Per più di un anno Lorena ed io avevamo tentato di porre il problema dei
migranti in arrivo a Trieste. Quelli che in Italia non volevano restare, che
volevano andare oltre, verso il centro e il nord Europa: i mitici paesi del
benessere, cui l’Italia non apparteneva del tutto. C’era anche, spesso, il
richiamo della presenza di parenti e amici, lassù. Queste persone avevano,
prima di fatto e poi anche di “diritto”, il marchio “clandestini” – dopo il rumoroso passaggio
elettorale del capo della Lega al ministero degli interni. Sull’opportunità politica e umana di un
intervento c’erano stati incontri, discussioni e tentativi, senza risultati
apprezzabili. Poi, una foto. Già! Siamo nell’epoca dei social.
La fotografia di un gesto, nel piazzale della
stazione: il gesto di curare dei
piedi feriti dal lungo cammino tra la Bosnia e Trieste – dieci,
quindici, venti giorni, fra boscaglie, rocce, fiumi di un territorio bellissimo
– per chi può permetterselo come paesaggio. Ma per loro, per i migranti e per i profughi, non è un
paesaggio: l’esperienza estetica del paesaggio implica la dimensione
contemplativa, ovvero una condizione del corpo agiata, tranquilla, sicura. In
sintesi: identità giuridica, cittadinanza. In sintesi totale: soldi.
Quando il paesaggio penetra nel corpo come un coltello non è più paesaggio.
Pensiamo a quei fili spinati composti
con innumerevoli piccole lame – mi pare inventati dagli israeliani, o ai denti
di un cane: abbiamo saputo anche questo, cani addestrati ad attaccare l’uomo –
ci hanno raccontato di migranti sbranati da questi cani della polizia croata (ovviamente non abbiamo le
“prove”).
Feriti sono quasi tutti, i piedi di questi
ragazzi afghani, pakistani, iracheni, e anche marocchini, tunisini… soprattutto
di quelli che non hanno i mezzi per pagare i passeur, gli smuggler, per tutto il viaggio
o in parte. Ma in genere quelli che incontriamo sono tutti con i piedi mal ridotti, gonfi,
con vesciche, piccole ferite che molto facilmente s’infettano, anche ferite più
gravi. Abbiamo incontrato, qui a Trieste, anche un caso di congelamento (tamponato con catini
di acqua calda nel centro diurno).
Ebbene: la foto di Lorena che sta medicando un piede ferito su una panchina
del piazzale della stazione ha funzionato come il precipitato di una chimica
emotiva, etica, politica, condensando rapidamente un gruppo di una decina di persone che da
circa un mese e mezzo o due interviene
regolarmente almeno due volte al mese. Sono prevalentemente donne, con qualche uomo, come tradizione
insegna.
Innanzitutto è la foto di un’azione, di un gesto estremamente concreto ma fortemente simbolico,
addirittura un luogo comune culturale: la lavanda dei piedi… L’azione colta nel
suo svolgimento mostra che è possibile, basta volerlo. Funziona come esempio e
l’esempio può essere contagioso. È
l’apertura di un varco, il salto oltre un ostacolo. Mostra un possibile.
Così, adesso, esiste questo gruppo: “il Gruppo cura”.
Gli incontri in piazza – oltre al gesto primario della cura dei piedi e di
altre offese corporee trattabili in primo intervento – offrono: scarpe, essenziali,
primarie – inoltre, sacchi a pelo,
giacconi e altri indumenti e un po’ di cibo, te caldo dolci, panini. Di più,
ovviamente: offre socialità, incontro, sguardi negli occhi. Ancora di
più: rispetto, dignità a esseri umani giuridicamente e socialmente inesistenti.
Esiste, dunque, il gruppo cura di Trieste tutti i giovedì e i sabati (e
spesso anche il lunedì) e continuerà.
