C’è qualcosa di squisitamente, perversamente medievale, nelle nostre belle
democrazie, anche se pare che la parola “democrazia” non sia più di moda,
sostituita dalla formula “democrazia liberale”, che sembra più accettabile
all’establishment, cioè a chi comanda. Se ci fate caso, l’aggiunta
dell’aggettivo “liberale” è ormai obbligatoria, cade come lo zucchero a velo
sul pandoro e dolcifica tutto. Ma è un segnale interessante: “democrazia” da
sola, senza aggettivi, non basta, non descrive a sufficienza l’impostazione
ideologica, la direzione economica liberista, l’unica consentita. Una volta qui
era tutta democrazia, signora mia, ora è tutta “democrazia liberale”, e noi
quasi non ce ne siamo accorti. Vedi a volte come succedono le disgrazie.
Nella più grande democrazia liberale del mondo – altra formula che andrebbe
ogni tanto verificata, tipo tagliando alla macchina – il presidente uscente Joe
dona, nel corso di una toccante cerimonia, la grazia al figlio Hunter, che
potrebbe andare in galera parecchi anni per svariati motivi, tra cui droga,
evasione fiscale e possesso abusivo di armi da fuoco, senza contare gli
affarucci milionari in zone poi esplose come l’Ucraina. Insomma, l’imperatore
decide dell’immunità di amici e parenti, con la semplice imposizione delle
mani: ha la giacca, la cravatta, lavora in una bella stanza ovale, ma non è
difficile immaginarlo su un trono dorato, con un grande mantello e la corona in
testa che regala al figlio l’impunità (e in altri tempi, magari un principato
in Toscana o il protettorato della Baviera). Mentre la democrazia liberale si
traveste da basso Impero, la sua poderosa macchina è alimentata a privilegi per
una ristrettissima élite di miliardari che paga pochissime tasse, contribuisce
poco e niente alla crescita sociale, crea un potere parallelo a quello dello
Stato ed espande la sua rete su tutto il pianeta, praticamente senza controlli
o contropoteri. In più fa molti soldi con le armi, per gradire.
Nelle democrazie liberali europee, invece, le élite regnanti sono alle
prese con altre élite, con poteri forti che sembrano più forti di loro. Anche
qui tutto magnificamente “liberale”, certo, come gli anni e anni e anni di
munifici dividendi distribuiti agli azionisti Stellantis, mentre gli operai del
gruppo si abituavano a lavorare un po’ sì e un po’ no, tre giorni alla
settimana, anzi due, anzi niente del tutto. Nella “Repubblica fondata sul
lavoro” (cit), l’amministratore delegato di Stellantis se ne andrà a casa con
un centinaio di milioni di euro, a mo’ di ringraziamento per aver impoverito un
marchio e ridotto le produzioni, mentre grazie alle leggi sul lavoro (tutte
scritte dalla cosiddetta “sinistra”, ancorché, ovviamente, “liberale”, ovvio),
i lavoratori andranno a casa, senza più lavoro, con due cipolle e un pomodoro,
se va bene. Nell’ex locomotiva Germania, oggi alle prese con la crisi
Volkswagen, qualcuno ha fatto il conto che per raggiungere la cifra che si sono
messi in tasca i principali azionisti del gruppo negli ultimi dieci anni, un
operaio di Volkswagen – pur tra i meglio pagati del mondo – dovrebbe lavorare
centomila (sì, 100.000) anni. In questa situazione di impoverimento di molti e
arricchimento vergognoso di pochi, il nemico sembra essere uno solo: il
conflitto sociale, che non sta bene, signora mia, sporca, intasa le vie del
centro, blocca i treni, crea disagi, contessa. Insomma, ostacola le “magnifiche
sorti e progressive” delle nostre luminose democrazie. Liberali, mi raccomando.
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