giovedì 5 settembre 2019

Brexit, the never ending - Paola Barbuzzi



È ancora vivo il ricordo di quella mattina di venerdì 24 giugno 2016, quando David Dimbley annunciò all’intera nazione che il Regno Unito avrebbe lasciato l’UE dopo oltre 40 anni di appartenenza al Club europeo. Alla domanda “vuoi entrare o uscire dall’Unione Europea?” la maggioranza dei cittadini britannici, specialmente in Inghilterra, ha votato per andarsene. Per molti anni gli inglesi non sono stati chiamati a prendere una decisione tanto importante, che avrebbe “radicalmente” cambiato le future relazioni con l’UE e il loro destino come paese indipendente. L’esito del referendum ha esacerbato la divisione che il paese, le famiglie, gli amici, gli europei residenti nel Regno Unito hanno vissuto in anticipo durante la campagna e in particolare le sue conseguenze. Nessuno in quella fase poteva predire che Brexit sarebbe diventata uno strumento di autolesionismo per il nuovo governo guidato da Theresa May, e che avrebbe destabilizzato l’economia, minacciato posti di lavoro e costretto molte società, che si erano stabilite nel Regno Unito a commerciare principalmente con il mercato europeo, a riconsiderare la propria posizione e trasferire altrove l’attività. Gli effetti collaterali del post Brexit sono ancora sconosciuti a tutti, tuttavia una cosa certa è che l’economia del Regno Unito sarà soggetta a cambiamenti e riconfigurazioni molto profonde.
Da un punto di vista politico, il partito laburista non è stato in grado di realizzare una campagna convincente per rimanere nell’UE e mostrare una visione chiara. Nonostante il loro Manifesto, la maggioranza dei deputati laburisti, che volevano onorare il risultato del referendum ed essere leali a Corbyn, contribuirono ad aumentare la confusione, la poca chiarezza nella soluzione di Brexit e le divisioni all’interno del partito. Allo stesso modo, i Tories hanno innescato all’interno del proprio partito divisioni imprevedibili sui diversi punti di vista e modi di affrontare Brexit. La lotta interna ha indubbiamente dato l’impressione che May abbia usato prevalentemente il suo mandato di Primo Ministro per tenere insieme i parlamentari conservatori invece di mettere al primo posto l’interesse nazionale. Tutto ciò ha portato all’impasse, alla mancanza di soluzioni alternative, all’ansia del fronte imprenditoriale, alla sfiducia degli inglesi nell’attuale establishment politico, ma anche all’incertezza per milioni di europei che hanno scelto il Regno Unito come loro casa. Nessuno di noi europei poteva capire come tutta questa “volontà degli inglesi di lasciare l’UE” avrebbe cambiato le nostre vite nel Regno Unito e anche la vita del popolo britannico.
All’interno dei discorsi su Brexit, il governo e i suoi rappresentanti hanno spesso usato la libertà di movimento per conquistare il consenso dei giovani e inviare rassicurazioni a tutto il paese che il risultato del referendum sarebbe stato rispettato. Allo stesso tempo, la loro sottile discriminazione nei confronti degli immigrati dall’Europa ha fatto sentire a disagio e sgraditi molti europei, specialmente quando è stato annunciato il pagamento di 65 sterline che questi ultimi avrebbero dovuto versare per continuare a vivere in UK dopo il 2020. Così come è stato sconsiderato lo sfortunato commento del primo ministro insinuante che gli europei non avrebbero più “saltato la fila” e che sarebbero stati trattati nello stesso modo degli altri cittadini provenienti dal resto del mondo, senza speciali benefici. Per questi motivi, quindi, il primo ministro fu accusato di alimentare il clima di odio.
Sicuramente con Brexit il razzismo riemerge e distrugge la correttezza politica. Lo straniero, visto come un estraneo, un intruso, un invasore, diventa ancora una volta un facile bersaglio di allarmismo e falsità. Durante la campagna referendaria l’UKIP ha abilmente raccolto la questione migratoria europea per attirare il consenso delle persone e innescare una feroce propaganda contro l’UE e la libertà di movimento delle persone. Cosa più importante, l’UKIP è stato in grado di intercettare il malcontento di molti cittadini britannici, principalmente inglesi, e dare voce alla loro frustrazione. Alcuni si sono anche sentiti autorizzati ad essere aggressivi o violenti nei confronti degli immigrati, in particolare contro polacchi e altri europei dell’est, che sono stati percepiti come la causa principale della mancanza di posti di lavoro, della riduzione dei salari, della crisi abitativa e così via. Come è stato osservato, questo è successo perché la libertà di movimento delle persone non ha aumentato il benessere della popolazione in Gran Bretagna. Pertanto all’interno di questo contesto il valore della libertà di movimento, che ha sviluppato con successo nella mia generazione un sentimento di identità europea grazie al diritto per ogni europeo di muoversi liberamente e stabilirsi ovunque desiderino all’interno dell’UE, è inesorabilmente screditato e diffamato. Il grande sentimento di fare parte del patrimonio europeo è spesso ripudiato dai sostenitori di Brexit e da molti inglesi, specialmente quelli che vivono lontano dalle principali città, con discorsi retorici di ricostruzione della Gran Bretagna.
Oggi il Regno Unito è profondamente diviso tra coloro che pensano che il Regno Unito tornerà glorioso e potente come paese indipendente e coloro che si sentono fortemente legati al patrimonio europeo. Quest’ultimo è uno dei tanti messaggi diffusi ad alta voce durante la marcia di Londra dello scorso sabato. Ovvero che siamo tutti europei, portanti con orgoglio quella stessa cultura che converge verso interessi, opinioni, tendenze e anche influenze storiche, politiche e sociali. Questo senso di “comunanza” con l’eredità europea, che è tangibile ovunque nei paesi dell’Unione, ha permesso di integrarmi felicemente e senza intoppi nella cultura britannica molti anni fa, precisamente nella comunità londinese e, cosa più importante, mi ha fatto sentire un inglese, uguale a “loro”.
Tuttavia il nobile sentimento dell’attaccamento culturale ha poco spazio e valore in una politica caotica. Hannah Arendt si era opposta all’idea che la politica fosse ristretta al potere delle relazioni, degli interessi in competizione e delle battaglie interne. Sfortunatamente questa è la realtà attuale del governo britannico e dei Tories. Da molto tempo ascoltiamo parlamentari che sostengono i loro ragionamenti senza fare un passo avanti e avviare una soluzione pratica perché Brexit non è solo un evento ipotetico, ma anche senza alcuna definizione. Ogni volta che si pone il dibattito su Brexit, l’unica certezza è la vaghezza argomentativa in cui le opinioni si moltiplicano. Nel frattempo le nostre vite in questa situazione fittizia e in questa storia infinita devono continuare e contemporaneamente dobbiamo essere pronti a qualsiasi decisione finale.

Vox Zerocinquantuno n.32, Aprile 2019

Paola Barbuzzi è docente di Letteratura inglese a Londra, lavora nel settore dei Diritti Umani.
Traduzione in italiano di Davide Scibetta.


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