Adriana, Azra, Goga, Elisa, Francesca, Lorena, Paola, Sofia, Carlo,
Gianluca, Gian Andrea. Il gruppo può fruire per il deposito del materiale
di un locale, necessario
quando si supera una certa quantità, messo a disposizione da Rifondazione Comunista e può usare,
inoltre, per incontri la storica Casa del Popolo di via Ponziana a Trieste,
messa a disposizione dall’associazione culturale Tina Modotti. Saltuariamente
altri, associazioni e persone singole, che vengono anche da lontano a portare
materiale prezioso.
Shamsia aveva lo smalto
È arrivata ieri con il marito, il figlio di dieci anni e un piccolo gruppo. Hanno dormito su una panchina prima di ripartire verso il nord Europa. “Sì, Shamsia ha le unghie smaltate, di un rosa acceso, segno di speranza e rinascita per lei che viene dalla lontana regione ai confini con il Tagikistan – scrive Lorena Fornasir – È vittima di ingiustizie ma non vittima di se stessa. Ora che è salva, che suo figlio è salvo, può concedersi lo smalto e riprendersi la propria femminilità. Dopo due anni di viaggi terribili, dopo la disumanizzazione, dopo essere diventata un numero da statistica, lo smalto rosa la riporta alla vita. Lo scandalo è negli occhi di chi guarda e di chi vuole che un migrante sia solo una vittima continuando a de-soggettivizzarla. Ma ‘l’esistenza, senza dote ulteriore, è già onnipotenza“
È arrivata ieri con il marito, il figlio di dieci anni e un piccolo gruppo. Hanno dormito su una panchina prima di ripartire verso il nord Europa. “Sì, Shamsia ha le unghie smaltate, di un rosa acceso, segno di speranza e rinascita per lei che viene dalla lontana regione ai confini con il Tagikistan – scrive Lorena Fornasir – È vittima di ingiustizie ma non vittima di se stessa. Ora che è salva, che suo figlio è salvo, può concedersi lo smalto e riprendersi la propria femminilità. Dopo due anni di viaggi terribili, dopo la disumanizzazione, dopo essere diventata un numero da statistica, lo smalto rosa la riporta alla vita. Lo scandalo è negli occhi di chi guarda e di chi vuole che un migrante sia solo una vittima continuando a de-soggettivizzarla. Ma ‘l’esistenza, senza dote ulteriore, è già onnipotenza“
Polizia locale e nazionale, carabinieri passano spesso nei paraggi.
Guardano, osservano, vanno via, sostano spesso più in là. In un caso, un
poliziotto ha detto a Lorena che va bene, aiutiamo a mantenere l’ordine.
Evidentemente le istituzioni non
sono in grado di gestire, allora non dispiace una sorta di delega di fatto di
alcuni compiti, fino a che rimane un fenomeno limitato – così si evitano
incidenti, problemi, dopotutto non si può lasciar morire uno per strada o
spingerlo all’esasperazione – chissà magari si riduce indirettamente il piccolo
spaccio di chi non ha altra risorsa per mangiare…
Ma a me, a tutti noi, credo, questo non va bene. Non sono, non siamo benefattori. Il
benefattore è complice perché aiuta a sopportare il sistema. Noi vogliamo fare
politica, cambiare un ordine sociale intrinsecamente basato sull’ingiustizia
più profonda, permeato di violenza, che spinge all’odio non per chi comanda e
sfrutta, ma per chi è dipinto come estraneo, diverso, anormale. E allora, come
abbiamo scritto nell’appello firmato da Lorena e da
me, “bisogna fare rete, fare società, costruire ogni
giorno un modo alternativo di essere in società. Ciò può avvenire solo
allargando l’impegno, collegando e, ovviamente, lottando”. Se un impegno del
genere continuerà, come auspichiamo, è inevitabile, prima o poi, il conflitto con i poteri che
gestiscono la società così come è oggi. Bisogna tenerlo presente.
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