sabato 28 dicembre 2024

Comprendere i sensi, la realtà e i miti delle migrazioni - Valerio Calzolaio

Considerare una presentazione di ricerche scientifiche come assolutamente nuova e definitiva non depone a favore di chi lo dice o scrive, anche se è solo per opportunismo editoriale. Nel retro di copertina di un bel volume recentissimo sulle migrazioni, opera di un ottimo esperto sociologo olandese, l’offerta di una “prospettiva nuova e definitiva su uno degli argomenti più divisivi del nostro tempo” coglie nel segno sulle divisioni esistenti ma rischia di essere fuorviante sulla capacità di superarle. Nella vita c’è sempre poco di nuovo e definitivo. Per ciascuno di noi è abbastanza definitiva la morte, come sappiamo tuttavia, nemmeno la fine dell’esistenza di un singolo individuo di una specie è forse del tutto definitiva (abbia o meno contribuito a procreare) e addirittura nemmeno l’estinzione di una singola specie è ormai davvero definitiva (per fare un esempio banale, i geni dei neanderthal sono ancora fra noi sapiens). Anche ciò che è davvero nuovo, biologicamente e culturalmente, risulta di difficile definizione e prova. Ancor più rispetto a un fenomeno decisivo per ogni vita, come il migrare; coevoluto con le specie viventi, di ogni sorta; permanente e mutevole per la nostra specie, anche in prospettiva.

Il sottotitolo italiano del volume aggiunge che “la verità” potrà finalmente oltrepassare le ideologie, ancora una volta esagerando un poco. Non ce ne è una di stabile verità scientifica e le ideologie sanno spesso plasmare a (proprio) piacimento dati e fatti parzialmente reali. Resta il fatto che possono essere decisamente consigliati la lettura, lo studio e la propagazione dei contenuti offerti da Hein de Haas, con il suo corposo Migrazioni. La verità oltre le ideologie. Dati alla mano, traduzione di Michele MartinoEinaudi Torino 2024 (orig. estate 2023, How Migrations Really Works), pag. 608L’autore si occupa di gran parte dei territori e dei paesi del mondo. Illustra accuratamente lo stato delle conoscenze sul fenomeno migratorio negli ultimi centocinquanta anni, circa. Ed è vero quanto scrive di continuo con passione e precisione: strabordano ancor oggi (tristemente) molte confusioni e decine di miti quando si parla dell’umano migrare contemporaneo. Documentarsi meglio sarebbe un’utile accortezza, visto che tutti ci hanno avuto in qualche modo a che fare nella propria vita e tutti dovremo tenerne conto.

Definire la "migrazione"

La definizione precisa su cosa sia una “migrazione” attiene al cambio di residenza abituale oltre un confine amministrativo, spostarsi stabilmente altrove per almeno sei mesi o un anno, a prescindere dal motivo, sia a livello personale che a livello collettivo, dovendosi distinguere bene con circospezione (le regole e il giudizio) un trasferimento internazionale. Tante persone hanno sentimenti complessi e ambivalenti riguardo al fenomeno e ai fatti, ma il dibattito politico, con la sua crescente polarizzazione (semplicisticamente costruita su fazioni pro e contro), non riflette questo oggettivo livello di ambiguità. Dalla fine della Guerra Fredda, i politici occidentali hanno portato avanti una vera e propria Guerra all’Immigrazione, così la chiama correttamente De Haas e ben lo sappiamo: i paesi occidentali hanno speso risorse ingenti per frenare l’afflusso di lavoratori stranieri, con le loro famiglie.

“Da decenni, politici di ogni orientamento promettono di correggere il sistema di accoglienza e di riprendere il controllo sull’immigrazione.

Tutti i governi, però, secondo De Haas, hanno costantemente mancato di rispettare le loro promesse. Chi ci governa avrebbe ignorato le evidenze scientifiche sui trend, sulle cause e sull’impatto delle migrazioni, seminando solo paure ingiustificate e roboante disinformazione. Anche gruppi d’interesse come i sindacati e le lobby commerciali avrebbero esagerato i danni (oppure i benefici) delle migrazioni, mentre le agenzie dell’Onu spesso finirebbero per gonfiare o travisare i numeri di migranti e rifugiati, nell’apparente tentativo di farsi pubblicità e ottenere i finanziamenti. Non sarebbe male capire davvero natura e radici del fenomeno, per ogni cittadino che legge libri e per ogni sapiens che opera in comunità, tanto più che la migrazione appartiene letteralmente a ognuno e a ogni tempo, è antica quanto l’umanità. Ho tentato di riassumere in queste poche frasi di prologo la nota per noi lettori e l’introduzione al volume, l’intento dell’autore è giustificato e positivo, anche lo svolgimento sostanzialmente stimolante e condivisibile.

Il sociologo e geografo olandese Hein de Haas (1969) ha vissuto e lavorato nei Paesi Bassi, in Marocco e nel Regno Unito, è stato a lungo direttore dell'International Migration Institute dell'Università di Oxford, ha promosso e coordinato seri modelli interpretativi e insegna attualmente (dal 2015) la materia ad Amsterdam. Il suo nuovo volume ci offre un ottimo utile fertile scandaglio sulla cruciale questione del migrare contemporaneo, documentato e riflettuto, "esperito" nel senso che raccoglie trent'anni di ricerche sul campo in vari continenti e una notevole letteratura scientifica, grafici e tabelle (talora originali), frequentazioni interdisciplinari, con argomentazioni solide e abbastanza aperte. Il testo è strutturato in tre parti e ventidue capitoli, in ognuno De Haas demolisce un mito sul migrare: riassume il mito nel titolo e nelle prime due pagine in cui cita sia "politici" che documenti che urlano quel mito con le loro convinte parole, per quanto errate; poi spiega (dettagliatamente) in successivi paragrafi come funzionano davvero le cose (How Migrations Really Works, il titolo inglese originale).

