giovedì 5 dicembre 2024

Dalla parte dei palestinesi - Angela Davis

  

La solidarietà con i palestinesi e la loro lotta decennale in difesa della terra, della cultura e della libertà sono da tempo tra le questioni centrali della mia attività politica. Sono felice di vedere tanti giovani – soprattutto giovani neri – sostenere la lotta in Palestina oggi. Lo sconvolgimento emotivo che molti di noi hanno vissuto nell’ultimo anno, assistendo ai danni senza precedenti inflitti dall’esercito israeliano, mi ricorda quanto la ricerca di giustizia dei palestinesi sia essenziale per le lotte di liberazione negli Stati Uniti e in altre parti del mondo, e anche per me stessa in questo complicato scenario politico.

 Lo stato di Israele rappresenta non solo un progetto coloniale di insediamento, che continua la sua violenta espansione anche nel ventunesimo secolo. Nell’ultimo anno abbiamo visto un numero enorme di morti ingiustificate e un’incredibile devastazione, che ha sradicato quasi completamente la popolazione della Striscia di Gaza. Le grandi manifestazioni in tutto il mondo e il profondo dolore collettivo per la situazione nel territorio palestinese mi hanno fatto ripensare alle intense mobilitazioni politiche dell’estate 2020 negli Stati Uniti. Ovunque, anche in Palestina, le persone avevano provato rabbia e profonda tristezza per il linciaggio razzista di George Floyd fatto dalla polizia. Si potrebbe dire che le motivazioni alla base delle mobilitazioni per Floyd e delle proteste contro la guerra a Gaza siano diverse. Ma è davvero così?

Il lutto collettivo suscitato dalla violenza razzista che ha portato alla morte di George Floyd, Breonna Taylor e tanti altri ha alimentato le proteste contro i sistemi, le strutture e le storie che hanno permesso quella violenza razzista di stato. Le proteste erano dirette implicitamente contro l’imperialismo globale che favorisce la moltiplicazione delle strategie capitalistiche razziali. Alcune contestazioni hanno anche messo in luce gli insegnamenti che gli Stati Uniti hanno ricevuto dalla stretta alleanza con Israele, tra cui gli addestramenti offerti dall’esercito israeliano ai dipartimenti di polizia statunitensi in tutto il paese. Non importa se la polizia del Minnesota ha imparato davvero le tecniche di combattimento dall’esercito israeliano, resta il fatto che la crescente militarizzazione delle forze di polizia è direttamente connessa al capitalismo globale, compresi i legami economici e militari tra Israele e gli Stati Uniti.

La guerra genocida d’Israele contro il popolo palestinese di Gaza – che, insieme a quello in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e all’interno d’Israele è stato arruolato per incarnare suo malgrado il nemico principale di Tel Aviv – ha prodotto un dolore e una sofferenza inimmaginabili. Le famiglie di Gaza non si riprenderanno mai del tutto dalla morte dei loro cari, dalla distruzione delle case (il 70 per cento degli edifici sono stati danneggiati o distrutti), dalla lotta per sopravvivere più di un anno senza viveri e senza acqua o dal dormire all’aperto come complemento umano di un paesaggio martoriato, che difficilmente si risolleverà nel prossimo futuro. Le crudeli e disumanizzanti aggressioni verbali dei rappresentanti del governo e delle forze armate hanno amplificato il trauma. Annunciando un “assedio completo” di Gaza, l’ex ministro della difesa israeliano, Yoav Gallant, ha dichiarato: “Non ci saranno elettricità, viveri né carburante. Tutto è chiuso”. Ha giustificato questa azione aggiungendo: “Combattiamo contro animali umani e agiamo di conseguenza”. La stampa internazionale ha citato ampiamente queste dichiarazioni dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023.

