Da un'inchiesta partecipata sull'università italiana emergono le ingiustizie e il senso di soffocamento dentro l'industria del sapere. Per uscirne, le varie componenti di quel mondo devono riprendere a parlarsi e difendere il più comune dei beni
In queste settimane cresce negli atenei la mobilitazione contro la nuova
riforma dell’Università che taglia i fondi e precarizza ulteriormente il lavoro
di ricerca. Francesco Maria Pezzulli, sociologo, ricercatore indipendente e
docente presso l’Università Sapienza di Roma, da tempo compie un’approfondita
indagine sulle trasformazioni dell’Università in Italia, offrendo uno sguardo
critico, originale e attento ai cambiamenti che, nel lungo periodo, interessano
il sistema accademico. Recentemente ha pubblicato L’università
indigesta. Professori e studenti nell’accademia neoliberale (Deriveapprodi,
2024), un libro che affronta in modo agile e brillante le dinamiche di questa
evoluzione. Più che un’intervista, gli abbiamo proposto una conversazione
intorno ai temi centrali del libro, per esplorarli insieme in profondità.
Il titolo L’Università indigesta suona provocatorio e
controcorrente rispetto alle retoriche con cui si descrive l’Università oggi.
Come nasce questo libro? Mi racconti un po’ dell’inchiesta che sta alla base
della tua analisi militante?
L’inchiesta sulla «Condizione studentesca e le trasformazioni
dell’Università» è nata con la rivista Sudcomune,
il Collettivo Effimera e il Laboratorio Transizioni di Roma 3. Il metodo
dell’inchiesta ci è sembrato quello migliore per leggere le conseguenze della
«Terza Missione», siamo ai governi Monti e Renzi, sulle condizioni di
professori e studenti, già segnate dalla Riforma Gelmini. In un certo senso
l’inchiesta è stata una reazione alla distanza che si era venuta a creare in
breve tempo tra le due figure universitarie di riferimento a seguito all’applicazione
delle riforme neoliberali. Dal punto di vista operativo l’inchiesta si è
articolata in incontri presso università e altri centri culturali e
studenteschi in diverse città italiane. Il metodo è stato inizialmente quello
della conricerca, divenuto dopo il Covid quello della «ricerca
partecipativa», come l’ha definita Carlo Vercellone nella prefazione, che fa
parlare direttamente i soggetti che subiscono o devono applicare i metodi di
governance neoliberale nelle università. In altre parole, ci è sembrato
interessante osservare l’impatto delle riforme neoliberali sui professori e gli
studenti per come hanno modificato (o tendono a modificare) non solo il modo di
studiare, insegnare e fare ricerca, ma la mentalità stessa e la psicologia,
spesso generando nuove forme di sofferenza nel lavoro legate allo stress, a un
sovraccarico di lavoro burocratico inutile e alla perdita del senso della loro
funzione. In questo senso, il titolo Università indigesta è
allusivo dell’eccessiva ingestione di alimenti e del senso di nausea o vomito
che può seguirne. Eccessiva ingestione, che nel nostro caso significa eccessiva
quantità di nuove «cose da fare» (amministrative e burocratiche) che gli
ordinamenti e le procedure del Sistema di Valutazione Nazionale (Anvur) richiedono
ai professori e agli studenti. Per gli studenti, le cause dell’indigestione
risiedono nella rincorsa ai crediti, che si verifica lungo la preparazione di
esami semestrali, dunque raddoppiati di numero rispetto al passato, come
raddoppiati sono i Titoli di laurea, i corsi e le materie di studio. Per un
docente invece l’indigestione proviene dalla crescita di tutte quelle attività
non propriamente legate alla didattica, alla ricerca e alla riflessività. Non è
certo un caso che Piero Bevilacqua, illustre emerito storico della Sapienza, ha
detto qualche tempo fa che i colleghi sono «sotto l’assedio quotidiano di un
flusso continuo di disposizioni normative, soffocati da compiti organizzativi
mutevoli, spesso di difficile comprensione, da pratiche quotidiane di
interpretazioni e applicazioni che sottraggono tempo alla ricerca e a un
insegnamento non di routine».