Politiche migratorie e flussi

L’autore fa spesso riferimento a un progetto pluriennale di raccolta dati, statistico e sociologico, da lui stesso promosso. Nel 2010 un finanziamento del Consiglio europeo della ricerca (Erc) gli ha permesso di creare un team presso l’International Migration Institute (Imi) dell’Università di Oxford per analizzare l’evoluzione delle politiche migratorie nell’ultimo secolo e misurarne l’efficacia nell’incidere sui flussi migratori. Il progetto Demig (Determinants of International Migration) è andato avanti dal 2010 al 2015. Per due anni sono stati letti pile di rapporti, leggi e regolamenti per documentare i principali cambiamenti occorsi nelle politiche migratorie, giungendo alla creazione di un database (Demig Policy) che ha registrato 6.500 variazioni nelle discipline su immigrazione ed emigrazione in quarantacinque paesi tra il 1900 e il 2014. I numeri erano stati raccolti in origine per misurare l’evoluzione e l’efficacia delle politiche migratorie e potevamo anche utilizzarli per valutare se i governi di destra avessero davvero una linea più dura sull’immigrazione rispetto a quelli di sinistra (pare non sia così).

Sono state aggiunte poi altre variabili al database Demig e De Haas ha via via aggiornato i dati e ampliato le valutazioni, per esempio in merito all’effetto delle politiche migratorie restrittive sui flussi in entrata e in uscita; a come hanno concretamente reagito i flussi alla eliminazione delle frontiere tra gli Stati europei sia quelli migratori interni europei, sia quelli verso e dall’Unione Europea; alla quantità di visti di cui hanno bisogno i cittadini di ciascun Paese del mondo per viaggiare in altri Paesi. In vari capitoli i grafici e le tabelle illustrano i dati che contribuiscono a smontare miti e luoghi comuni, un ricco preciso supporto statistico che, utilizzando molte altre fonti ufficiali, serve a corroborare analisi e verifiche in ogni parte del testo.

Gli strali polemici del volume sono prevalentemente indirizzati ai "politici" (genericamente, talora confondendo politica e governo, cita comunque capi di governo, ministri e dirigenti, anche italiani) e frequentemente agli economisti puri (antica contrapposizione fra le due scienze, per una discutibile egemonia); la sua letteratura scientifica è prevalentemente sociologica, ma mostra di avere una certa attitudine interdisciplinare, curiosità intellettuale, opinioni riflettute e condivise con altri, verifiche non pregiudiziali. Quel che più manca è una maggiore consapevolezza evoluzionistica delle scienze sociali. Le migrazioni non iniziano quando la sociologia inizia a considerarle statisticamente ben oltre metà ottocento, tantomeno dopo la Rivoluzione Industriale o la Rivoluzione Francese, tanto meno con i viaggi oltre Atlantico di metà secondo millennio, tanto meno qualche millennio prima quando i confini di un territorio diventano costrutto umano (dopo la prevalenza della stanzialità con la cosiddetta rivoluzione neolitica), tanto meno quando i primi sapiens sono usciti dall’Africa. E, soprattutto, la definizione (pur antropocentrica) può essere facilmente estesa alle specie umane precedenti la nostra, alle specie animali, addirittura alle specie vegetali: il cambio di residenza abituale fuori del proprio areale precedente, individuale o collettivo, una tantum o ciclico, verso ecosistemi abbastanza simili o molto diversi rispetto alla biodiversità dei punti di partenza, dei transiti, dei punti di arrivo.

Avere consapevolezza evoluzionistica eviterebbe alcune imprecisioni di linguaggio e inesattezze sui contesti della biodiversità del pianeta. L’autore fa un solo riferimento (credo) alla vita prima della Rivoluzione Industriale, abbastanza corretto: la “Rivoluzione agricola (o neolitica) ha consentito agli esseri umani di insediarsi stabilmente in comunità rurali e di abbandonare a poco a poco uno stile di vita itinerante, nomadico o pastorale. Dall’inizio del XIX secolo, la Rivoluzione industriale ha portato a una migrazione su larga scala dalle aree rurali…”. Tuttavia noi esistevamo da prima e migravamo da sempre, comunque da prima di essere stanziali, sicché la maggiore residenzialità agricola ha comportato anche l’utilità di distinguere le emigrazioni dalle immigrazioni e di dover tenere abbastanza separata l’analisi del migrare nel luogo di partenza da quella negli ecosistemi di transito e di arrivo. Il fenomeno migratorio è totale (De Haas cita bene Sayad), ma pure asimmetrico e diacronico, nel testo in esame ne tiene abbastanza conto, pur non sottolineando la rilevanza di aspetti non sociologici della libertà di migrare e del diritto di restare (per esempio, stando alla contemporaneità, citando spesso il vincolo generico dei diritti umani fondamentali, ma non citando mai in specifico l’articolo 13 della Dichiarazione Universale e non citando nemmeno i due recenti Global Compact dell’Onu, forse per un fastidio, comprendibile ma discutibile, pure verso i formalismi giuridici).

La consapevolezza evoluzionistica avrebbe, inoltre, motivato meglio alcune argomentazioni di De Haas, anche per comprendere come i miti e il senso comune (che perlopiù giustamente contesta) siano divenuti così “radicati” nelle nostre società e culture istituzionali statuali. Il suo volume è, comunque, fertile. Entrando nel merito specialistico, dei sette capitoli della prima parte, quattro sono quasi del tutto condivisibili, tre sostanzialmente condivisibili; degli otto capitoli della seconda parte 3 e 3, ma ce ne sono anche 2 che andrebbero forse parzialmente meglio approfonditi. Nella terza parte 2+3+1 abbastanza bene, uno che invece andrebbe meditato e criticato sotto molti differenti aspetti: riguarda i cambiamenti climatici ed ecologici antropici globali. De Haas non è un negazionista climatico, al contrario, e discute questioni effettivamente controverse nell’ultimo capitolo (prima delle conclusioni), si affida molto a colleghi competenti e ai geografi (anche quelli purtroppo prevalentemente “non” evoluzionistici), cita solo la sintesi dell'ultimo rapporto dell'IPCC (per ragioni opportune) ma mostra di non conoscere i precedenti e, soprattutto, il nesso evoluzionistico fra clima e migrazioni.

