La solidarietà con i palestinesi e la loro
lotta decennale in difesa della terra, della cultura e della libertà sono da
tempo tra le questioni centrali della mia attività politica. Sono felice di
vedere tanti giovani – soprattutto giovani neri – sostenere la lotta in
Palestina oggi. Lo sconvolgimento emotivo che molti di noi hanno vissuto
nell’ultimo anno, assistendo ai danni senza precedenti inflitti dall’esercito
israeliano, mi ricorda quanto la ricerca di giustizia dei palestinesi sia
essenziale per le lotte di liberazione negli Stati Uniti e in altre parti del
mondo, e anche per me stessa in questo complicato scenario politico.
Lo
stato di Israele rappresenta non solo un progetto coloniale di insediamento,
che continua la sua violenta espansione anche nel ventunesimo secolo.
Nell’ultimo anno abbiamo visto un numero enorme di morti ingiustificate e
un’incredibile devastazione, che ha sradicato quasi completamente la
popolazione della Striscia di Gaza. Le grandi manifestazioni in tutto il mondo
e il profondo dolore collettivo per la situazione nel territorio palestinese mi
hanno fatto ripensare alle intense mobilitazioni politiche dell’estate 2020
negli Stati Uniti. Ovunque, anche in Palestina, le persone avevano provato
rabbia e profonda tristezza per il linciaggio razzista di George Floyd fatto
dalla polizia. Si potrebbe dire che le motivazioni alla base delle
mobilitazioni per Floyd e delle proteste contro la guerra a Gaza siano diverse.
Ma è davvero così?
Il lutto collettivo suscitato dalla
violenza razzista che ha portato alla morte di George Floyd, Breonna Taylor e
tanti altri ha alimentato le proteste contro i sistemi, le strutture e le
storie che hanno permesso quella violenza razzista di stato. Le proteste erano
dirette implicitamente contro l’imperialismo globale che favorisce la
moltiplicazione delle strategie capitalistiche razziali. Alcune contestazioni
hanno anche messo in luce gli insegnamenti che gli Stati Uniti hanno ricevuto
dalla stretta alleanza con Israele, tra cui gli addestramenti offerti
dall’esercito israeliano ai dipartimenti di polizia statunitensi in tutto il
paese. Non importa se la polizia del Minnesota ha imparato davvero le tecniche
di combattimento dall’esercito israeliano, resta il fatto che la crescente
militarizzazione delle forze di polizia è direttamente connessa al capitalismo
globale, compresi i legami economici e militari tra Israele e gli Stati Uniti.
La guerra genocida d’Israele contro il
popolo palestinese di Gaza – che, insieme a quello in Cisgiordania, a
Gerusalemme Est e all’interno d’Israele è stato arruolato per incarnare suo
malgrado il nemico principale di Tel Aviv – ha prodotto un dolore e una
sofferenza inimmaginabili. Le famiglie di Gaza non si riprenderanno mai del
tutto dalla morte dei loro cari, dalla distruzione delle case (il 70 per cento
degli edifici sono stati danneggiati o distrutti), dalla lotta per sopravvivere
più di un anno senza viveri e senza acqua o dal dormire all’aperto come
complemento umano di un paesaggio martoriato, che difficilmente si risolleverà
nel prossimo futuro. Le crudeli e disumanizzanti aggressioni verbali dei
rappresentanti del governo e delle forze armate hanno amplificato il trauma.
Annunciando un “assedio completo” di Gaza, l’ex ministro della difesa
israeliano, Yoav Gallant, ha dichiarato: “Non ci saranno elettricità, viveri né
carburante. Tutto è chiuso”. Ha giustificato questa azione aggiungendo: “Combattiamo
contro animali umani e agiamo di conseguenza”. La stampa internazionale ha
citato ampiamente queste dichiarazioni dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre
2023.
Secondo le accuse presentate dal Sudafrica
alla Corte internazionale di giustizia, le atrocità hanno raggiunto le
dimensioni di un genocidio. Ma in mezzo a tutto questo, sono emerse una
resistenza e una solidarietà globale senza precedenti a favore degli abitanti
di Gaza e dei palestinesi. Come molti altri in questi tempi angoscianti, mi sono
sentita confortata dall’iniziativa presa da Jewish voice for peace, IfNotNow e
altre organizzazioni ebraiche progressiste. La loro presenza forte nel
movimento di protesta ci ricorda che le logiche dualistiche impediscono di
capire in modo più accurato e sfumato cosa significhi impegnarsi nelle lotte
per la libertà.
