Elegia per Idy Diene,
senegalese, venditore di ombrelli, ammazzato a Firenze il 5 marzo (*)
Son passato a ripa d’Arno questa sera
là dove degli immensi scalini nel letto del
fiume
fanno frangere l’acqua in una cascata
ripetuta.
C’era come un sordo grattare, un ringhio di
belva
un rumore di tempesta imminente,
ma nascosta, celata agli sguardi.
Ho visto il lumino, il mucchietto di fiori
la bicicletta legata lì di fianco.
La pioggia scollerà il volto stampato sotto il
nome del ponte
e perderà questi poveri testimoni: il lumino
ed i fiori
e dell’uomo ucciso dalla belva dell’uomo
non sarà che uno scuro ricordo di morte
e quel poco di sangue nell’acqua passata.
Nella mia piccola cosmogonia c’è un Pantheon
di simboli
uno di questi è l’ombrello. C’è un film che ho
visto
al tempo in cui mi stavo facendo uomo
che inizia con un uomo nella pioggia ed una
donna
lui dice “Ombrello?” lei risponde “Ombrello e
protezione”.
Hanno sparato all’uomo dell’ombrello,
hanno ucciso la protezione che dobbiamo ad
ognuno
e siamo per sempre bagnati da tutta la pioggia
del Mondo.
L’ombrello come la bicicletta è un piccolo
capolavoro
oggetto sacro di una tecnologia minima e
geniale
attrezzo umile e prezioso refrattario alla
proprietà:
quanti ombrelli ho perduto ed ho rubato?
L’ombrello è di chi ne ha bisogno.
Hanno sparato all’uomo dell’ombrello
e siamo per sempre bagnati da tutta la pioggia
del Mondo.
Ho accusato i razzisti, osceni di potere,
chi fa strame e non bada che sta gettando
noccioline
al mostro della Storia, che ci sbranerà ancora
una volta.
Vi ho accusato fascisti del terzo millennio,
che siete pochi, pochissimi
e per quanto pochissimi appestate l’aria di
lezzo di morte
ma siete come il proiettile, inutile orrore
di cui è carica la grande pistola sociale
carica e pronta ancora a sparare.
Ho accusato il Capitale, che da sempre sta al
comando
che fa affari vendendo la vita e tutto
mangiando.
Ma oggi non perdono noi altri, non perdono chi
s’è distratto
chi ha rimandato, chi ha sbagliato, chi non ha
potuto.
Hanno sparato all’uomo dell’ombrello, non
l’abbiamo protetto
e siamo per sempre bagnati da tutta la pioggia
del Mondo.
Non perdono questa chitarra tarlata di buone
intenzioni
queste stupide canzoni cui ho dedicato metà
della vita
metà a scriverle, metà a cantarle, queste
inutili canzoni
che nemmeno in mille anni cambieranno la testa
di nessuno.
Non perdono i mille e mille libri accumulati
che più che sapere hanno costruito nella mia
casa un muro
dalle cui feritoie forse scorgo l’uomo che
vende gli ombrelli
ma non l’ho salvato, non mi perdono e la vita
ho buttato.
Non perdono certo i falsi compagni
(che ormai fra di loro si chiamano “amici” e
in realtà si odiano tutti)
stanno assieme finché gli serve, dicono “stai
tranquillo”
e già vedi il pugnale nel fianco. Loro sono da
tempo i nemici,
ma voi che come me avevate gli occhi
e avete retto loro il gioco, perché non c’era
altro da fare
a voi non vi perdono più, non avete salvato
l’uomo dell’ombrello.
Non perdono i compagni burocrati divisionisti
che dalla sacra trinità laica hanno strappato
un petalo
hanno preso Libertà e Uguaglianza e hanno
tolto Fraternità
e non sanno che se pure liberi e uguali
siamo anche soli e perduti e assetati e
affamati
e siamo niente se non c’è una mano fraterna.
Sono tre parole che vivono assieme, che da
trecento anni
illuminavano ogni nostro passo.
Non perdono i compagni che festeggiano l’uno
per cento
e che dicono “certo, se ci avessero fatti
passare in Tivù
saremmo di più, saremmo arrivati anche al
tre!”
Come quei somari e quei briganti sulla strada
di Girgenti.
Ditemi un po’, compagni, ebbe migliore
pubblicità il Manifesto di Marx?
(Per non parlare delle opere dei miei compagni
anarchici
che passavano clandestine di mano in mano).
C’era forse la diretta nazionale per la Prima
Internazionale?
Eppure qualcosa loro l’hanno fatta.
Voi non avete salvato l’uomo dell’ombrello,
mentre lui moriva
eravate a festeggiare il vostro voto, e perciò
non vi perdono.
Non perdono i miei compagni anarchici, e non
mi perdono con loro.
Disuniti su tutto, incapaci di fare un fronte
comune
sospettosi soprattutto di noi stessi,
ripiegati su una storia gloriosa
compiaciuti – si direbbe – nel ruolo delle
vittime.
Quanti calci in culo ci darebbe Malatesta con
Durruti!
Quanti calci in culo ci darebbero i marinai di
Kronstad!
Perché passi che non abbiamo difeso la
rivoluzione dallo Stato
ma soprattutto non abbiamo salvato l’uomo
dell’ombrello.
E ora ripasso a ripa d’Arno, la notte si fa
sempre più profonda
la pioggia sta lavando la mia rabbia,
la fa levigata e sorda di pianto e di
vergogna.
Seccherà e si farà tutta di cenere.
Abbiamo poco per rifarci una speranza:
un pugno di cenere nel vento
una macchia di sangue a ripa d’Arno
un tempo che ringhia troppo forte
e vorticante si getta verso il nulla.
Ma di cenere e di sangue è fatto l’uomo
e da questi si dovrà ricominciare
e speriamo che l’uomo dell’ombrello
sia disposto ancora a darci protezione.
Nessun commento:
Posta un commento