Come la maggior parte dei sociologi delle migrazioni sembra sottovalutare una base culturale evoluzionistica, biologica e antropologica. In secondo luogo, è troppo mosso da una (pur sana) vis polemica: segnala che gli rimproverano di essere parte del polo favorevole alle migrazioni, mentre ritiene (giustamente) di essere solo uno studioso accurato, fra l’altro molto attento alle differenze e ai contrasti di classe. Fatto sta che da decenni, proletari e sottoproletari sono in maggioranza nel polo contrario alle migrazioni. Se ne può prendere atto, ormai ogni campo della politica e della cultura è polarizzato. L’autore ne è frustrato, ricorda quando nel 2015 torna nei suoi Paesi Bassi dopo dieci anni a Oxford e viene invitato a un dibattito sui profughi siriani, il moderatore lo cataloga (dopo l’intervento) come “a favore dell’immigrazione” e lui lo interrompe per criticare proprio quell’impostazione: “La costante rappresentazione dei dibattiti sulla migrazione in binari li rende indegni della parola dibattito”.

De Haas deve confrontarsi con interlocutori potenti istituzionalmente e culturalmente presuntuosi, e da trent'anni vede prevalere atteggiamenti sbagliati sulla cosa che più studia, ama, conosce e divulga, vorrebbe che la sua analisi possa essere accolta come sopra “ogni” parte, visto che critica insieme destra e sinistra (in modo comunque competente e motivato), razzisti e umanitaristi (talvolta con rigida equidistanza). Occorre, dunque, analizzare meticolosamente ognuno dei ventidue miti, dedicando loro uno specifico compiuto approfondimento. In questa sede non mettiamo in discussione l’uso del termine “mito” che ha certo pure altre definizioni e connessioni, rimanda talora solo a ideologie diffuse (quanto possa essere capace di “polarizzare” le aspirazioni di una comunità o di un'epoca, elevandosi a simbolo privilegiato e trascendente), talora proprio ad atti e fatti “idealizzati” e non solo a pensieri teorici (in corrispondenza di una carica di eccezionale e diffusa partecipazione fantastica o religiosa), talora a caratteri storici e letterari o metaforici. Rende l’idea, è vero. In Italia, fra l’altro, i miti si associano spesso a un “cattivo” senso comune, cattivo perché non buono (secondo il buon Manzoni) e perché asseconda pulsioni aggressive verso deboli rispetto noi, qui e ora (prevalentemente). Vediamoli presto uno per uno, allora, questi “miti sulla migrazione”.

da qui

 

Undici miti sulle migrazioni secondo il sociologo Heit De Haas, verifichiamoli - Valerio Calzolaio

Il primo mito sulle migrazioni che andrebbe smontato è forse il principale, attualmente: “la migrazione è a livelli record”. Non è vero, punto. Gli attuali livelli di migrazione internazionale non sono né eccezionalmente alti né in crescita. Se esprimiamo il numero di migranti internazionali come quota della popolazione mondiale, in tutti calcoli statistici e storici vediamo che i livelli relativi di migrazione sono rimasti stabili, intorno al 3 per cento. Casomai, vi sono prove che i tassi di migrazione fossero più alti alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, vale per il nostro continente quando un’emigrazione di massa verso Africa, Americhe e Asia coincise con il picco dell’imperialismo europeo, vale in altri parti del mondo. Anche riferendosi ai migranti meno liberi, i rifugiati rappresentano tra il 7 e il 12 percento di tutti i migranti nel mondo e alla metà del XX secolo erano probabilmente (non solo in proporzione alla popolazione) più di oggi. Certo, da una prospettiva occidentale eurocentrica, vi sono state profonde trasformazioni nei modelli di migrazione, tali da “rovesciare” la mappa, ovvero le direttrici geografiche dominanti nelle correnti migratorie, sia legali che illegali.

Nei secoli scorsi il colonialismo europeo ha provocato la più grande migrazione forzata di ogni epoca (quella degli schiavi) ed è stata la più grande dinamica di migrazione illegale nella storia dell’umanità. Attualmente la novità principale riguarda l’origine sempre più extraeuropea della popolazione migrante. Tuttavia, la migrazione interna, ossia gli spostamenti entro il proprio territorio nazionale, è sempre stata molto più importante della migrazione internazionale, ossia degli spostamenti oltreconfine; quella interna da decenni particolarmente significativa nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto dalle aree rurali alle aree metropolitane in espansione. L’età moderna e industriale non è tanto una storia di migrazioni internazionali, quando di migrazioni dalle aree di campagna alle aree urbane, sia all’interno che al di fuori dei confini nazionali, connessa al grande bisogno di manodopera (in mestieri che richiedono la presenza fisica dei lavoratori) e ai relativi profili geografici o cicli economici. Oltre quattro quinti della popolazione mondiale continua a vivere nelle proprie regioni di origine, se si attraversa una frontiera in genere ci si sposta verso Stati vicini, la migrazione riguarda raramente lo sradicamento di intere popolazioni. A lungo termine sembra in corso un declino globale della mobilità o almeno della mobilità “migratoria” (con cambio di residenza).