Ho avuto la fortuna di essere testimone
della solidarietà ebraica verso la Palestina, per quanto minoritaria,
all’inizio della storia dello stato di Israele, quando studiavo alla Brandeis
university. Il mio sostegno alla Palestina affonda le radici in quelle
esperienze della mia giovinezza politica. Ho imparato il valore morale della
solidarietà politica e cosa significhi esprimerla non solo da una posizione
minoritaria all’interno di una più ampia comunità progressista, ma anche
attraverso una profonda identificazione con chi era considerato un nemico. La
solidarietà non è mai del tutto lineare, ma le circostanze ci impongono di
andare al di là delle spiegazioni semplicistiche che attribuiscono la
rettitudine morale a una parte e la totale depravazione all’altra. La
solidarietà c’impone di riconoscere l’inganno di una contrapposizione che di
fatto impedisce di coniugare il sostegno alla Palestina con una condanna
profonda e autentica dell’antisemitismo.
Riflettendo sul significato della
solidarietà, ho imparato negli anni quanto sia pericoloso oggettivare chi
consideriamo un nemico, al punto che nulla di quello che fa o dice può mai
modificare o anche solo mettere in dubbio le caratteristiche che in teoria
incarna. È facile adeguarsi alle opinioni dominanti che fanno leva su queste
oggettivazioni e penso che la maggior parte di noi (me compresa) abbia ceduto,
a volte, a queste pressioni. Il colonialismo, il razzismo e il patriarcato
prosperano su queste capitolazioni.
Alcuni di noi hanno avuto la fortuna di
conoscere forme alternative di comprensione, impegni critici che mettono in
discussione le basi ideologiche di quello con cui ci confrontiamo. Sono
riconoscente a molte persone dei vari movimenti e organizzazioni collettive di
cui ho fatto parte – il Partito comunista statunitense, il Comitato studentesco
per il coordinamento non violento di Los Angeles, le Pantere nere, la Lega
tedesca degli studenti socialisti, il Progetto per la salute delle donne nere e
molte altre – per aver indirizzato me e altri su strade più produttive, senza
curarsi delle conseguenze per la loro vita. Ho sempre provato attrazione per
chi è pronto a sfidare lo status quo. E sono grata a chi mi ha offerto sostegno
quando sono stata attaccata personalmente.
Nel 2018 l’Istituto per i diritti civili
di Birmingham mi ha offerto un premio per i diritti umani intitolato a Fred
Shuttlesworth, un cofondatore del Congresso dei leader cristiani degli stati
del sud, per poi revocare l’onorificenza a causa del mio attivismo in favore
della Palestina. Prima ancora che potessi decidere come reagire, Jewish voice
for peace e altre organizzazioni ebraiche progressiste hanno cominciato a
mobilitarsi.
Il loro sostegno è stato particolarmente
importante, perché era chiaro che non ero presa di mira come individuo. Alcuni
mesi dopo, l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha attaccato la
parlamentare Ilhan Omar, insinuando, ingiustamente, che non fosse abbastanza
critica nei confronti degli attentatori dell’11 settembre 2001 e accusandola di
antisemitismo per il suo sostegno morale alla Palestina. La studiosa e
attivista Barbara Ransby, insieme ad altri, ha organizzato un raduno in difesa
di Omar a Washington, insieme alle deputate Rashida Tlaib, Ayanna Pressley e
Alexandria Ocasio-Cortez. Nel novembre 2018 la Cnn ha licenziato l’accademico e
attivista Marc Lamont Hill perché aveva usato la frase “dal fiume al mare”
durante un incontro alle Nazioni Unite per la Giornata internazionale della
solidarietà con il popolo palestinese. Il suo licenziamento preannunciava il
diffuso sforzo ancora attivo tra i sionisti di vietare uno slogan che per
molti, nelle parole di Tlaib, è “un appello alla libertà, ai diritti umani e
alla convivenza pacifica, non alla morte, alla distruzione o all’odio”.
