Stando ai dati Ocse, con l’odierna
legislazione chi è entrato da poco nel mercato del lavoro andrà in pensione a
71 anni di età. L’estensione dell’anzianità lavorativa necessaria per il
pensionamento, inoltre, con le regole attuali diventa anche una necessità per
poter maturare un assegno previdenziale che non sia da fame.
Da alcune
ricerche pubblicate a metà gennaio (dal centro studi di Confindustria alla
Confcommercio, dal rapporto Istat a quello Inapp e altre ancora, che troverete
nelle note finali) si evince il grave ritardo dell’economia italiana rispetto
ad altri paesi a capitalismo avanzato. Un ritardo che ha prodotto la riduzione
del potere di acquisto della forza lavoro da 40 anni ad oggi e il progressivo
smantellamento del sistema di welfare, ormai inadeguato ai reali bisogni.
Basti pensare che
una delle proposte più gettonate, fra quelle al momento in circolazione, parla esplicitamente
di ridurre le risorse destinate al sistema previdenziale pubblico per
rafforzare la previdenza integrativa, non al fine di rafforzare la tutela degli
ex-lavoratori anziani ma di sgravare il bilancio dell’INPS. La previdenza integrativa, del resto,
in definitiva ai lavoratori costa di più, visto che per avere in cambio una
pensioncina da aggiungere al magro assegno previdenziale pubblico debbono
rinunciare a quote dei loro salari e, un domani, anche al Tfr.
In Italia il reddito familiare netto
– che è la somma delle entrate del nucleo familiare al netto delle imposte, ossia
il denaro a disposizione – è al di sotto della media Ocse di quasi 3000 €.
Solamente il
58% della popolazione in età lavorativa, cioè quella tra i 15 e i 64 anni, ha
un lavoro retribuito, e anche in questo siamo al di sotto della media
OCSE di almeno 8 punti percentuali.
La disoccupazione raggiunge quasi il 5%,
rispetto a una media Ocse che oscilla attorno all’1,3%. Il reddito da
lavoro medio annuo, invece, è pari a 37.769 USD, quando la media OCSE arriva
a 49.165 USD.
Sempre nel
nostro Paese, in caso di disoccupazione i lavoratori
vanno incontro a una sensibile perdita di salario, maggiore rispetto a quanto
accade in altri paesi Ue: se ad esempio in Spagna hanno accresciuto la
platea dei beneficiari della indennità di disoccupazione e l’importo
dell’assegno percepito, in Italia hanno distrutto il Reddito di Cittadinanza, sostituendolo
con nuove misure che determinano una forte riduzione sia dell’importo del
sussidio che della platea dei beneficiari[1].
Se vogliamo
rispondere a una domanda reiterata nel tempo, ossia fornire spiegazioni sulla consueta
e persistente arrendevolezza dei sindacati maggiormente rappresentativi, non
sbaglieremmo a dire che la mancata difesa di sanità e previdenza pubblica è
spiegabile non solo per via della natura subalterna e concertativa di queste
sigle, ma anche per la presenza di interessi nella co-gestione di sanità e previdenza
integrativa.
Per quanto
concerne il tasso di occupazione, infine, una considerazione preliminare: con
“occupati” ci si intende riferire a «le persone che, durante la
settimana di riferimento, hanno lavorato per almeno un’ora a fini di
retribuzione o di profitto, compresi i coadiuvanti familiari non retribuiti».
Quando si dice che aumenta l’occupazione, perciò, si prende in esame un dato
veramente discutibile: avere un lavoro, oggi, non significa poter emergere
dalla condizione di precarietà e di miseria, in assenza di un reddito stabile
che vada ben oltre la soglia di povertà relativa. Il Governo, poi, non spiega
che l’occupazione è cresciuta maggiormente nei settori caratterizzati da
“lavoro povero”, quindi dove minore è il valore aggiunto (ad esempio alcuni
ambiti del terziario e della logistica, i servizi di cura, le pulizie).
Resta il fatto che
la produttività dell’industria italiana nel 2022 è calata dello 0,7%,
nonostante un leggero aumento delle ore lavorate dopo anni di flessione. Di
conseguenza la crisi del nostro paese potrebbe essere anche rappresentata dal
fatto che peggiorano le condizioni retributive e di vita della popolazione, pur
lavorando, questa, di più.
La manovra di Bilancio, in discussione
in Parlamento, vede rinnovati il taglio al cuneo fiscale (del quale
beneficeranno soprattutto le imprese) e la riduzione ai minimi termini delle
tasse sui premi di produttività dentro la contrattazione di secondo livello.
Queste erano richieste storiche delle associazioni datoriali per accrescere i
salari solo con il ricorso ai finanziamenti statali e per indebolire il
contratto nazionale conquistando, a livello aziendale, incrementi della
produttività a costo zero. Confindustria non è pienamente soddisfatta dei
risultati ottenuti e chiede al Governo di accordare maggiori aiuti alle imprese
e alla crescita, giudicando la ripresa salariale del tutto insufficiente per
incrementare la domanda e favorire la ripresa dell’economia.
Quanto
poi al mondo della scuola, è
evidente che si stia costruendo una pubblica istruzione sempre più vicina alle
finalità capitalistiche, erogando un sapere funzionale al mondo delle imprese,
organizzato (e misurato!) sulla base di competenze predefinite e inadeguate,
privilegiando lo sviluppo di un pensiero convergente e logico-deduttivo, a
scapito dell’intuizione, della percezione globale degli argomenti didattici e
della realtà in cui viviamo, della divergenza e del pensiero critico, della
trasversalità disciplinare e quindi, infine, anche di quello spessore
umanistico che per decenni è stato il vanto di un’Italia che si consolava così
per le proprie insufficienze sul piano dei diritti economici e sociali.
