«Parlare di Palestina non è mero esercizio di libertà di espressione.
È una forma di lotta per la liberazione del popolo palestinese dal colonialismo
di insediamento israeliano. Se ne parli non solo in nome della libertà
accademica, ma come dovere di fronte alla catastrofe di un popolo».
Lo storico israeliano Ilan Pappe, autore di fondamentali ricerche
storiche sul progetto sionista e i suoi effetti sul popolo palestinese, ha di
fronte una platea nutrita e particolare: gli studenti dell’Università di
Salerno, richiamati da un evento importante.
Insieme all’antropologa palestinese Ruba Salih e ai professori
Gennaro Avallone e Giso Amendola, la rassegna «Femminile Palestinese» curata da
Maria Rosaria Greco ha portato nel campus un tema centrale, decolonizzazione e
libertà accademica, affrontato dagli ospiti in chiavi tra loro connesse, dalla privatizzazione
dell’accademia al rapporto con lo spazio urbano fino ai legami di potere e
visione neocoloniale tra atenei ed élite economiche neoliberiste.
«Il discorso sionista è fondato su basi fragili: la realtà non
coincide con la narrazione – spiega Ilan Pappe – Per questo il mondo accademico
israeliano si è mobilitato: si dovevano rafforzare quelle basi. Identificare i
materiali con cui la narrazione sionista è stata costruita non è solo un
esercizio intellettuale, perché quel discorso ha un impatto sulla vita di un
popolo. Il primo materiale utilizzato è l’assorbimento della Palestina
all’interno della storia dell’Europa. Dalla dichiarazione Balfour, passando per
il piano di partizione dell’Onu del 1947 fino alla dichiarazione di Trump su
Gerusalemme, l’Europa e l’Occidente percepiscono la Palestina come un affare
interno. E questa falsa rappresentazione è stata traslata su Israele. In tale
visione i palestinesi, in quanto arabi e musulmani, sono visti come migranti e
non come nativi».
«Il secondo materiale è la natura del progetto coloniale sionista: un
colonialismo di insediamento del tutto simile a quello perpetrato in Nord
America, Australia e Sudafrica. La presenza di popoli indigeni che non
corrispondevano alla popolazione desiderata dai coloni europei si è tradotta in
genocidio nei primi due casi, in apartheid in Sudafrica e in pulizia etnica in
Palestina. L’idea che gli indigeni siano gli invasori sta alla base di questo
tipo di colonialismo ed è riprodotta dall’accademia che narra la storia della
Palestina in questi termini. E quella israeliana si spinge oltre quando discute
di questione demografica, legittimando le politiche di riduzione del numero di
palestinesi sul territorio. In atto c’è lo stesso processo di disumanizzazione
che il neoliberismo applica ai lavoratori».
Dei legami tra Occidente e Israele abbiamo discusso con lo storico
israeliano a margine dell’incontro di Salerno.
Il 6 dicembre il presidente Usa Trump ha
riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele. Un atto meramente simbolico, che
non modifica lo status della Città Santa, o un atto con effetti concreti?
Non è simbolismo. L’importanza di tale dichiarazione sta nel
messaggio inviato alle Nazioni Unite e al mondo: il diritto internazionale, nel
caso di Israele e Palestina, non conta più. Lo status di Gerusalemme è protetto
dal diritto internazionale e per questo nemmeno gli Stati uniti avevano mai
trasferito l’ambasciata a Gerusalemme. È vero che il diritto internazionale non
è stato mai rispettato da Israele, ma la comunità internazionale ha sempre
sperato che quella legge avesse un significato. La dichiarazione di Trump ha un
effetto concreto: se il diritto internazionale non ha valore a Gerusalemme,
allora non ha valore nemmeno nel resto della Palestina. Qui sta il cuore del riconoscimento:
costringere a un cambio di marcia e di riferimenti politici e dire a chi ha
sempre creduto nel diritto internazionale, nella soluzione a due Stati, nel
processo di pace che tutti questi strumenti non saranno d’aiuto nella lotta
contro il colonialismo di Israele. Si deve dunque pensare a un approccio
diverso, simile a quello che venne adottato contro il Sudafrica dell’apartheid.
Israele è assunto come modello securitario,
sia nel sistema di controllo che nella logica della separazione tra un «noi» e
un «loro», che nella fortezza-Europa si traduce nella chiusura ai rifugiati.
La cosiddetta guerra al terrorismo ha aiutato moltissimo Israele. A
Francia, Belgio, Stati uniti e così via, Israele ha dato consigli e sostegno
sul modo di gestione della comunità musulmana e su come sovvertire o aggirare
il sistema legale per affrontare la cosiddetta minaccia islamica. È diventato
il guru globale della lotta al cosiddetto pericolo islamico. È scioccante
perché la competenza israeliana deriva dalla lotta a un movimento di
liberazione nazionale e non al terrorismo. Eppure questo ruolo è fondamentale
per Israele perché crea l’equazione lotta di liberazione uguale terrorismo. È
nostro compito smentire questa falsa equazione.
Da cosa deriva l’impunità di cui gode Israele
per le violazioni contro il popolo palestinese? È l’effetto
dell’auto-assoluzione del colonialismo europeo, che ha preso parte alla nascita
di Israele, o il sionismo è ormai sfuggito al controllo occidentale?
In Europa l’impunità di Israele ha a che fare con l’Olocausto e con
la questione ebraica che non è stata mai realmente affrontata. L’antisemitismo
europeo non è mai stato sviscerato. Per cui per certe generazioni europee
Israele è uscito dai radar, un capitolo nero da risolvere lasciandolo fare. A
questo vanno aggiunti oggi l’islamofobia, l’eredità coloniale, il neoliberismo
che ha un’alleanza strategica con Israele. Per gli Stati uniti è diverso: qui
l’impunità è figlia del potere delle lobby ebraiche, cristiano-sioniste e
ovviamente di quello dell’industria militare. Penso che l’eredità coloniale sia
solo una delle cause di questa immunità. Quello che sarà interessante vedere è
se le future generazioni occidentali si porteranno ancora dietro il senso di
colpa europeo per l’Olocausto e se gestiranno la questione Israele allo stesso
modo.
Quanto si è modificata nel tempo la società
israeliana? Oggi siamo di fronte ad un popolo sempre più spostato a destra,
come la leadership?
Era inevitabile che la società israeliana si spostasse a destra. La
possibilità che un colonialismo di insediamento potesse essere anche
democratico o socialista era nulla. Il vero Israele si sta mostrando oggi. È un
inevitabile processo storico, sebbene Israele provi a giocare la carta della
democrazia. Passerà del tempo prima che la società israeliana cambi o si
trasformi. Anche se il primo ministro Netanyahu sarà cacciato a causa degli
scandali corruzione che affronta oggi, la natura del regime non cambierà.
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