Era chiaro che la lobby sionista stava
intensificando la sua offensiva perché stava perdendo terreno. Durante e dopo
le proteste scoppiate a Ferguson nel 2014 in seguito alla morte di Michael
Brown, un ragazzo afroamericano ucciso da un agente, i giovani attivisti neri e
i loro sostenitori avevano cominciato a sfidare con forza la rappresentazione
ideologica di Israele come avamposto fondamentale della democrazia in Medio
Oriente, da difendere a tutti i costi. Il lungo lavoro degli attivisti
palestinesi Linda Sarsour, Ahmad Abuzaid e altri per sviluppare alleanze in
grado di estendere la solidarietà dei neri verso la Palestina e coltivare di
più l’internazionalismo all’interno del movimento Black lives matter ha
cominciato a risuonare in modo diffuso.
I Dream defenders, fondati in Florida da
Phillip Agnew, Ahmad Abuznaid e Gabriel Pendas all’indomani dell’omicidio di
Trayvon Martin (ucciso da un poliziotto nel 2012), non solo hanno riunito
statunitensi palestinesi e africani in un’organizzazione che s’identifica come
abolizionista, femminista e socialista, ma hanno anche organizzato una serie di
delegazioni in Palestina. Vedo un filo diretto che collega questa storia
recente – e, naturalmente, tutta la storia che lega i movimenti neri e
palestinesi dalla Nakba del 1948 (la cacciata dei palestinesi dalle loro terre
con la nascita dello stato d’Israele) – con il crescente numero di afroamericani
che rifiutano di aderire alla linea del Partito democratico sul sostegno a
Israele.
Come sostenitori e militanti, spesso non
abbiamo la possibilità di assistere ai cambiamenti per cui lottiamo; ci
aspettiamo, invece, che il nostro impegno produca nuovi punti di partenza per
le generazioni a venire. A volte però, se viviamo abbastanza a lungo, possiamo
avere la fortuna di testimoniare l’impatto delle battaglie a cui abbiamo
partecipato.
Quando ho saputo che il premio Fred
Shuttlesworth per i diritti umani era stato revocato in risposta al mio
attivismo per la Palestina, ho sentito il respiro fermarsi, come se questo
colpo mi avesse tolto il fiato, motivo per cui nella mia dichiarazione ho detto
di essere “stordita”. Questa sensazione si è però presto dissolta quando sono
cominciate a circolare molte espressioni di solidarietà da tutto il mondo,
anche da organizzazioni di rabbini e altri gruppi ebraici. Le risposte di
grandissimo sostegno delle organizzazioni nere e progressiste mi hanno
ricordato che l’impegno per la libertà, anche quando non sembra fare una
differenza significativa, può portare a risultati profondi e trasformativi.
Anche se il galà dell’istituto per i
diritti civili di Birmingham era stato cancellato, gli attivisti della
comunità, insieme al sindaco e ad altri funzionari della città, si sono riuniti
per organizzare un raduno pubblico al Boutwell auditorium che probabilmente ha
richiamato dieci volte più persone di quanto avrebbe fatto l’evento ufficiale.
Questo evento ha suscitato in me, a livello personale e politico, un raro e
profondo senso di trionfo collettivo. In quello storico bastione della
segregazione razzista dove sono nata e cresciuta – la Johannesburg del sud
degli Stati Uniti – una vasta collettività di persone di diversa estrazione
razziale, religiosa e culturale testimoniava che l’influenza dell’ideologia
sionista si stava indebolendo. Ammirando il pubblico dal palco, ho visto tanti
amici d’infanzia, alcuni dei quali avevano contribuito a organizzare il raduno,
e tutti si stavano mettendo fisicamente in prima linea, presentandosi in massa.