Nel recente volume Migrazioni, il sociologo olandese Heit de Haas smonta i miti in materia, con un’argomentata disanima e una ricca documentazione. In ognuno dei ventidue capitoli riassume il mito nel titolo e nelle prime due pagine in cui cita sia "politici" che materiali che urlano quel mito con le loro convinte parole, per quanto errate; poi spiega (dettagliatamente) in molti successivi paragrafi come funzionano davvero le cose (How Migrations Really Works, il titolo inglese originale), citando anche casi esemplari nelle vicende interne ai paesi occidentali o geopolitiche. Per la maggior parte dei casi possiamo far parlare prevalentemente i titoli dei suoi paragrafi, molto netti e volutamente senza tanti avverbi conciliativi. Il secondo (interessato) mito è che “le frontiere sono fuori controllo”, non è vero, è un’affermazione che non corrisponde alla realtà, appunto. La stragrande maggioranza dei migranti sono legali; sul lungo periodo, l’immigrazione illegale non sta aumentando; l’immigrazione deriva soprattutto dal reclutamento attivo di forza lavoro; spesso anche i migranti illegali sono stati reclutati; il connesso mito dell’invasione è una forma di propaganda deliberatamente progettata per seminare panico e sospetto, una narrazione falsa e leggendaria per attingere agli istinti tribali e alle nostre paure più profonde. Qui l’autore cita le frasi enfatiche e sbagliate di due ministri di un governo italiano di qualche tempo fa, Frattini e Maroni.

Il terzo mito imporrebbe che “il mondo è di fronte a una crisi dei rifugiati”, anche in questo caso credo che l’autore abbia sostanzialmente ragione (pur dovendo necessariamente criticare anche strutture dell’Onu). Questi sono i titoli dei suoi paragrafi, con le condivisibili affermazioni sintetiche: il numero dei rifugiati è relativamente basso e non in crescita; la vera crisi dei rifugiati è nelle regioni di origine; non ci sono prove di un aumento di richieste d’asilo “false”; perché si vogliono scorrettamente gonfiare i numeri dei rifugiati; i flussi di rifugiati aumentano e diminuiscono in base ai conflitti umani (qui bisognerebbe meglio intendersi sul termine “conflitti”, talora sono attività umane non direttamente violente); il mondo è diventato più pacifico (anche qui non si spiega bene quando inizierebbe la propensione pacifica, se guardiamo alla paleoantropologia e alla storia il quadro non vede miglioramenti lineari); la crisi dei rifugiati è una crisi politica (giusto). L’autore opportunamente segnala come i Paesi di destinazione abbiano cercato di esternalizzare l’elaborazione delle richieste d’asilo su isole-carcere o in paesi stranieri. Da anni abbiamo offerto dati e spunti che confermano, anzi integrano con ulteriori elementi, l’impostazione di de Haas.

Il quarto mito indurrebbe a pensare che “le nostre società sono più eterogenee che mai”, pure in questo caso la scienza sociologica non evoluzionistica tende a usare termini (eterogeneità, razza, ecc.) che non hanno pieno valore interdisciplinare rispetto alle migrazioni. L’autore insiste molto sulla “dissomiglianza” (quando affronta la segregazione) e, soprattutto, sulla disomogeneità sociale rispetto agli incarnati (concetto molto sociologico e poco scientifico-interdisciplinare, riferibile anche alla composizione di classe cui spesso fa generico richiamo), aggettivizza più volte le persone e le comunità come autoctone oppure native, parla di composizione “ibride” o di nazioni più o meno “ibride”, usa 16 volte razza o razze, 38 razzismo, 54 razziale o razziali, 19 razzista e razziste ma non discute le connesse delicate questioni terminologiche e linguistiche (pure biologiche), non affronta una discussione sulla permanente nostra specie meticcia, antichissima e antica, non solo moderna.

Tuttavia, l’argomentazione contemporanea di De Haas ha un filo di pensieri abbastanza corretto: veniamo da un passato molto più “disomogeneo” di quanto pensiamo; il pericolo giallo, rosso e nero (negli USA), lì pulire le “scorie” dal crogiolo ha sempre rappresentato la scelta della maggioranza bianca contro le minoranze, gli ultimi arrivati (dopo aver annientato o emarginato i nativi), considerati come minacce per l’identità, la cultura e la sicurezza nazionali; le società e le culture sono diventate in realtà meno eterogenee; le società, e il mondo intero, oggi sono più uguali che mai; la diversità non minaccia la coesione sociale né l’identità nazionale; il vero pericolo non è la diversità in sé, ma le ideologie che separano le comunità come se fossero fondamentalmente diverse. Qui l’autore cita gli studi di due bravi economisti italiani, Alberto Alesina ed Eliana La Ferrara.

Il quinto mito è che “lo sviluppo nei Paesi poveri ridurrà la migrazione”, ah, quante volte lo sentiamo ripetere anche in Europa e in Italia, di questi tempi! Non è così e De Haas spiega o argomenta abbastanza bene, con dati irrefutabili: la migrazione aumenta man mano che i paesi poveri diventano ricchi; lo sviluppo porta una maggiore (non una minore) migrazione; la migrazione è una parte intrinseca dello sviluppo; lo sviluppo aumenta capacità e aspirazioni; è inevitabile che lo sviluppo spinga le persone fuori dalle aree rurali; il “paradosso” della migrazione è la conseguenza di tutto ciò e, pertanto, è probabile che il prossimo mezzo secolo diventi l’età della migrazione africana, proveniente dai Paesi poveri del continente subsahariano, non a dispetto ma, paradossalmente, a causa del loro sviluppo.

Il sesto mito descrive l’emigrazione come “una fuga disperata dalla miseria”, descrizione sbagliata e misera (in base al testo di De Haas, e non solo). Piuttosto: migrare è un investimento in un futuro migliore; migrare è una scelta razionale, quasi sempre un atto consapevole e deliberato; la migrazione è la forma più efficace di aiuto allo sviluppo e le (corpose) rimesse sono la prova migliore che i migranti hanno motivi più che validi per lasciare il proprio Paese; per sopravvivere, salvare la vita anche ai parenti, sperare di vivere i migranti riflettono e accettano di partecipare a una lotteria, tentando di vincerla; dalle oasi al paradiso, per esempio nelle gole di Todra in Marocco; meglio indebitarsi che restare a casa; la migrazione Sud - Sud è la strada principale per uscire dalla povertà; i migranti sanno pensare con la propria testa e, per costruirsi un futuro migliore, sono disposti a sopportare costi e rischi di una certa rilevanza.

