È ancora vivo il ricordo di quella
mattina di venerdì 24 giugno 2016, quando David Dimbley annunciò all’intera
nazione che il Regno Unito avrebbe lasciato l’UE dopo oltre 40 anni di
appartenenza al Club europeo. Alla domanda “vuoi entrare o uscire dall’Unione
Europea?” la maggioranza dei cittadini britannici, specialmente in Inghilterra,
ha votato per andarsene. Per molti anni gli inglesi non sono stati chiamati a
prendere una decisione tanto importante, che avrebbe “radicalmente” cambiato le
future relazioni con l’UE e il loro destino come paese indipendente. L’esito
del referendum ha esacerbato la divisione che il paese, le famiglie, gli amici,
gli europei residenti nel Regno Unito hanno vissuto in anticipo durante la
campagna e in particolare le sue conseguenze. Nessuno in quella fase poteva
predire che Brexit sarebbe diventata uno strumento di autolesionismo per il
nuovo governo guidato da Theresa May, e che avrebbe destabilizzato l’economia,
minacciato posti di lavoro e costretto molte società, che si erano stabilite
nel Regno Unito a commerciare principalmente con il mercato europeo, a
riconsiderare la propria posizione e trasferire altrove l’attività. Gli effetti
collaterali del post Brexit sono ancora sconosciuti a tutti, tuttavia una cosa
certa è che l’economia del Regno Unito sarà soggetta a cambiamenti e
riconfigurazioni molto profonde.
Da un punto di vista politico, il
partito laburista non è stato in grado di realizzare una campagna convincente
per rimanere nell’UE e mostrare una visione chiara. Nonostante il loro
Manifesto, la maggioranza dei deputati laburisti, che volevano onorare il
risultato del referendum ed essere leali a Corbyn, contribuirono ad aumentare
la confusione, la poca chiarezza nella soluzione di Brexit e le divisioni
all’interno del partito. Allo stesso modo, i Tories hanno innescato all’interno
del proprio partito divisioni imprevedibili sui diversi punti di vista e modi
di affrontare Brexit. La lotta interna ha indubbiamente dato l’impressione che
May abbia usato prevalentemente il suo mandato di Primo Ministro per tenere
insieme i parlamentari conservatori invece di mettere al primo posto
l’interesse nazionale. Tutto ciò ha portato all’impasse, alla mancanza di
soluzioni alternative, all’ansia del fronte imprenditoriale, alla sfiducia
degli inglesi nell’attuale establishment politico, ma anche all’incertezza per
milioni di europei che hanno scelto il Regno Unito come loro casa. Nessuno di
noi europei poteva capire come tutta questa “volontà degli inglesi di lasciare
l’UE” avrebbe cambiato le nostre vite nel Regno Unito e anche la vita del
popolo britannico.
All’interno dei discorsi su Brexit, il
governo e i suoi rappresentanti hanno spesso usato la libertà di movimento per
conquistare il consenso dei giovani e inviare rassicurazioni a tutto il paese
che il risultato del referendum sarebbe stato rispettato. Allo stesso tempo, la
loro sottile discriminazione nei confronti degli immigrati dall’Europa ha fatto
sentire a disagio e sgraditi molti europei, specialmente quando è stato annunciato
il pagamento di 65 sterline che questi ultimi avrebbero dovuto versare per
continuare a vivere in UK dopo il 2020. Così come è stato sconsiderato lo
sfortunato commento del primo ministro insinuante che gli europei non avrebbero
più “saltato la fila” e che sarebbero stati trattati nello stesso modo degli
altri cittadini provenienti dal resto del mondo, senza speciali benefici. Per
questi motivi, quindi, il primo ministro fu accusato di alimentare il clima di
odio.
Sicuramente con Brexit il razzismo riemerge
e distrugge la correttezza politica. Lo straniero, visto come un estraneo, un
intruso, un invasore, diventa ancora una volta un facile bersaglio di
allarmismo e falsità. Durante la campagna referendaria l’UKIP ha abilmente
raccolto la questione migratoria europea per attirare il consenso delle persone
e innescare una feroce propaganda contro l’UE e la libertà di movimento delle
persone. Cosa più importante, l’UKIP è stato in grado di intercettare il
malcontento di molti cittadini britannici, principalmente inglesi, e dare voce
alla loro frustrazione. Alcuni si sono anche sentiti autorizzati ad essere
aggressivi o violenti nei confronti degli immigrati, in particolare contro
polacchi e altri europei dell’est, che sono stati percepiti come la causa principale
della mancanza di posti di lavoro, della riduzione dei salari, della crisi
abitativa e così via. Come è stato osservato, questo è successo perché la
libertà di movimento delle persone non ha aumentato il benessere della
popolazione in Gran Bretagna. Pertanto all’interno di questo contesto il valore
della libertà di movimento, che ha sviluppato con successo nella mia
generazione un sentimento di identità europea grazie al diritto per ogni
europeo di muoversi liberamente e stabilirsi ovunque desiderino all’interno
dell’UE, è inesorabilmente screditato e diffamato. Il grande sentimento di fare
parte del patrimonio europeo è spesso ripudiato dai sostenitori di Brexit e da
molti inglesi, specialmente quelli che vivono lontano dalle principali città,
con discorsi retorici di ricostruzione della Gran Bretagna.
Oggi il Regno Unito è profondamente
diviso tra coloro che pensano che il Regno Unito tornerà glorioso e potente
come paese indipendente e coloro che si sentono fortemente legati al patrimonio
europeo. Quest’ultimo è uno dei tanti messaggi diffusi ad alta voce durante la
marcia di Londra dello scorso sabato. Ovvero che siamo tutti europei, portanti
con orgoglio quella stessa cultura che converge verso interessi, opinioni,
tendenze e anche influenze storiche, politiche e sociali. Questo senso di
“comunanza” con l’eredità europea, che è tangibile ovunque nei paesi
dell’Unione, ha permesso di integrarmi felicemente e senza intoppi nella
cultura britannica molti anni fa, precisamente nella comunità londinese e, cosa
più importante, mi ha fatto sentire un inglese, uguale a “loro”.
Tuttavia il nobile sentimento
dell’attaccamento culturale ha poco spazio e valore in una politica caotica.
Hannah Arendt si era opposta all’idea che la politica fosse ristretta al potere
delle relazioni, degli interessi in competizione e delle battaglie interne.
Sfortunatamente questa è la realtà attuale del governo britannico e dei Tories.
Da molto tempo ascoltiamo parlamentari che sostengono i loro ragionamenti senza
fare un passo avanti e avviare una soluzione pratica perché Brexit non è solo
un evento ipotetico, ma anche senza alcuna definizione. Ogni volta che si pone
il dibattito su Brexit, l’unica certezza è la vaghezza argomentativa in cui le
opinioni si moltiplicano. Nel frattempo le nostre vite in questa situazione
fittizia e in questa storia infinita devono continuare e contemporaneamente
dobbiamo essere pronti a qualsiasi decisione finale.
Vox Zerocinquantuno n.32, Aprile 2019
Paola Barbuzzi è docente di Letteratura inglese a Londra, lavora nel
settore dei Diritti Umani.
Traduzione in italiano di Davide
Scibetta.
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