Prima di arrivare a Birmingham, ero
passata da Waltham, nel Massachusetts, per partecipare alla celebrazione del
cinquantesimo anniversario della facoltà di studi africani e afroamericani
della Brandeis university. Nei primi anni sessanta, agli studenti della
Brandeis si ricordava continuamente che Israele era stato creato nel 1948, lo
stesso anno di fondazione dell’università. Anche se nessuno di noi poteva
sfuggire al sionismo dilagante, ero grata di aver avuto, durante il mio primo
anno, una compagna di stanza ebrea che mi ha sempre invitato a riflettere criticamente
sulla rappresentazione di Israele come unica difesa possibile per la comunità
ebraica globale. Ha richiamato la mia attenzione sulla condizione dei
palestinesi, che erano sistematicamente privati della loro terra, dei loro
diritti e del loro futuro. Mi ha anche aiutato a capire che stare dalla parte
della resistenza palestinese era il modo migliore per lottare per un mondo più
sicuro per tutti.
Parlo della mia esperienza alla Brandeis
perché, anche se l’istituto ha sempre ribadito che i palestinesi incarnano una
minaccia continua all’esistenza d’Israele (è stata la prima università privata
a vietare una sezione di Students for justice in Palestine nel suo campus), non
ricordo alcun conflitto importante su questo tema durante il periodo in cui ho
studiato lì. Ma ricordo molte conversazioni riservate sull’impatto di questo
processo militaristico di costruzione della nazione sul popolo palestinese.
Quello che ora apprezzo profondamente è che ho conservato intuizioni cruciali
sulla parentela tra razzismo e antisemitismo (nella mia città natale,
Birmingham, violenti suprematisti bianchi hanno fatto esplodere chiese e case
di neri e hanno preso di mira una sinagoga), e queste intuizioni hanno
continuato a condurmi alle persone con cui mi sono organizzata e con cui ho
socializzato. Non sono state eliminate dalla mia crescente consapevolezza dei
pericoli del sionismo.
Dopo essermi laureata alla Brandeis nel
1965, sono andata a Francoforte, in Germania, per studiare con Max Horkheimer,
Theodor Adorno e altri associati all’Istituto per la ricerca sociale
dell’università locale. Poco dopo il mio arrivo, sono stata coinvolta nella
Lega tedesca degli studenti socialisti (Sds). Era proprio il periodo in cui
l’Sds cominciava ad allontanarsi da Tel Aviv e a solidarizzare con gli stati
arabi che sfidavano Israele. Pochi giorni prima dello scoppio della guerra del
1967, la polizia uccise uno studente di nome Benno Ohnesorg mentre partecipava
a una protesta dell’Sds contro la visita dello scià dell’Iran a Berlino. La violenza
fascista della polizia avvenne contemporaneamente all’attacco dell’esercito
israeliano. Questo portò l’Sds a creare un’interessante connessione tra il
sostegno ai movimenti di liberazione del terzo mondo (compresa la solidarietà
con la Palestina) e la contestazione della violenza della polizia e di altre
forme di repressione statale all’interno della Germania Ovest. Il fatto che uno
studente potesse essere ucciso per aver partecipato a proteste pacifiche era
una chiara prova che la Germania Ovest non aveva superato i pericoli del
fascismo.
Dopo il mio ritorno negli Stati Uniti
nell’autunno del 1967, ero determinata a trovare la mia strada nel
rivoluzionario movimento per la liberazione dei neri e mi rimisi in contatto
con Herbert Marcuse, il mio mentore della Brandeis, che ora insegnava alla Uc
San Diego. Le mie esperienze in Germania – soprattutto tra gli studenti
provenienti dall’Africa e da altre parti di quello che allora era conosciuto
come terzo mondo – avevano consolidato la mia adesione all’internazionalismo
rivoluzionario, e gravitavo verso organizzazioni e individui che condividevano
questa identificazione.
In un momento di crescente solidarietà
globale con le lotte del terzo mondo, tutti i gruppi con cui ho lavorato – il
Partito comunista, le pantere nere e la sezione di Los Angeles dello Student
nonviolent coordinating committee (Sncc) – erano assolutamente chiari sulla
loro solidarietà con la Palestina. In quel periodo, partecipai a una serie di
conversazioni politiche stimolanti e illuminanti con James Forman, che allora
era il direttore degli affari internazionali dell’Sncc. A quel tempo l’Sncc
incoraggiava i suoi militanti a studiare la situazione in Medio Oriente.