Il settimo mito sostiene che “non abbiamo bisogno di lavoratori migranti” e che l’immigrazione da noi di lavoratori non qualificati dovrebbe essere impedita del tutto o consentita solo su base temporanea. Eppure: la domanda di manodopera è il motore principale della migrazione e i Paesi ricchi continuano ad avere tassi importanti sia di immigrazione sia di emigrazione; è importante distinguere ciò che motiva le persone a migrare a livello micro dalle cause strutturali della migrazione a livello macro (o dell’elefante nella stanza); l’immigrazione … è l’economia, stupido!; la crescita della domanda di manodopera migrante è incontestabile, fenomeno non gestibile nei “minimi particolari”; perché la migrazione per lavoro continua; la nuova servitù e il reclutamento di lavoratori ufficialmente “indesiderati”; i migranti meno qualificati svolgono lavori essenziali; la sconveniente verità che imporre restrizione agli ingressi non frenerà l’immigrazione. Qui l’autore cita anche correttamente forse il più bravo sociologo italiano delle migrazioni, Maurizio Ambrosini.

I primi sette miti sulla migrazione esauriscono la prima parte del volume di De Haas. La seconda parte ne contiene altri otto ed è intitolata con una domanda: minaccia o soluzione? L’ottavo mito è che “gli immigrati rubano il lavoro e abbassano i salari”. Statistiche ufficiali e studi competenti ci dicono il contrario, ecco i titoletti scelti dall’autore: gli immigrati non rubano il lavoro, occupano i posti vacanti; il caso dei cubani a Miami, l’esodo di Mariel (dall’aprile 1980); anche nel caso di shock migratori ad alta intensità, l’impatto dell’immigrazione sui mercati del lavoro è trascurabile, le ricadute sui salari e sull’occupazione sono minime; come l’immigrazione può addirittura creare più posti di lavoro; gli immigrati sono spesso individui eccezionali, hanno alimentato più volte il motore del progresso umano nel corso della storia; i lavorato “autoctoni” non sono adatti ai lavori che fanno gli immigrati; perché a esempio i lavoratori britannici si sono rifiutati di “raccontare per la Gran Bretagna”; è sui governi, non sugli immigrati, che ricade la responsabilità dei salari bassi. Niente scuse per cortesia.

Il nono mito è che “l’immigrazione mina lo Stato sociale”, anche questo come altri miti diffuso sia a destra e a sinistra. Invece: l’impatto fiscale dell’immigrazione è trascurabile e, comunque, cambia man mano che gli immigrati si radicano e si integrano; il contributo fiscale dell’immigrazione via via aumenta; non ci sono prove convincenti di un effetto magnete rilevante da parte del welfare (controversa idea dell’economista statunitense Borjas); gli immigrati irregolari rappresentano il maggior beneficio per i sistemi di welfare; è l’austerity, non l’immigrazione, la causa della crisi delle case popolari; i lavorato migranti sostengono lo Stato sociale, l’immigrazione è vitale per mantenere un servizio sanitario e offrire assistenza ai bambini e anziani, specialmente in economie fortemente liberalizzate come Regno Unito e statui Uniti e in Stati sociali deboli come Spagna e Italia (scrive De Haas).

Il decimo mito è ancor più netto, suggerisce che “l’integrazione degli immigrati è fallita”. Già, ma risulta errato. Sostiene ancora De Haas: a lungo termine, l’integrazione degli immigrati è un successo; successo evidente se osserviamo le competenze linguistiche e l’istruzione; al contrario, la discriminazione nella selezione del personale è reale, il razzismo rimane un ostacolo significativo all’integrazione dei migranti nel mercato del lavoro; i migranti si arrangiano da soli; l’accesso al lavoro e all’imprenditorialità è fondamentale per il successo; la cittadinanza è la migliore politica di integrazione (la frase è completa così, originale, da sottolineare qui e ora); l’”apartheid leggero” e l’illusione della temporaneità fanno danni (ulteriori e inutili); sfide a breve termine e successi a lungo termine vanno ponderati di conseguenza; ogni migrante vive una transizione radicale, socialmente ed emotivamente destabilizzante, è solo “umano” rendersene conto; tanto più che loro diventano più simili a noi che noi a loro.

C’è un interessante mito sulla migrazione, l’undicesimo, che talvolta scioccamente ripetiamo: “la migrazione di massa ha prodotto la segregazione di massa”. L’autore non mette il condizionale nemmeno qui, lucidamente spiega (con i suoi titoletti): con alcune eccezioni, la segregazione non raggiunge livelli allarmanti; rafforzandosi attraverso la vita comunitaria, le conseguenze della concentrazione etnica possono essere anche molto positive; le enclave etniche come macchine di emancipazione; alludere alla segregazione razziale negli Stati Uniti è fare sensazionalismo; dall’edilizia sociale al dumping sociale, casi inglesi e svedesi; “occhi per la strada” e pianificazione urbanistica sbagliata; il vero problema, sempre di più, è la segregazione per reddito, non possiamo separare il dibattito sulla segregazione dal dibattito più ampio sulle diseguaglianze attualmente esistenti. I primi undici miti sulla migrazione sono tutti sostanzialmente esistenti e serenamente da smontare. Non finiscono qui, siamo soltanto a metà trattazione: la cruda consapevolezza e la necessaria rimozione dei miti sulla migrazione continuano ad appassionarci.

da qui

 

De Haas ha contato 22 miti sul fenomeno migratorio attuale, ecco gli altri - Valerio Calzolaio

Svelare il dodicesimo mito sull’umano migrare contemporaneo è cruciale, in tanti sono convinti che “l’immigrazione aumenta la criminalità”, il numero dei reati, ma non è così. Il sociologo olandese Heit de Haas analizza un quadro mondiale comparato e, nel suo recente volume Migrazioni, smonta anche questa falsità. Ribadisce che, in generale, l’immigrazione riduce i crimini violenti e cita le ricerche più approfondite sull’argomento che vengono dagli Stati Uniti. Nessuno migra con il sogno di diventare criminale, di solito i lavoratori migranti vengono da contesti socialmente conservatori, religiosi e orientati alla comunità, e aderiscono con vigore a valori tradizionali come la solidarietà, il rispetto e il duro lavoro. Ce ne accorgiamo di continuo anche personalmente dalle nostre parti o verificando dopo poco gli orientamenti politico-culturali.