Fra
l’altro, il 63% degli adulti di età compresa tra i 25 e i 64 anni ha completato
gli studi secondari superiori, percentuale inferiore alla media OCSE, del
79%. Il numero dei diplomati e laureati in Italia continua ad essere assai basso,
se confrontato con resto d’Europa. L’abbandono scolastico nelle scuole
superiori e l’abbandono dell’Università prima del completamento del corso di
laurea sono, in fondo, anche e soprattutto il risultato dei disinvestimenti
degli ultimi anni, del caro-vita e della impossibilità di mantenere i figli
all’Università (soprattutto se fuori sede), nonché dell’abbassamento della
qualità dell’istruzione e della crescente delegittimazione della scuola
pubblica e degli insegnanti. Siamo certi che le continue controriforme dei
programmi e dei percorsi di studio universitari (ad esempio il 3+2) o il numero
chiuso per l’accesso ad innumerevoli facoltà siano stati utili a far uscire
studenti più preparati? E al contempo il numero chiuso causa la carenza di
laureati in determinate discipline e da qui il ricorso, ad esempio in sanità, a
interinali e cooperative di servizi.
Ora
che abbiamo velocemente tracciato un quadro d’insieme, ecco alcune, parziali, considerazioni conclusive:
·
vista la
situazione dell’istruzione pubblica e l’approccio aziendalista che vi
alberga, se oggi siamo davanti ad una sorta di processo culturale involutivo – spesso
esemplificato col fenomeno del cosiddetto “analfabetismo di ritorno” – forse
non è soltanto per via di un generale decadimento culturale della società,
spesso dato per scontato. Eppure ci si lamenta di programmi scolastici e
universitari che intercettano poco le richieste di competenze espresse dalle
imprese (o, meglio, le competenze di cui le imprese sperano di aver bisogno in
futuro, qualora si riescano a fare quei determinati investimenti
infrastrutturali e tecnico-produttivi loro necessari per diventare più
competitive) e si punta sull’alternanza scuola-lavoro e sull’apprendistato, per
avere una forza lavoro da impiegare subito dopo il diploma a costi irrisori;
·
negli ultimi 40 anni la quota di ricchezza indirizzata ai salari è stata in continua
diminuzione, mentre al contempo si è allargata la forbice salariale e sociale.
Le famiglie italiane risultano sempre più indebitate e con un potere di
acquisto in continua erosione, i salari italiani sono i soli nei paesi Ocse ad
avere subito un deciso arretramento da 40 anni ad oggi. Da questo anno le
multinazionali hanno una tassazione irrisoria (in genere del 15%) sui ricavi. La
riflessione, dunque, è che le crescenti disuguaglianze sociali ed economiche siano
il frutto di 40 anni di politiche neoliberiste, da cui alcune economie – come
quella italiana – sono uscite a pezzi (anche per avere puntato tutto sulle
delocalizzazioni, sul contenimento del costo del lavoro, sulle politiche
fiscali a favore delle imprese), non essendo state in grado di modernizzare i
propri processi produttivi. Nonostante ciò, lo Stato continua a essere ad uso e
consumo delle imprese, e i contraccolpi sono stati negativi sui salari come sullo
stato sociale (e, nello specifico, sui percorsi di studio).
·
minor
salario per ora lavorata e flessibilità contrattuale sono caratteristiche
del sistema del lavoro italiano, così come lo è una certa tendenza
all’efficientamento produttivo, come in ogni economia avanzata. Di conseguenza
lo è anche la riduzione degli orari e delle ore lavorate (soprattutto a causa
del diffondersi di contratti precari a tempo parziale), assieme all’aumento
della produttività e dei ritmi di lavoro. Per questioni di tempo non possiamo affrontare
la riduzione della settimana lavorativa (ad esempio il contratto di secondo
livello in Luxottica e il CCNL bancari), ma basti ricordare che una riduzione
oraria viene compensata da un grande incremento di produttività e flessibilità
e, con ciò, dallo sviluppo di un’organizzazione aziendale del lavoro più
efficiente. Non vorremmo scoprire un giorno come la storica rivendicazione
operaia della riduzione oraria a parità di salario si sia trasformata in una
sorta di riorganizzazione dei tempi di lavoro, accordando la settimana corta
con riduzione dei costi e incremento della produttività
·
sarebbe poi opportuno ricordare come il ricorso allo straordinario, per molti\e,
sia divenuto un vero e proprio obbligo: sia per via di imposizioni aziendali, sia
per norme contrattuali che permettono ai datori di esigere un certo numero di
ore supplementari nell’arco dell’anno. Lo straordinario è uno strumento che
serve fondamentalmente a non assumere nuovi lavoratori e fa leva sul fatto che
per quelli già impiegati possa essere una sorta di strumento obbligato per
accrescere i propri redditi, altrimenti irrimediabilmente troppo bassi.
Bibliografia
·
il rapporto Inapp
https://www.inapp.gov.it/pubblicazioni/rapporto/edizioni-pubblicate/rapporto-inapp-2023
·
https://formatresearch.com/wp-content/uploads/2023/12/Testo-int.-PAG2023-ITA-ING.pdf
·
https://www.istat.it/it/archivio/292096
[1] Emiliano
Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera: Menzogne e verità sulla
cancellazione del Reddito di Cittadinanza, https://www.infoaut.org/approfondimenti/menzogne-e-verita-sulla-cancellazione-del-reddito-di-cittadinanza
.
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