L’organizzazione insisteva sul fatto che per ottenere progressi significativi
nelle nostre lotte era necessario abbracciare l’internazionalismo. In una
lettera che Forman scrisse al segretario esecutivo dell’Sncc durante la guerra
del 1967, spiegava:
La lotta di classe nella comunità nera
diventerà più intensa se la guerra continuerà. Ovviamente la reazione “di
pancia” di molte persone è contro Israele e a favore degli arabi, e riflette la
tensione tra bianchi e neri, l’indurimento del razzismo e le particolari
circostanze in cui ci troviamo negli Stati Uniti. Tuttavia, per noi dell’organizzazione,
in particolare per quelli che occupano posizioni di leadership, diventa
fondamentale studiare lo sviluppo storico e le politiche economiche
contemporanee di Israele. In realtà Israele rappresenta un’estensione della
politica estera degli Stati Uniti e un tentativo dei sionisti di creare una
patria per gli ebrei. Questo tentativo si fonde con la politica estera in molti
paesi, soprattutto negli Stati Uniti, nel Regno Unito e, per alcuni aspetti, in
Francia.
Quando l’Fbi mi arrestò nell’ottobre 1970,
non potevo prevedere che la mia vicinanza politica alla Palestina sarebbe
aumentata in modo esponenziale. Tra le molte espressioni di solidarietà che mi
sono state inviate durante la prigionia, i messaggi provenienti dalle carceri
sono stati quelli che mi hanno commosso di più. Ricordo ancora quanto mi sentii
umile quando ricevetti una bellissima lettera di solidarietà firmata da
prigionieri politici palestinesi. La lettera era stata fatta uscire di nascosto
da un carcere israeliano e trasmessa ai miei avvocati, che l’avevano portata
nel carcere californiano dove ero detenuta.
Circa quarant’anni dopo, quando mi sono
unita a una delegazione di solidarietà alla Palestina composta da donne di
colore e studiosi-attivisti indigeni, ho incontrato un attivista palestinese
che mi ha detto di essere uno dei detenuti che avevano firmato quel messaggio
di solidarietà tanti anni prima. Quando ci siamo abbracciati, ho provato un
profondo senso di soddisfazione per la traiettoria della mia vita e per come ha
intersecato quella di tante altre persone in tutto il mondo che, ancora e
ancora, generano collettivamente la speranza di una trasformazione radicale
iscritta nel nostro futuro.
Oggi gli incessanti attacchi militari a
Gaza sono motivo di profonda disperazione, soprattutto perché ogni giorno
veniamo a sapere di uccisioni e distruzioni senza precedenti tra le guerre
recenti. Nonostante l’ovvia necessità di un cessate il fuoco – un cessate il
fuoco permanente – il governo degli Stati Uniti continua a fornire aiuti e
sostegno a Israele.
I giovani attivisti di oggi stanno
cercando di sciogliere questo enigma, anche se il governo statunitense ed
entrambi i principali partiti politici del paese restano asserviti al sionismo.
Nonostante i loro sforzi per convincere l’opinione pubblica che qualsiasi
critica o dubbio sullo stato di Israele equivalga all’antisemitismo, dei
giovani svegli, tra cui attivisti ebrei radicali, sottolineano che le lotte più
efficaci contro l’antisemitismo sono necessariamente legate all’opposizione
contro il razzismo, l’islamofobia e altri modi di reprimere e discriminare. È
la prima volta, a mia memoria politica, che il movimento di solidarietà con la
Palestina registra un sostegno così ampio sia negli Stati Uniti sia nel resto
del mondo. Negli Stati Uniti, nonostante le strategie maccartiste contro chi
chiede libertà e giustizia per la Palestina nelle università, nell’industria
dell’intrattenimento e altrove, siamo in un nuovo momento politico e non
possiamo – non dobbiamo – capitolare di fronte a chi rappresenta gli interessi
del capitalismo razziale e le eredità del colonialismo. Come ha scritto la
poeta e attivista statunitense June Jordan in “Poema per le donne sudafricane”:
E chi si unirà a questo alzarsi in piedi
e quelli che sono rimasti in piedi
senza una dolce compagnia
canteranno e canteranno
di nuovo sulle montagne e
se necessario
anche sotto il mare
siamo quelli che stavamo aspettando ◆ svb
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