Dal sito
di AISA (Associazione
italiana per la promozionde della scienza aperta) volentieri riprendiamo questo
comunicato sulla decisione dell’università di Utrecht di uscire
dal ranking del Times Higher Education.
Quest’anno
l’università di Utrecht non offrirà i suoi dati al Times
Higher Education (THE) World University Ranking del 2024, escludendosi così da
una classifica nella quale occupava il sessantaseiesimo posto. Oltre oceano, le
facoltà giuridiche di università famose come Harvard, Stanford, Columbia e Yale
hanno fatto qualcosa di simile con U.S. News & World Report,
e facoltà di medicina altrettanto note le hanno imitate.
I motivi della decisione dell’università olandese sono due:
·
le
classifiche spingono le università alla competizione, in contrasto con la
scienza (aperta) praticata a Utrecht, che richiede trasparenza e cooperazione;
·
essendo
basate su criteri scelti dalle aziende che le smerciano, le classifiche
comportano una radicale riduzione di autonomia per le università che le prendono
sul serio.
La misurazione è una riduzione di complessità che produce perdita di
informazione e dipende da scelte arbitrarie – tanto più quando,
spacciata come rappresentazione di attività variegate e multidimensionali come
quelle universitarie, è esito di una combinazione di criteri molteplici,
selezionati arbitrariamente, arbitrariamente associati a indicatori
numerici, e a loro volta arbitrariamente aggregati e pesati.
Questa
conoscenza era già accessibile a chi si fosse seriamente o semiseriamente informato e, fuori d’Italia, anche ai lettori della stampa non
specializzata. Nel 2016 Cathy O’Neal, nel terzo capitolo di un libro molto letto, aveva spiegato come la classifica di
U.S. News & World Report, per apparire credibile, era stata disegnata così
da mettere ai vertici università famose (e costose) come Harvard, Stanford,
Princeton e Yale – cosa possibile solo senza inserire l’ammontare delle tasse
richieste agli studenti fra i parametri. L’adozione della classifica come
arma di valutazione di massa indusse le università americane a competere senza
badare a spese, potendole scaricare sulle rette degli studenti, il cui costo non influiva sul loro
posizionamento.
Perché
ballare alla musica altrui, secondo coreografie disegnate da altri, e con una
giuria il cui scopo è vendere classifiche – e posizionamenti – che “dal punto di
vista delle scienze sociali sono spazzatura”?
Chi governa
un’università italiana di solito risponde: “non è vero, ma ci credono“. Si teme che uscire dai
cosiddetti ranking – in qualche ateneo c’è perfino un
prorettore o un delegato ad hoc – sottragga all”ateneo
studenti, docenti e finanziamenti internazionali deliberati in base a essi. Ma
ora anche chi fosse sordo all’argomento che un’università la quale faccia finta
d credere a esose fattucchiere senza più cercare di avere l’autorevolezza
scientifica per mostrarne l’impostura dovrebbe rendersi conto, come si comincia
a capire in Olanda e negli USA, che il “ci credono” dipende anche dalla sua
sottomissione superstiziosa – pragmatica, forse, nel brevissimo termine,
ma sostanzialmente autolesionista. Fra gli stessi impegni di COARA – nonostante
il blocco pluriennale imposto dall’ANVUR e dal MUR – ce n’è
uno che potrebbe essere applicato subito: il quarto, che richiede di “evitare l’uso delle classifiche (ranking)
degli organismi di ricerca nella valutazione della ricerca”.
Ma come
faranno gli studenti a scegliere presso quale università frequentare un corso
di laurea o di dottorato, e i ricercatori non locali a decidere con che
collaborare? A Utrecht rispondono così: guardando i contenuti e l’organizzazione dei corsi, e
considerando la qualità della ricerca – cosa, questa, possibile, contro
l’alchimia delle valutazioni aliene, commerciali o statali che siano, solo in
virtù dell’adozione delle pratiche della scienza e della didattica aperta,
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