Gli immigrati illegali hanno poi mediamente i tassi di criminalità più bassi, soprattutto per varie ragioni pratiche. Certo, più a lungo i gruppi migranti rimangono più i loro “modelli criminali” iniziano a somigliare a quelli degli “autoctoni”, c’è un lato oscuro dell’assimilazione (discendente) e un circolo vizioso del profiling razziale (maggiore probabilità di essere arrestati e condannati) e del pregiudizio (più perseguitati e meno protetti), è la classe sociale a prevalere sulle altre spiegazioni. Comunque, i tassi di criminalità sono diminuiti con l’aumento dell’immigrazione, insiste l’autore, citando dati e fatti. Il rispetto delle leggi dovrebbe accompagnarsi a un’offerta ai giovani svantaggiati di opportunità di mobilità sociale attraverso l’istruzione e il lavoro, a prescindere dalla loro origine etnica o razziale.

Tredicesimo mito: “l’emigrazione causa la fuga dei cervelli”, siamo giunti al primo dei 22 miti citati da De Haas che presenta alcuni aspetti più deboli e meno argomentati. Ciò dipende in parte dalla terminologia e dall’approccio solo sociologico. Alcune affermazioni preliminari sono convincenti: l’immigrazione di lavoratori qualificati non è così intensa, la migrazione internazionale coinvolge una quota abbastanza ridotta della popolazione più istruita, l’espressione “fuga di cervelli” fu coniata oltre sessant’anni fa in tutt’altro contesto, pur sempre in direzione nord - nord (preoccupazione per le migrazioni di scienziati dalla Gran Bretagna al Nord America); l’emigrazione può stimolare la crescita nei Paesi d’origine, anche per il potere trasformativo delle “rimesse sociali”. L’autore vuole evitare di dare la colpa ai migranti per i problemi che li hanno spinti a partire, da studioso mette in discussione nessi arbitrari fra il migrare e tutto il peggio (e fra cui tutti effetti negativi per i residenti).

Il capitolo si conclude con un paragrafo intitolato con una frase che richiama un po’ l’intero impeto culturale del volume: l’emigrazione non è la causa né la soluzione dei problemi dello sviluppo. Il concetto ritorna riferito all’immigrazione sotto vari aspetti e, più complessivamente, a ogni migrare umano. La contestazione dei miti vuole recidere i nessi più o meni casuali per cui oggi, da più parti per più ragioni, la migrazione viene considerata la causa di tutti i mali contemporanei. Ovviamente De Haas aggiunge sempre che non è nemmeno la panacea di qualche male, è un fenomeno da ri-conoscere. Nel capitolo successivo si legge: “l’impatto trasformativo (sia positivo che negativo) della migrazione non è così grande come molti pensano”. Qualche capitolo dopo, un paragrafo s’intitola. “è necessario superare la dicotomia pro/contro”. Bene, ma non risolutivo: oggi pochi pensano a funzioni marginali del migrare e pochissimi superano lo schieramento in fazioni. Evidentemente, il fenomeno risponde ad altre dinamiche evoluzionistiche, biologiche e antropologiche, non spiegabili bene soltanto con la sociologia e la geografia, meglio prendere atto pure di ciò. E occorrerebbe prestare dovuta attenzione ai gradi della libertà di migrare e alle coniugazioni del diritto di restare.

Il quattordicesimo mito si connette a tali argomenti e riflessioni, l’affermazione giustamente contestata è la seguente: “l’immigrazione solleva tutte le barche”. Invece. L’immigrazione non può risolvere l’ineguaglianza globale; l’immigrazione favorisce soprattutto gli abbienti e chi è già privilegiato; in qualche raro caso l’immigrazione può essere davvero traumatizzante per via dei cambiamenti drastici che impone agli stili di vita locali (o di come gli immigrati e il pollo hanno cambiato Albertville, Alabama), più gravosi per lavoratori locali non benestanti; c’è più del Pil nella vita. Da questo punto di vista, de Haas segnala correttamente come le élite imprenditoriali e i gruppi liberal che cantano le lodi dell’immigrazione spesso non si rendano conto dei disagi reali, dei problemi e delle tensioni che scaturiscono dall’arrivo di intensi flussi migratori.

Così risulta un mito, il quindicesimo: “abbiamo bisogno di immigrati per contrastare l’invecchiamento delle società”. Proseguendo nell’atteggiamento di ridimensionare o almeno dimensionare gli impatti, De Haas ribadisce: l’immigrazione è troppo limitata per risolvere gli effetti dell’invecchiamento; anche gli immigrati invecchiano e fanno meno bambini; i fattori demografici non causano la migrazione; è un mito anche la disponibilità illimitata di manodopera; i Paesi più poveri al mondo hanno il più alto potenziale di emigrazione futura; la domanda globale di lavoratori migranti potrebbe aumentare ulteriormente per la combinazione di invecchiamento (inevitabile e non così disastroso), emancipazione femminile e maggiori tassi d’istruzione, soprattutto in molti Paesi a reddito medio, ove quindi crescerà la domanda di manodopera nei settori dell’assistenza domiciliare, dell’edilizia, dell’agricoltura, dell’industria e del terziario; vi sarà un riorientamento geografico delle direttrici migratorie mondiali. Qui si conclude la seconda parte del volume (otto capitoli, nel complesso ottimamente o abbastanza ben orientati, con alcuni limiti sopra segnalati).