Nel tuo libro critichi la trasformazione dell’università italiana facendo
un excursus sistematico e di lungo periodo dagli anni Ottanta in poi, concentrandoti
anzitutto sullo smarrimento del «diletto» dello studio, come «anticipato» da
Leopardi. Il depauperamento del piacere di conoscere sembra che sia uno dei
tratti peggiori, tra i vari deleteri effetti prodotti dalle riforme che vi sono
state in Italia negli ultimi decenni, tra cui quella di Ruberti, e poi
Berlinguer e Gelmini, che hanno trasformato le università in luoghi dominati
prevalentemente da criteri aziendali di efficienza e produttività. In un
processo lungo e lento che ricorda la famosa bollitura della rana, in questi
anni le competenze hanno sostituito i saperi, la produzione di capacità critica
ma anche di capacità soltanto è stata resa insignificante e poi sono mutati
profondamente i modelli di relazione. Quali sono le tesi principali del tuo
libro?
Non sono per nulla un catastrofista ma la situazione nella quale ci
troviamo mi sembra proprio quella che hai tratteggiato: smarrimento del
diletto, depauperamento del piacere di conoscere, svilimento delle capacità
critiche, enfatizzazione delle competenze imprenditoriali. E una tesi del libro
è che in questa situazione non ci siamo trovati in modo accidentale, ma dopo
mezzo secolo di Riforme, dalla Ruberti del 1990 a quella di Renzi del 2015,
passando per la Riforma del 3+2 di Berlinguer, a inizio secolo, quella di
Moratti e Gelmini e quella «tecnica» di Monti. In questi decenni si è imposto e
perfezionato un nuovo modo di organizzare e gestire l’università, di farla
diventare neoliberale all’italiana. In proposito è davvero interessante l’ultimo numero
monografico della rivista Iacobin
Italia. Questo nuovo modus operandi, è la seconda tesi, diversifica e peggiora le
condizioni sociali e soggettive di professori e studenti. I primi, come
dicevamo «soffocati», somigliano sempre più a funzionari o consulenti e
imprenditori di sé stessi. Gli studenti, invece, un tempo considerati studiosi
in quanto universitari (come ricorda in un bel libro Stefano Pivato)
oggi pagano forse il prezzo più alto: quello di un percorso di studio concepito
e vissuto come una corsa a ostacoli per l’acquisizione di crediti, nell’ambito
di una molto ampia offerta di discipline (nate dalla frammentazione di materie
più generali), dentro un processo che li considera meritevoli se capaci di
tenere i tempi richiesti in ogni semestre, spesso obbligatori, per un dato
numero di frequenze, di certificazioni, di verifiche, di esami e tutta una serie
di attività collaterali, tra cui centinaia di ore di tirocinio presso imprese o
dentro l’accademia in versione di training professionale. Insomma, gli studenti
e le studentesse nel loro percorso ad alta velocità mangiano tantissime
conoscenze e nozioni, ma gli è sottratto il tempo per digerirle, farle proprie,
perché il tempo di apprendimento nell’università neoliberale è considerato alla
stregua del tempo di lavoro dentro l’impresa, come se i due ambiti, differenti
per definizione, fossero invece analoghi, misurabili e standardizzabili allo
stesso modo. È qui che nasce l’indigestione. Questa è l’ipotesi emersa con
l’inchiesta, da cui deriva il titolo del libro. Come dire, lo studente
«imprenditore di sé stesso» deve correre su tragitti noti e lungo attività
predefinite, che provocano un sovraccarico, continua fretta e ansia.
Nel tuo libro critichi aspramente la deriva conformista che ha portato
molti docenti a diventare semplici esecutori di compiti settorializzati,
analoghi agli operai della catena di montaggio, senza più una visione d’insieme
del loro lavoro. Questo sistema, alimentato dalla pressione del «publish or
perish» (pubblica o muori), spinge i ricercatori a concentrarsi su studi che
garantiscano finanziamenti, piuttosto che a esplorare nuove frontiere del
sapere. Già tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta,
all’epoca del movimento della pantera, Romano Alquati discutendo della allora
prima riforma Ruberti, nell’analizzare le dinamiche operate dalla riforma
nell’ambito della formazione universitaria, metteva in evidenza l’emergere di
un’ambivalenza indissolubile tra la tendenza al potenziamento capitalistico e
contemporaneamente quella all’impoverimento delle capacità umane del pensiero e
dell’espressione. Che ne pensi? Secondo te in questo processo oggi la tendenza
all’impoverimento è diventata prevalente?
