di-hegel.html
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