La propaganda sulla migrazione

La terza parte si chiama “la propaganda sulla migrazione” e si struttura in altri sette capitoli. Il sedicesimo mito: “le frontiere si stanno chiudendo”. Qui l’autore utilizza dati statistici di un gruppo di lavoro pluriennale da lui stesso impostato a Oxford e riassume: le politiche migratorie sono state liberalizzate rispetto al passato; il controllo alle frontiere è aumentato mentre le barriere legali sono diminuite; resta la spinta delle aziende ad aprire le frontiere; resta un’enorme discrepanza governativa tra la retorica della fermezza e la pratica molto più indulgente; più diritti umani significa più diritti per i migranti; non è possibile coniugare liberismo economico e politiche migratorie liberali e soddisfare al contempo i desideri dei cittadini che vorrebbero meno immigrati (il “trilemma” dell’immigrazione).

Il diciassettesimo mito ha a che fare con gli orientamenti politici: “i conservatori sono più rigidi sull’immigrazione”. Non risulta vero alla prova dei fatti: non esiste nessuna divisione sinistra-destra sul tema dell’immigrazione; i partiti politici sono divisi internamente sull’immigrazione; pure i sindacati sono divisi sull’immigrazione; tutte le religioni sottolineano il valore della compassione ed esortano i credenti ad accogliere gli stranieri e proteggere i perseguitati, insomma ancora una volta la dicotomia tra fazioni pro e contro non porta da nessuna parte e va superata. L’autore non ha peli sulla lingua e insiste: da decenni ormai il grande pubblico ha perso il contatto con la realtà delle politiche migratorie; gli artifizi retorici distolgono l’attenzione dalle questioni reali; i politici di sinistra e di destra stanno ingannando la gente sulla vera natura delle loro azioni, è un comportamento ipocrita.

Ne consegue la necessità di smentire e abbattere un diciottesimo mito: “l’opinione pubblica è contro l’immigrazione”. Secondo de Haas: l’opinione pubblica oggi guarda più favorevolmente gli immigrati; la maggioranza delle persone ha opinioni articolate sull’immigrazione; sul lungo periodo, il contatto con gli immigrati e una certa conseguente familiarità con culture diverse riducono la xenofobia; nonostante i progressi, il razzismo e i pregiudizi rimangono problemi gravi; il razzismo diminuisce con l’aumento dell’immigrazione; tutto questo ci dà speranza e ottimismo, abbiamo le potenzialità per discutere ed affrontare in modo migliore le questioni legate alle migrazioni, alla “razza” e alla diversità culturale. Qui l’autore cita Giorgia Meloni fra i politici di estrema destra che si appellano all’opinione pubblica per le proprie retoriche dichiarazioni politiche securitarie contro l’immigrazione.

Il diciannovesimo mito comincia ad affrontare un aspetto specifico, il superamento di frontiere statuali, operando una distinzione (fondamentale nell’Italia odierna) fra traffico e tratta. La falsità propagandistica è la seguente: “il traffico di migranti è la causa degli ingressi illegali”. Ancora una volta il supporto allo smantellamento del mito è offerto da dati e fatti, non si tratta di opinioni filosofiche: il traffico di migranti è una reazione alla militarizzazione delle frontiere, non la causa della migrazione illegale; la migrazione transmediterranea, per esempio, è esplosa nel 1991 quando la Spagna e l’Italia hanno introdotto requisiti di visto per i nordafricani in seguito all’accordo di Schengen (l’autore lo ha verificato durante le ricerche in Marocco, niente più anni sabbatici per gli studenti trasferimenti non permanenti); come la migrazione è stata spinta nella clandestinità; la crescente dipendenza dai trafficanti; la migrazione di contrabbando (smuggling, in inglese) e il traffico dei migranti non sono la stessa cosa della tratta di esseri umani (trafficking); il favoreggiamento è una forma di erogazione di un servizio, per il quale migranti e rifugiati sono disposti a pagare; i migranti non sono stupidi, persino il rischio di morire non è un deterrente. L’autore cita spesso la situazione nel Mediterraneo (“zona di confine più letale del mondo”) e riporta il dato terribile dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni relativo agli oltre 26 mila migranti morti nel tentativo di attraversarlo tra il 2014 e il 2022.

Proprio nel 2024, a inizio novembre l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM) ha aggiornato i dati rispetto all’anno in corso: sono almeno 568 le persone morte e altre 783 ritenute disperse soltanto nella rotta del Mediterraneo centrale dall'inizio del 2024 al 2 novembre; nello stesso periodo i migranti intercettati in mare e riportati in Libia sono stati 19.295, di cui 16.835 uomini, 1.357 donne, 630 minori e 473 persone di cui non sono disponibili dati di genere. Nelle pagine a fianco numero 476 e 477 De Haas riporta la mappa delle rotte migratorie terrestri e marittimeverso il Nord Africa, il Medio oriente e l’Europa occidentale. Poi aggiunge altre indicazioni analitiche: le specifiche rotte del “contrabbando” migratorio sono una delle conseguenze dei controlli frontalieri; la vera industria della migrazione non riguarda gli scafisti, bensì le compagnie che producono armi e tecnologie da guerra, che hanno avuto enormi profitti dalla lotta dell’Occidente contro l’immigrazione illegale; i flussi migratori illegali continueranno fintanto che i governi non offriranno percorsi per migrare legalmente.

