La presidente del Consiglio, malgrado le apparenze, deve essere veramente mal ridotta se, con un classico caso di identificazione proiettiva, scaglia contro Romano Prodi, placido ragionatore emiliano, l’improbabile accusa d’isteria polemica. Il merito è rivelatore. L’ex presidente del Consiglio ha serenamente constatato che la signora in questione, da postfascista ruggente – ormai tale soltanto nella forma – si è trasformata in servile subalterna dell’establishment italiano e statunitense. Pur in forma pacata, certamente la più infamante delle accuse per una persona della sua storia: in parole mie, di essere di fatto diventata una badogliana, cioè tale da scaricare quella sovranità italiana mai del tutto riconquistata, per un ormai lontano senso di colpa. È da osservare che l’art. XI della Costituzione prevede rinunce di sovranità purché reciproche (come nel caso degli aderenti all’Unione Europea ma non, dico non, della NATO).
Non a caso,
e qui il passato diventa presente e futuro, tra le accuse rivolte a
Prodi, spicca quella di avere voluto l’adesione all’euro: principale
antidoto a quel ritorno a un’Europa ancora asservita alla spartizione di Yalta,
rilanciata dalla guerra d’Ucraina, subita da von der Leyen e votata da Meloni
(e, purtroppo, anche da Schlein). Da quando l’egemonia di Washington si è
trasformata in interventismo e intermittente dominio militare, è diventata
sempre più evidente la sua ostilità nei confronti di un’Europa unificata. Me lo
confessò un mio ex professore, Henry Kissinger, l’ultima volta che
c’incontrammo, nel lontano 1997. La ragione è semplice anche se
sistematicamente sottaciuta. Mentre la Cina e una Russia rivitalizzata dalla
guerra in Ucraina, costituiscono la credibile threat, la minaccia
credibile necessaria a giustificare una spesa, presenza e aggressività militare
altrimenti ridondante (da cui i ripensamenti di Donald Trump), un’Europa
unita e sempre più indipendente, profila un potenziale ma formidabile
concorrente economico, in grado di inserirsi a pari titolo in un consesso
multipolare e, ancor peggio, nemmeno liquidabile come minacciosa e ostile
dittatura.
Da cui
l’estrema e attuale rilevanza della questione dell’euro, non a caso evocata dalla Signora,
nel momento in cui i Brics, che ambiscono a prefigurare un mondo multipolare,
si pongono come primo obiettivo quello di indebolire il dollaro, utilizzando
qualsiasi altra moneta, compreso lo stesso euro. Mi sia
consentito in proposito di evocare un ricordo inedito che risale alla ratifica
del trattato di Maastricht, 17 settembre 1992, che per l’appunto conteneva,
come pezzo forte, l’istituzione della moneta comune europea (una delle tre
classiche prerogative di sovranità, oltre al territorio e al Governo, tuttora
mancante). Il voto al nostro Senato rischiava di risultare decisivo perché, se
fosse mancato, avrebbe influito negativamente sul referendum popolare francese,
fissato per la domenica successiva. Rinvio ad altra occasione i gustosi
dettagli del caso. All’ultimo momento il voto rischiava di venir meno a causa
delle pressioni degli Stati Uniti sul Governo Amato. Soltanto il PDS, pur
dall’opposizione, impose di votare il consenso alla ratifica, proprio per il
suo significato politico. Altri tempi! Alleanza Nazionale si oppose con
ostruzionismo alla ratifica di una “Europa dei banchieri”, pur dichiarandosi
favorevole a una Europa politicamente unita. Rifondazione Comunista pure si
oppose ma, messa a confronto con le pressioni statunitensi, garantì il numero
legale che rischiava di venir meno.
Successivamente,
il Governo Prodi consentì la partecipazione non economicamente scontata
dell’Italia alla moneta comune, da cui le imprecazioni attuali dell’ormai
americanizzata presidente del Consiglio.
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