Secondo le accuse presentate dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia, le atrocità hanno raggiunto le dimensioni di un genocidio. Ma in mezzo a tutto questo, sono emerse una resistenza e una solidarietà globale senza precedenti a favore degli abitanti di Gaza e dei palestinesi. Come molti altri in questi tempi angoscianti, mi sono sentita confortata dall’iniziativa presa da Jewish voice for peace, IfNotNow e altre organizzazioni ebraiche progressiste. La loro presenza forte nel movimento di protesta ci ricorda che le logiche dualistiche impediscono di capire in modo più accurato e sfumato cosa significhi impegnarsi nelle lotte per la libertà.

Ho avuto la fortuna di essere testimone della solidarietà ebraica verso la Palestina, per quanto minoritaria, all’inizio della storia dello stato di Israele, quando studiavo alla Brandeis university. Il mio sostegno alla Palestina affonda le radici in quelle esperienze della mia giovinezza politica. Ho imparato il valore morale della solidarietà politica e cosa significhi esprimerla non solo da una posizione minoritaria all’interno di una più ampia comunità progressista, ma anche attraverso una profonda identificazione con chi era considerato un nemico. La solidarietà non è mai del tutto lineare, ma le circostanze ci impongono di andare al di là delle spiegazioni semplicistiche che attribuiscono la rettitudine morale a una parte e la totale depravazione all’altra. La solidarietà c’impone di riconoscere l’inganno di una contrapposizione che di fatto impedisce di coniugare il sostegno alla Palestina con una condanna profonda e autentica dell’antisemitismo.

Riflettendo sul significato della solidarietà, ho imparato negli anni quanto sia pericoloso oggettivare chi consideriamo un nemico, al punto che nulla di quello che fa o dice può mai modificare o anche solo mettere in dubbio le caratteristiche che in teoria incarna. È facile adeguarsi alle opinioni dominanti che fanno leva su queste oggettivazioni e penso che la maggior parte di noi (me compresa) abbia ceduto, a volte, a queste pressioni. Il colonialismo, il razzismo e il patriarcato prosperano su queste capitolazioni.

Alcuni di noi hanno avuto la fortuna di conoscere forme alternative di comprensione, impegni critici che mettono in discussione le basi ideologiche di quello con cui ci confrontiamo. Sono riconoscente a molte persone dei vari movimenti e organizzazioni collettive di cui ho fatto parte – il Partito comunista statunitense, il Comitato studentesco per il coordinamento non violento di Los Angeles, le Pantere nere, la Lega tedesca degli studenti socialisti, il Progetto per la salute delle donne nere e molte altre – per aver indirizzato me e altri su strade più produttive, senza curarsi delle conseguenze per la loro vita. Ho sempre provato attrazione per chi è pronto a sfidare lo status quo. E sono grata a chi mi ha offerto sostegno quando sono stata attaccata personalmente.

Nel 2018 l’Istituto per i diritti civili di Birmingham mi ha offerto un premio per i diritti umani intitolato a Fred Shuttlesworth, un cofondatore del Congresso dei leader cristiani degli stati del sud, per poi revocare l’onorificenza a causa del mio attivismo in favore della Palestina. Prima ancora che potessi decidere come reagire, Jewish voice for peace e altre organizzazioni ebraiche progressiste hanno cominciato a mobilitarsi.

Il loro sostegno è stato particolarmente importante, perché era chiaro che non ero presa di mira come individuo. Alcuni mesi dopo, l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha attaccato la parlamentare Ilhan Omar, insinuando, ingiustamente, che non fosse abbastanza critica nei confronti degli attentatori dell’11 settembre 2001 e accusandola di antisemitismo per il suo sostegno morale alla Palestina. La studiosa e attivista Barbara Ransby, insieme ad altri, ha organizzato un raduno in difesa di Omar a Washing­ton, insieme alle deputate Rashida Tlaib, Ayanna Pressley e Alexandria Ocasio-Cortez. Nel novembre 2018 la Cnn ha licenziato l’accademico e attivista Marc Lamont Hill perché aveva usato la frase “dal fiume al mare” durante un incontro alle Nazioni Unite per la Giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese. Il suo licenziamento preannunciava il diffuso sforzo ancora attivo tra i sionisti di vietare uno slogan che per molti, nelle parole di Tlaib, è “un appello alla libertà, ai diritti umani e alla convivenza pacifica, non alla morte, alla distruzione o all’odio”.