Sono d’accordo, credo che oggi il nesso tra le tendenze di sviluppo
capitalistico e l’impoverimento delle capacità umane di pensiero ed espressione
sia qualcosa di concreto, peraltro è una questione analizzata da importanti
autori e di cui troviamo traccia anche in determinate rilevazioni periodiche.
Dal punto di vista delle università questo impoverimento è ben visibile nella
didattica, che avviene in un contesto di alta frammentazione delle discipline,
come ho cercato di dire nel libro, per cui ci troviamo nella situazione della
proliferazione senza fine di discipline e cognizioni talmente specialistiche da
rappresentare pericolosamente l’idiozia. Credo sia questo uno dei motivi
principali della crisi neoliberale in cui si trova oggi l’università. Bisogna
aggiungere, come ha ben scritto Franco Piperno in un suo ottimo lavoro sui destini
dell’università italiana (verso il quale il mio L’università indigesta è
senz’altro debitore), che lungo la sua storia quasi millenaria l’università è
entrata in crisi ogni volta che sia risultata intaccata la fondazione unitaria
e pubblica del sapere, quando viene meno cioè quella capacità di ricondurre a
unità la molteplicità dei saperi, una forma unitaria adeguata al senso comune,
vale a dire in grado di essere assimilata tramite la lingua naturale e la
comune facoltà di ragionamento. Questa capacità è quello che storicamente ha
conferito all’università la sua autorità istituzionale e oggi, forse in modo
maggiore di altri periodi storici, è pesantemente annichilita.
Lasciami aggiungere una cosa su Romano Alquati e la Riforma Ruberti, di
cui la tua intervista
su Machina è una espressione
esemplare, e cioè che quanto per il sociologo di Clana era già evidente,
trent’anni fa non era immediatamente percepibile. E un’altra cosa che oggi mi
sembra particolarmente istruttiva sono le critiche di Alquati agli studenti
«che fuggono davanti ai problemi aperti» e si rifugiano nel ruolo di esecutori
disegnato per loro dall’università neoliberale, con tutto il carico di impoverimento
intellettuale e banalizzazione dei saperi che ciò comporta. Banalizzazione oggi
amplificata dal processo di digitalizzazione in corso.
In un sistema universitario così trasformato, tutte le figure coinvolte
sembrano gravemente colpite e messe in contrasto tra loro, incapaci di
riconoscersi reciprocamente. Da un lato, ci sono docenti, ricercatori e
personale tecnico, sempre più soggetti a criteri di valutazione di stampo
iperindustriale, demotivati e intrappolati in una logica che misura ogni
attività o prodotto esclusivamente in termini di valore economico
quantificabile, indipendentemente dal suo reale significato o dalla sua utilità
didattica e formativa. Dall’altro, ci sono studentesse e studenti, orientati a
produrre frammenti di conoscenza parimenti quantificabili, ridotti a voti e
crediti, a discapito di ogni forma di riflessione, condivisione di pensiero o
collaborazione tra pari.
In questo tradimento dell’ideale culturale, non emergono solo il lamento, la
rassegnazione e il conformismo diffuso, con i docenti che si allontanano dalla
missione etica dell’insegnamento e gli studenti che si affannano per tenere il
passo della produttività degli esami. Esistono, anche altre vie. Una è quella
del conflitto come forma di resistenza collettiva, un tema su cui tu stesso hai
riflettuto, che Salvatore Cominu e Carlo Vercellone affrontano nei loro scritti, che si
ricollega all’ampio discorso del riconoscimento dei nuovi diritti del lavoro
della conoscenza da molto tempo sostenuto da Sergio Bologna. L’altra invece è l’interiorizzazione
della logica prestazionale, una forma di sofferenza personale che Federico
Chicchi descrive efficacemente.
