mercoledì 25 dicembre 2024

Meloni, l’amerikana - Gian Giacomo Migone

La presidente del Consiglio, malgrado le apparenze, deve essere veramente mal ridotta se, con un classico caso di identificazione proiettiva, scaglia contro Romano Prodi, placido ragionatore emiliano, l’improbabile accusa d’isteria polemica. Il merito è rivelatore. L’ex presidente del Consiglio ha serenamente constatato che la signora in questione, da postfascista ruggente – ormai tale soltanto nella forma – si è trasformata in servile subalterna dell’establishment italiano e statunitense. Pur in forma pacata, certamente la più infamante delle accuse per una persona della sua storia: in parole mie, di essere di fatto diventata una badogliana, cioè tale da scaricare quella sovranità italiana mai del tutto riconquistata, per un ormai lontano senso di colpa. È da osservare che l’art. XI della Costituzione prevede rinunce di sovranità purché reciproche (come nel caso degli aderenti all’Unione Europea ma non, dico non, della NATO).

Non a caso, e qui il passato diventa presente e futuro, tra le accuse rivolte a Prodi, spicca quella di avere voluto l’adesione all’euro: principale antidoto a quel ritorno a un’Europa ancora asservita alla spartizione di Yalta, rilanciata dalla guerra d’Ucraina, subita da von der Leyen e votata da Meloni (e, purtroppo, anche da Schlein). Da quando l’egemonia di Washington si è trasformata in interventismo e intermittente dominio militare, è diventata sempre più evidente la sua ostilità nei confronti di un’Europa unificata. Me lo confessò un mio ex professore, Henry Kissinger, l’ultima volta che c’incontrammo, nel lontano 1997. La ragione è semplice anche se sistematicamente sottaciuta. Mentre la Cina e una Russia rivitalizzata dalla guerra in Ucraina, costituiscono la credibile threat, la minaccia credibile necessaria a giustificare una spesa, presenza e aggressività militare altrimenti ridondante (da cui i ripensamenti di Donald Trump), un’Europa unita e sempre più indipendente, profila un potenziale ma formidabile concorrente economico, in grado di inserirsi a pari titolo in un consesso multipolare e, ancor peggio, nemmeno liquidabile come minacciosa e ostile dittatura.

Da cui l’estrema e attuale rilevanza della questione dell’euro, non a caso evocata dalla Signora, nel momento in cui i Brics, che ambiscono a prefigurare un mondo multipolare, si pongono come primo obiettivo quello di indebolire il dollaro, utilizzando qualsiasi altra moneta, compreso lo stesso euro. Mi sia consentito in proposito di evocare un ricordo inedito che risale alla ratifica del trattato di Maastricht, 17 settembre 1992, che per l’appunto conteneva, come pezzo forte, l’istituzione della moneta comune europea (una delle tre classiche prerogative di sovranità, oltre al territorio e al Governo, tuttora mancante). Il voto al nostro Senato rischiava di risultare decisivo perché, se fosse mancato, avrebbe influito negativamente sul referendum popolare francese, fissato per la domenica successiva. Rinvio ad altra occasione i gustosi dettagli del caso. All’ultimo momento il voto rischiava di venir meno a causa delle pressioni degli Stati Uniti sul Governo Amato. Soltanto il PDS, pur dall’opposizione, impose di votare il consenso alla ratifica, proprio per il suo significato politico. Altri tempi! Alleanza Nazionale si oppose con ostruzionismo alla ratifica di una “Europa dei banchieri”, pur dichiarandosi favorevole a una Europa politicamente unita. Rifondazione Comunista pure si oppose ma, messa a confronto con le pressioni statunitensi, garantì il numero legale che rischiava di venir meno.

Successivamente, il Governo Prodi consentì la partecipazione non economicamente scontata dell’Italia alla moneta comune, da cui le imprecazioni attuali dell’ormai americanizzata presidente del Consiglio.

da qui

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