Era chiaro che la lobby sionista stava intensificando la sua offensiva perché stava perdendo terreno. Durante e dopo le proteste scoppiate a Ferguson nel 2014 in seguito alla morte di Michael Brown, un ragazzo afroamericano ucciso da un agente, i giovani attivisti neri e i loro sostenitori avevano cominciato a sfidare con forza la rappresentazione ideologica di Israele come avamposto fondamentale della democrazia in Medio Oriente, da difendere a tutti i costi. Il lungo lavoro degli attivisti palestinesi Linda Sarsour, Ahmad Abuzaid e altri per sviluppare alleanze in grado di estendere la solidarietà dei neri verso la Palestina e coltivare di più l’internazionalismo all’interno del movimento Black lives matter ha cominciato a risuonare in modo diffuso.

I Dream defenders, fondati in Florida da Phillip Agnew, Ahmad Abuznaid e Gabriel Pendas all’indomani dell’omicidio di Trayvon Martin (ucciso da un poliziotto nel 2012), non solo hanno riunito statunitensi palestinesi e africani in un’organizzazione che s’identifica come abolizionista, femminista e socialista, ma hanno anche organizzato una serie di delegazioni in Palestina. Vedo un filo diretto che collega questa storia recente – e, naturalmente, tutta la storia che lega i movimenti neri e palestinesi dalla Nakba del 1948 (la cacciata dei palestinesi dalle loro terre con la nascita dello stato d’Israele) – con il crescente numero di afroamericani che rifiutano di aderire alla linea del Partito democratico sul sostegno a Israele.

Come sostenitori e militanti, spesso non abbiamo la possibilità di assistere ai cambiamenti per cui lottiamo; ci aspettiamo, invece, che il nostro impegno produca nuovi punti di partenza per le generazioni a venire. A volte però, se viviamo abbastanza a lungo, possiamo avere la fortuna di testimoniare l’impatto delle battaglie a cui abbiamo partecipato.

Quando ho saputo che il premio Fred Shuttlesworth per i diritti umani era stato revocato in risposta al mio attivismo per la Palestina, ho sentito il respiro fermarsi, come se questo colpo mi avesse tolto il fiato, motivo per cui nella mia dichiarazione ho detto di essere “stordita”. Questa sensazione si è però presto dissolta quando sono cominciate a circolare molte espressioni di solidarietà da tutto il mondo, anche da organizzazioni di rabbini e altri gruppi ebraici. Le risposte di grandissimo sostegno delle organizzazioni nere e progressiste mi hanno ricordato che l’impegno per la libertà, anche quando non sembra fare una differenza significativa, può portare a risultati profondi e trasformativi.

Anche se il galà dell’istituto per i diritti civili di Birmingham era stato cancellato, gli attivisti della comunità, insieme al sindaco e ad altri funzionari della città, si sono riuniti per organizzare un raduno pubblico al Boutwell auditorium che probabilmente ha richiamato dieci volte più persone di quanto avrebbe fatto l’evento ufficiale. Questo evento ha suscitato in me, a livello personale e politico, un raro e profondo senso di trionfo collettivo. In quello storico bastione della segregazione razzista dove sono nata e cresciuta – la Johannesburg del sud degli Stati Uniti – una vasta collettività di persone di diversa estrazione razziale, religiosa e culturale testimoniava che l’influenza dell’ideologia sionista si stava indebolendo. Ammirando il pubblico dal palco, ho visto tanti amici d’infanzia, alcuni dei quali avevano contribuito a organizzare il raduno, e tutti si stavano mettendo fisicamente in prima linea, presentandosi in massa.