Ti chiedo: come possiamo uscirne? E, soprattutto, a quali condizioni
l’esperienza individuale di sofferenza, di ingiustizia e di inadeguatezza può
trasformarsi da colpa individuale a forza propulsiva per un riconoscimento e
un’azione collettiva liberatoria, orientata verso un nuovo orizzonte di
significato? Secondo te, esiste tra la maggioranza una consapevolezza che
questo modello iperindustriale di formazione è fondato sull’ingiustizia
sociale, specialmente per come perpetua le disuguaglianze? Oppure ritieni che
prevalga l’idea che il successo individuale sia unicamente frutto del merito e,
dunque, che questo ordine sia giusto e da accettare?
La tua domanda pone una questione politica cruciale. Come se ne esce? Non
ho risposte certe o precise, ma come ricordi ci sono delle indicazioni
importanti di Carlo Vercellone in testa al volume e di Federico Chicchi in
coda, e anche di Federico Bertoni nel mezzo. Ad esempio, secondo quanto scrive
Carlo Vercellone se ne potrebbe uscire con un salto in avanti dei lavori della
Commissione Rodotà, che in ogni caso ha considerato l’università nell’ambito
dei beni comuni, come un’istituzione pubblica e inalienabile rispetto a
interessi privati. In più, l’approccio dell’università bene comune potrebbe:
ridefinire chiaramente il rapporto tra la comunità universitaria e lo Stato, in
cui quest’ultimo, nel solco della divisione liberale dei poteri, non può
definire le regole di governance, i programmi e le missioni; dimostrare che il
pubblico può essere gestito e organizzato come un’istituzione del comune, che
può essere cioè autogovernata dai soggetti che ne beneficiano e la fanno
funzionare attraverso forme di democrazia diretta e partecipativa, opposte
tanto alla logica burocratica dello Stato che a quella delle gerarchie
aziendali. A un differente livello di analisi credo che il modo migliore di
uscirne cominci dal fatto che professori e studenti riprendano a parlare tra
loro e a ritessere quella rete di reciprocità che può dare senso compiuto a una
comunità universitaria in grado di «ridefinire» e «dimostrare», nei termini
appena detti, che la missione dell’università è principalmente quella della
formazione di un individuo sociale completo e di custodire il sapere come il
più comune dei beni. Non sto parlando della gran massa dei professori (in
attesa della pensione, affannati nelle consulenze, stressati dagli indicatori
bibliometrici per la carriera) ma di quei docenti, nel libro definiti
critici insider, che continuano a considerare il sapere come
il più comune dei beni e l’insegnamento come la messa in comune e condivisione
di questo bene. E non sto parlando neppure dei molti studenti e studentesse che
intrappolate nel vortice di moduli, lezioni ed esami sempre imminenti,
abbracciano i tempi e il credo neoliberale senza farsi troppe domande, ma di
quelli che non sono ancora diventati (in parte o in tutto) capitale umano e che
per un qualche motivo intendono sfuggire a questo destino, detto altrimenti,
che resistono alla corruzione neoliberale.
Per quanto riguarda l’altra tua seconda domanda, invece, non penso che a
livello di massa ci sia la convinzione che l’attuale modello di università si
basi sull’ingiustizia, piuttosto penso che si tende ad accettarlo così com’è,
in questo senso le classifiche delle università (eccellenti e meno eccellenti),
che hanno gerarchizzato e messo in competizione Dipartimenti e Atenei,
lubrificate con la retorica del merito, hanno favorito una lettura acritica
quanto non positiva dell’accademia neoliberale. Però, è pur vero che
l’università continua a essere un tema sensibile verso il quale c’è solitamente
una certa disposizione al ragionamento e le posizioni dei soggetti non sono
particolarmente rigide e possono oscillare in tempi molto brevi.
*Emiliana Armano, sociologa e ricercatrice indipendente, è dottore di
ricerca in sociologia economica presso l’Università degli Studi di Milano. Si
occupa di ricerca militante su soggettività e precarizzazione nel capitalismo
digitale. Francesco Maria Pezzulli è sociologo e ricercatore indipendente.
Ha insegnato presso l’Università La Sapienza di Roma e svolge attività di
ricerca e inchiesta nel Laboratorio sulle Transizioni, il mutamento sociale e
le nuove soggettività dell’Università degli Studi di Roma Tre. Si occupa del
rapporto tra sviluppo capitalistico e Mezzogiorno.
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