mercoledì 29 gennaio 2020

Amazon distrugge


Il Premio Mani Tese per il Giornalismo Investigativo e Sociale, lanciato nel 2019 e promosso da Mani Tese con il contributo dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), aveva come obiettivo quello di portare alla luce storie e inchieste relative all’impatto dell’attività d’impresa sui diritti e sull’ambiente.
A vincerlo era stato il team composto da Roberto Pisano, Elisabetta Muratori e Rosario Daniele Guzzo con il progetto d’inchiesta “Amazon: indagine su uno smaltimento al di sopra di ogni sospetto”, che si proponeva di identificare i meccanismi di smaltimento della merce invenduta da parte di Amazon, uno degli attori protagonisti dell’e-commerce a livello globale.

I tre autori erano stati scelti durante la cerimonia di premiazione, tenutasi il 2 maggio 2019 presso la Fondazione Feltrinelli, fra una rosa di sei finalisti da una giuria composta dai giornalisti Gad Lerner, Tiziana Ferrario, Gianluigi Nuzzi, Francesco Loiacono e dal Direttore Comunicazione di AICS Emilio Ciarlo.
Alla selezione dei finalisti del premio avevano contribuito, inoltre, le giornaliste Eva Giovannini e Stefania Prandi e il direttore di Fanpage.it Francesco Piccinini.

AMAZON, UNO SMALTIMENTO
AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO
Dalla distruzione di massa dei beni invenduti a una nuova economia circolare.

di ROSARIO DANIELE GUZZO, ELISABETTA MURATORI, ROBERTO PISANO

1. LIBERI DI DISTRUGGERE
La sequenza di camion disposti sul retro del magazzino si allunga a perdita d’occhio. I gaylord, enormi contenitori riempiti da migliaia di oggetti, sono pronti per essere stivati sugli autotreni in attesa. Sulle scatole la destinazione: destroy.
Secondo le testimonianze raccolte, in Italia il gigante del commercio on-line Amazon distrugge mensilmente fino a 100 mila prodotti nuovi nei poli logistici del territorio. Si tratta di resi danneggiati e beni invenduti: solo una minima parte di questi trova una seconda vita sugli scaffali o diventa un dono. Per il resto delle merci, il capolinea è la pressa di un’azienda incaricata da Amazon allo smaltimento dei beni che non trovano più spazio nelle corsie dei suoi immensi magazzini.
I prodotti condannati alla distruzione hanno gestazione lunga ma vita breve: dalle materie prime per costruirli estratte nell’altro emisfero all’assemblaggio, che avviene spesso molto lontano, fino ai mezzi di trasporto più vari, per arrivare su gomma, rotaia o via mare nei magazzini italiani. E infine, invenduti, ancora avvolti nei loro involucri di plastica, dritti verso il macero.
È nelle pieghe di un regolamento forgiato dalla rapida conquista dei mercati esteri che si gioca la partita della responsabilità. Il prodotto che ordiniamo può avere tre diverse tipologie di provenienza: può essere di proprietà di Amazon oppure di un venditore che si serve solamente di questa vetrina digitale (oggi il 58% delle unità vendute sulla piattaforma). O ancora, la merce di un fornitore esterno che acquista solo i servizi di logistica.

Nell’ultimo caso a decidere delle sorti di resi e prodotti alla fine della scadenza non sarebbe infatti la multinazionale di Seattle, e neanche la sua controllata con sede in Lussemburgo, il piccolo paradiso che accoglie i giganti che vogliono stare con un piede nell’Unione Europea. A disporre la distruzione degli oggetti oltre la giacenza concordata è il fornitore stessopadrone di fare ciò che desidera con la sua merce in virtù di una normativa sulla distruzione volontaria che si sviluppa alla fine degli anni novanta. A eseguire l’eliminazione è invece una piccola azienda dell’indotto locale alla quale viene appaltato lo smaltimento.
Per qualche centesimo in meno. Secondo il tariffario in vigore tra il 2017 e il 2018 le tariffe dello smaltimento rendevano immensamente più conveniente distruggere invece che restituire25 centesimi per unità il costo del reso al fornitore per un articolo di dimensioni standard (fino a 12 chili e dimensioni di 45x34x26cm) contro i 10 centesimi dello smaltimento…

 

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