Prima di arrivare a Birmingham, ero passata da Waltham, nel Massachusetts, per partecipare alla celebrazione del cinquantesimo anniversario della facoltà di studi africani e afroamericani della Brandeis university. Nei primi anni sessanta, agli studenti della Brandeis si ricordava continuamente che Israele era stato creato nel 1948, lo stesso anno di fondazione dell’università. Anche se nessuno di noi poteva sfuggire al sionismo dilagante, ero grata di aver avuto, durante il mio primo anno, una compagna di stanza ebrea che mi ha sempre invitato a riflettere criticamente sulla rappresentazione di Israele come unica difesa possibile per la comunità ebraica globale. Ha richiamato la mia attenzione sulla condizione dei palestinesi, che erano sistematicamente privati della loro terra, dei loro diritti e del loro futuro. Mi ha anche aiutato a capire che stare dalla parte della resistenza palestinese era il modo migliore per lottare per un mondo più sicuro per tutti.

Parlo della mia esperienza alla Brandeis perché, anche se l’istituto ha sempre ribadito che i palestinesi incarnano una minaccia continua all’esistenza d’Israele (è stata la prima università privata a vietare una sezione di Students for justice in Palestine nel suo campus), non ricordo alcun conflitto importante su questo tema durante il periodo in cui ho studiato lì. Ma ricordo molte conversazioni riservate sull’impatto di questo processo militaristico di costruzione della nazione sul popolo palestinese. Quello che ora apprezzo profondamente è che ho conservato intuizioni cruciali sulla parentela tra razzismo e antisemitismo (nella mia città natale, Birmingham, violenti suprematisti bianchi hanno fatto esplodere chiese e case di neri e hanno preso di mira una sinagoga), e queste intuizioni hanno continuato a condurmi alle persone con cui mi sono organizzata e con cui ho socializzato. Non sono state eliminate dalla mia crescente consapevolezza dei pericoli del sionismo.

Dopo essermi laureata alla Brandeis nel 1965, sono andata a Francoforte, in Germania, per studiare con Max Horkheimer, Theodor Adorno e altri associati all’Istituto per la ricerca sociale dell’università locale. Poco dopo il mio arrivo, sono stata coinvolta nella Lega tedesca degli studenti socialisti (Sds). Era proprio il periodo in cui l’Sds cominciava ad allontanarsi da Tel Aviv e a solidarizzare con gli stati arabi che sfidavano Israele. Pochi giorni prima dello scoppio della guerra del 1967, la polizia uccise uno studente di nome Benno Ohnesorg mentre partecipava a una protesta dell’Sds contro la visita dello scià dell’Iran a Berlino. La violenza fascista della polizia avvenne contemporaneamente all’attacco dell’esercito israeliano. Questo portò l’Sds a creare un’interessante connessione tra il sostegno ai movimenti di liberazione del terzo mondo (compresa la solidarietà con la Palestina) e la contestazione della violenza della polizia e di altre forme di repressione statale all’interno della Germania Ovest. Il fatto che uno studente potesse essere ucciso per aver partecipato a proteste pacifiche era una chiara prova che la Germania Ovest non aveva superato i pericoli del fascismo.

Dopo il mio ritorno negli Stati Uniti nell’autunno del 1967, ero determinata a trovare la mia strada nel rivoluzionario movimento per la liberazione dei neri e mi rimisi in contatto con Herbert Marcuse, il mio mentore della Brandeis, che ora insegnava alla Uc San Diego. Le mie esperienze in Germania – soprattutto tra gli studenti provenienti dall’Africa e da altre parti di quello che allora era conosciuto come terzo mondo – avevano consolidato la mia adesione all’internazionalismo rivoluzionario, e gravitavo verso organizzazioni e individui che condividevano questa identificazione.

In un momento di crescente solidarietà globale con le lotte del terzo mondo, tutti i gruppi con cui ho lavorato – il Partito comunista, le pantere nere e la sezione di Los Angeles dello Student nonviolent coordinating committee (Sncc) – erano assolutamente chiari sulla loro solidarietà con la Palestina. In quel periodo, partecipai a una serie di conversazioni politiche stimolanti e illuminanti con James Forman, che allora era il direttore degli affari internazionali dell’Sncc. A quel tempo l’Sncc incoraggiava i suoi militanti a studiare la situazione in Medio Oriente. L’organizzazione insisteva sul fatto che per ottenere progressi significativi nelle nostre lotte era necessario abbracciare l’internazionalismo. In una lettera che Forman scrisse al segretario esecutivo dell’Sncc durante la guerra del 1967, spiegava:

La lotta di classe nella comunità nera diventerà più intensa se la guerra continuerà. Ovviamente la reazione “di pancia” di molte persone è contro Israele e a favore degli arabi, e riflette la tensione tra bianchi e neri, l’indurimento del razzismo e le particolari circostanze in cui ci troviamo negli Stati Uniti. Tuttavia, per noi dell’organizzazione, in particolare per quelli che occupano posizioni di leadership, diventa fondamentale studiare lo sviluppo storico e le politiche economiche contemporanee di Israele. In realtà Israele rappresenta un’estensione della politica estera degli Stati Uniti e un tentativo dei sionisti di creare una patria per gli ebrei. Questo tentativo si fonde con la politica estera in molti paesi, soprattutto negli Stati Uniti, nel Regno Unito e, per alcuni aspetti, in Francia.

Quando l’Fbi mi arrestò nell’ottobre 1970, non potevo prevedere che la mia vicinanza politica alla Palestina sarebbe aumentata in modo esponenziale. Tra le molte espressioni di solidarietà che mi sono state inviate durante la prigionia, i messaggi provenienti dalle carceri sono stati quelli che mi hanno commosso di più. Ricordo ancora quanto mi sentii umile quando ricevetti una bellissima lettera di solidarietà firmata da prigionieri politici palestinesi. La lettera era stata fatta uscire di nascosto da un carcere israeliano e trasmessa ai miei avvocati, che l’avevano portata nel carcere californiano dove ero detenuta.

Circa quarant’anni dopo, quando mi sono unita a una delegazione di solidarietà alla Palestina composta da donne di colore e studiosi-attivisti indigeni, ho incontrato un attivista palestinese che mi ha detto di essere uno dei detenuti che avevano firmato quel messaggio di solidarietà tanti anni prima. Quando ci siamo abbracciati, ho provato un profondo senso di soddisfazione per la traiettoria della mia vita e per come ha intersecato quella di tante altre persone in tutto il mondo che, ancora e ancora, generano collettivamente la speranza di una trasformazione radicale iscritta nel nostro futuro.

Oggi gli incessanti attacchi militari a Gaza sono motivo di profonda disperazione, soprattutto perché ogni giorno veniamo a sapere di uccisioni e distruzioni senza precedenti tra le guerre recenti. Nonostante l’ovvia necessità di un cessate il fuoco – un cessate il fuoco permanente – il governo degli Stati Uniti continua a fornire aiuti e sostegno a Israele.

I giovani attivisti di oggi stanno cercando di sciogliere questo enigma, anche se il governo statunitense ed entrambi i principali partiti politici del paese restano asserviti al sionismo. Nonostante i loro sforzi per convincere l’opinione pubblica che qualsiasi critica o dubbio sullo stato di Israele equivalga all’antisemitismo, dei giovani svegli, tra cui attivisti ebrei radicali, sottolineano che le lotte più efficaci contro l’antisemitismo sono necessariamente legate all’opposizione contro il razzismo, l’islamofobia e altri modi di reprimere e discriminare. È la prima volta, a mia memoria politica, che il movimento di solidarietà con la Palestina registra un sostegno così ampio sia negli Stati Uniti sia nel resto del mondo. Negli Stati Uniti, nonostante le strategie maccartiste contro chi chiede libertà e giustizia per la Palestina nelle università, nell’industria dell’intrattenimento e altrove, siamo in un nuovo momento politico e non possiamo – non dobbiamo – capitolare di fronte a chi rappresenta gli interessi del capitalismo razziale e le eredità del colonialismo. Come ha scritto la poeta e attivista statunitense June Jordan in “Poema per le donne sudafricane”:

E chi si unirà a questo alzarsi in piedi

e quelli che sono rimasti in piedi

senza una dolce compagnia

canteranno e canteranno

di nuovo sulle montagne e

se necessario

anche sotto il mare

siamo quelli che stavamo aspettando  svb

da qui

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