Il ventesimo mito completa il precedente, ecco la falsità propagandistica: “la tratta è una forma di schiavitù moderna”. Invece: la tratta di esseri umani non è la stessa cosa della schiavitù e riguarda soprattutto lo sfruttamento dei lavoratori; in particolare, la tratta riguarda gravi forme di sfruttamento di lavoratori vulnerabili, rapporti di potere coercitivi basati su un’estrema disparità di potere; la “minaccia degli sconosciuti” e il precedente mito della “tratta delle bianche” (deliberatamente creato negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo) gonfiano le statistiche sulla tratta; restituire un debito non significa essere vittima della tratta; nella realtà, contrarre debiti è il modo in cui milioni di poveri tentano un futuro migliore per sé stessi migrando verso l’Occidente  e “salvare” qualcuno di loro significa spesso farlo deportare, costringerlo a una migrazione forzata, ancor meno libera; la maggior parte dei sex workers ha scelto di farlo; nella realtà, la lotta alla tratta diventa solo fare retate nei bordelli e imporre deportazioni; gonfiare i numeri non risolve i problemi, semmai li peggiora; salvateci dai nostri salvatori.

Un altro mito propagandistico è il ventunesimo: “le restrizioni alle frontiere riducono l’immigrazione”. Non è vero, storicamente e statisticamente: controlli e restrizioni generano più immigrazione; il primo effetto collaterale è di deviare la migrazione su altre rotte geografiche o nuove destinazioni (effetto materasso ad acqua); il secondo effetto collaterale non riduce il numero dei migranti, si limita a spingere le migrazioni nella clandestinità, i migranti cercano canali legali differenti o attraversano i confini illegalmente, prima o poi; il terzo effetto collaterale delle restrizioni sono gli “sbarchi” preventivi (più imprevedibili e pericolosi), organizzati in previsione di blocchi futuri (partire “ora o mai più”), il quarto e ultimo effetto collaterale implica scoraggiare il ritorno in patria e interrompere la circolarità, sicché le restrizioni producono più migrazione; per esempio, la Brexit ha accelerato l’immigrazione.; un altro esempio tocca il Messico, i maggiori controlli alle frontiere degli stati Uniti hanno avuto effetti controproducenti; inoltre, le frontiere chiuse alimentano l’ossessione per la migrazione. Secondo de Haas l’abolizione delle frontiere tra il 1989 e il 2007 all’interno dell’Unione Europea (in espansione) ha rappresentato il più grande esperimento reale nella storia dell’umanità per capire l’effetto di restrizioni per chi arriva dall’esterno, lo ha studiato verificando che è coinciso con un aumento strutturale dell’immigrazione extraeuropea. Qui l’autore cita positivamente anche gli studi della sociologa italiana Simona Vezzoli, sua ex collega a Oxford.

Arriviamo così al ventiduesimo e ultimo mito che l’autore vuole smontare: “il cambiamento climatico porterà a una migrazione di massa”. L’autore ragiona negli stessi termini sociologici e scientifici dei capitoli precedenti e il suo sforzo argomentativo va preso ancora una volta sul serio, non è banale e coglie questioni effettivamente controverse e complesse (alcune delle quali sono state affrontate di recente anche sul nostro magazine, come altre volte in passato, per esempio nel 2022 o nel 2023). Secondo De Haas, ecco come funzionerebbe davvero. Il cambiamento climatico è reale, ma non porterà a una migrazione di massa; le inondazioni stagionali sono una maledizione e una benedizione insieme, perché i sedimenti trasportati dall’acqua fertilizzano il terreno (“la terra è buona dove c’è la piena”); anche le terre si alzano mentre si alza il livello del mare.

Ancora: i pericoli ambientali possono condannare i poveri all’immobilità; sarebbe un mito anche l’avanzata del deserto; è lo sprofondamento del suolo, non l’innalzamento del livello del mare, la causa principale del crescente rischio di alluvioni nelle piane agricole e in città costiere; è molto improbabile che il cambiamento climatico “porti” a una migrazione internazionale di massa, tantomeno della scala pronosticata, sono i governi, non il clima, a spostare le persone; oltre ai conflitti e alle persecuzioni, sono i progetti di sviluppo (dighe, miniere, aeroporti, zone industriali, complessi residenziali per la classe media, turisti) una delle cause principali del fenomeno degli sfollati, lo spostamento indotto dallo sviluppo è la forma più diffusa di migrazione forzata; lo sforzo sincero di ridurre l’impatto del cambiamento climatico dovrebbe concentrarsi sul trovare il modo di aiutare proprio coloro che non sono in grado di muoversi affatto.

De Haas vuole difendere la migrazione da una narrazione propagandistica piena di miti e falsità, vuole tener fuori il fenomeno migratorio da analisi frettolose e schematiche, vuole evitare che si assegni al migrare e ai migranti ruoli stratosferici rispetto a quantità non enormi e a qualità potenzialmente arricchenti. Non nega i cambiamenti climatici antropici globali e denuncia opportunamente alcuni “presupposti semplicistici sul rapporto fra trasformazioni ambientali e migrazione”. Gli manca però un serio approccio evoluzionistico. Il cosiddetto clima (degli ecosistemi in evoluzione e dello stesso ecosistema globale) c’è da prima degli animali, dei mammiferi e degli umani; da sempre ha indotto specie e comunità di singole specie a tentare di cambiare residenza e forse adattarsi altrove (oppure ad adattarsi al cambiamento quando il medesimo luogo cambiava clima, per esempio da pianura a ghiaccio, da bosco a deserto); da sempre ha modificato la biodiversità del pianeta, anche con le migrazioni (che pure modificano gli ecosistemi di partenza, di transito e di arrivo).

Il fenomeno migratorio è diacronico e asimmetrico. Le specie animali modificano, a loro volta, ecosistemi e clima nel loro sopravvivere, riprodursi, migrare. E le specie umane, particolarmente i sapiens, hanno indotto trasformazioni ambientali e migrazioni. È giusto non “dare la colpa al clima” di tutto e di ogni migrazione futura. Tuttavia, un’analisi scientifica degli impatti rende plausibile pensare che tanti rischiano di morire in loco (come anche De Haas nota) e che molti altri riflettano da subito sulla possibilità di spostarsi, con un livello meno o più alto di libertà e di capacità.  

da qui

Nessun commento:

Posta un commento