Ricordiamoci di Rojava! - Gianni Tognoni
E se fosse
proprio in questo nome, che si trova assolutamente a stento nelle cronache che in questi giorni
sono impegnate a fornire le più diverse letture degli scenari del Medio
Oriente, che occorre cercare una delle chiavi di lettura più di fondo
di quanto sta succedendo?
Rojava è
il nome di una “rivoluzione delle donne” che è stata protagonista prima della resistenza,
e poi della sconfitta definitiva dell’Isis in anni che sembrano lontanissimi,
dal 2014-2015. La storia di quel tempo e di quella vittoria riconosciuta come
strettamente kurda, al di là del parziale supporto aereo degli Usa, e come allo
stesso tempo prodotto e nuovo inizio di un processo di democrazia radicale, ha
una letteratura internazionale a supporto e, in Italia, è stata oggetto di
pubblicazioni anche recentissime, di grande successo, di Zero Calcare. Con
Afrin e Kobane, le città-simbolo, Rojava costituisce di fatto il punto di
riferimento, culturale oltre che politico, di infiniti gruppi, con fortissimo
protagonismo di donne, che hanno visto nella società creata nel Nord Est della
Siria un indicatore, incredibile per la sua concretezza, di un cammino nuovo
della storia. La perfetta condivisione di responsabilità di uomini e donne
a tutti i livelli, compreso quello militare (rimasto obbligatorio anche dopo la
sconfitta dell’Isis, per gli attacchi mai interrotti e ora ad altissima
intensità della Turchia) è senza dubbio, non solo per quei paesi, l’aspetto più
evidente. Combinata però con l’originalità strutturale, provocatoria,
della sperimentazione di un modello di democrazia sostanziale che viene
applicato in tutti i settori, dall’economia, alla sanità, alla scuola, alla
giustizia, pur in condizioni permanenti di precarietà: qualcosa che non
nasce dal nulla, ma ha radici nel pensiero di Öcalan, leader indiscusso delle
lotte per il diritto alla autodeterminazione del popolo kurdo, prigioniero da
decenni, in isolamento assoluto e incomunicato nella prigione turca dell’isola
di Imrali.
Nelle mappe
che in questi giorni si sono moltiplicate per dare nomi e luoghi di vita alla frammentazione
delle tante minoranze, etnie, popoli, realtà della Siria (Alevis, Armeni,
Yazidi, Drusi, Assiri…), la Amministrazione Autonoma del Nord-est,
riconosciuta a livello internazionale con questo nome, rappresenta di fatto uno
dei fili conduttori più di fondo per comprendere che cosa è in gioco. Il silenzio,
che è di fatto una cancellazione di questa centralità, è il segnale più
preoccupante della direzione che ci si può attendere o, meglio, temere.
Alla dittatura che si è ‘dileguata’, più che essere sconfitta, con
l’appoggio-collaborazione della Turchia (e l’intervento massiccio di Israele,
distruttivo di tutto l’apparato militare) non è previsto, anzi è decisamente
proibito, che possa succedere un tempo che abbia all’ordine del giorno il
riconoscimento di un destino di civiltà per i popoli che hanno un loro
progetto. Anche e soprattutto di quello kurdo, che è la dimostrazione
indiscutibile che ‘si può fare’: anche e soprattutto in quell’area, in cui la
versione ufficiale della storia sembra dipenda prevalentemente da ideologie
travestite da ‘regimi’ religiosi, più o meno funzionali a strategie di poteri
globali.
Non ha senso
giocare a fare gli indovini su una situazione talmente imprevista per la forma
che ha preso, e che ha rimesso in discussione tutti i disequilibri già
esistenti. L’obiettivo di questo pro-memoria è molto limitato, e
accorato: chiedere, a tutti, in tutti i modi, di non cancellare,
nascondere, distruggere nel silenzio connivente della comunità internazionale
una rara esperienza di civiltà come Rojava. È lo stesso destino che si
cerca di ‘assegnare’ al popolo palestinese: e il popolo di Rojava è più
piccolo, poco noto, parte di vecchissime e rinnovate divisioni-trattati
coloniali che non si può nemmeno pensare di toccare.
In gioco è
qualcosa di più profondo e grave: consolidare e rendere normale la decisione di
fare della storia una partita a scacchi dei poteri statali, economici, militari
di turno. Non importa con quali forme di dittature: le mosse che si devono fare
prescindono dai loro costi umani, che sono obsoleti come categoria obbligatoria
di riferimento. Si possono-debbono includere nelle cronache come descrittori,
da sommare giorno per giorno, con la sola attenzione di mimare attenzione
stratificando le vittime per donne e bambini: effetti indesiderati e
inevitabili. Nulla di nuovo. Neppure per le centinaia di migliaia (per la
Siria, da tempo, milioni) di migranti più o meno affidati a ‘flussi’ che fanno
sempre più parte di considerazioni di mercato. Su tutto, trasversalmente, Erdogan
insegna ed è rispettato.
Nonostante
tutto: ricordiamoci di Rojava. Come tutti i popoli che sperimentano vita,
sono loro che diranno, sopravvivendo o meno, da che parte siamo andati anche
noi, che non possiamo essere solo spettatori rassegnati.
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