Il mese di
maggio comincia torpidamente al rientro dalle vacanze pasquali. I ragazzi hanno
resettato la scuola dalla loro vita e tornano con una ilarità spensierata e del
tutto immotivata. Davanti alla cattedra ci sono struzzi con i loro culetti per
noi prof del tutto nitidi: sopra ci sono stampate le medie aritmetiche che il
registro elettronico ci riporta del tutto prive di affettività o aggiustamenti:
4.25, 5.85, 7.65. Dalla dirigente scolastica cominciano ad arrivare a raffica
le circolari più sgradite: scrutinio finale in data ics, si rammentano i
criteri di non ammissibilità alla classe successiva (ovvero, «guai a voi se
bocciate!» ma se proprio dovete ci vorranno o quattro 5 o due 4 un 5 eccetera,
o oltre 250 ore di assenza), adempimenti di fine anno (una relazione per ogni
tua materia, una relazione per la classe, le proposte di voto eccetera).
Ecco che
quindi, con morbidi colpetti sulle natiche degli struzzi dobbiamo invitare a
sfilare dalla sabbia le teste rivuotate, e spiegare che cinque, sette di loro
sono a metà maggio ancora insufficienti in Storia, o Geografia, o Matematica. A
quel punto gli occhi si spalancano, e la maggior parte di loro scopre che pur
non avendo studiato che alcune ore nel corso dell’anno, la protervia dei
professori li costringe a “rimediare” con un paio d’ore di studio sacrificale a
fine corsa. La pioggia battente di credenze allaga la classe: «Ma come, sono
venuto di orale, ho preso 6, come faccio a essere ancora insufficiente?». La
media aritmetica del registro elettronico è ripugnante, vessatoria, inaudita.
Ma non tutti insistono nel loro sonno della ragione.
Giacomo che
era stato sospeso perché aveva fatto uno sgambetto alla prof di Matematica,
proprio lui, quello che aveva mostrato il dito medio alla professoressa di
Tecnologia, ha un colpo di reni, e si presenta volontario di Geografia. Parla,
parla, parla e io lo sguardo sbacalito: è proprio lui? Il monello cui ho urlato
mediamente 8-9 volte al mese di sedersi, di tacere, di non urlare, di non
questo e non quello? Lui parla facondo di densità demografica, di migrazioni e
di mutamento climatico. Voglio fregarlo, e gli chiedo di connettere una causa a
un effetto, e lui si ferma, ragiona, e risponde sicuro e brillante. Holy shit!
Ma è lui? È lui, con un meraviglioso risveglio di responsabilità, dispiegamento
a 360° delle sue sinapsi, lui giunto quasi al baratro si dimostra di essere
capace di apprendere, dialogare e connettere saperi.
Ammar, che
ha passato l’anno a gironzolare per la classe, a ridere di tutto, a farsi
mortificare dalla lingua tagliente delle compagne, a farsi burlare dai
compagni, a dirmi che aveva dimenticato il diario, a dormire, viene commissariato
da madre e mediatrice culturale, che cominciano a flagellarmi di mail, e dal
drammatico litigio a un colloquio chiudiamo in magnifica triangolazione
collaborativa: Ammar si presenta di storia e discetta su Guerra Fredda,
equilibrio del terrore e crimini di Stalin. Non posso crederci, e gli appioppo
un 9 come a Giacomo.
Cosa vuol
dire, questa pioggia di miracoli cognitivi? Sarà la strizza del redde rationem
della pagella, o sarà anche il germogliare meraviglioso e sorprendente di un
anno di urlate, fatiche continue nel risvegliare il loro disinteresse frontale
e compatto? Nella ricerca in aula informatica sui Paesi dell’Africa lancio la
sfida: sono stufo di vedere bandiere e copia&incolla da guide turistiche!
Non me ne frega nulla di avere slide sulle piramidi egizie o sui datteri
tunisini! Tiratemi fuori un clip di una canzone di un ragazzo egiziano o
tunisino di oggi, e trovatemi una ricetta che cucinerete per la festa di fine
anno: inviteremo tutti i vostri prof e ce la mangeremo all’ombra del noce del
Caucaso in giardino, infischiandocene delle severe norme che vietano l’ingresso
di cibo a scuola, a vantaggio di merendine industriali o pallori di mensa.
Prof! Dove la trovo la manioca a Torino? Cambia ricetta! Le coppie ai monitor
sono attivissime e l’aula informatica profuma di rapper tunisini e pop
egiziano.
Così, nel
mese di maggio, l’angoscia delle scadenze burocratiche sfuma per lasciare il
posto a qualche ora di rilassanti eccezioni; addirittura di intesa, di
simpatia. Umberto Saba è passato: l’ultima verifica di Italiano l’ho annunciata
su questo poeta che ritengo così contemporaneo perché della poesia ha mantenuto
un aspetto fondamentale: l’umiltà di raccontarsi, la sincerità del dire,
coniugata all’arte dello scrivere, impregnata di secoli di tradizione
letteraria. Widad mi chiede di tornare sulla capra dal viso semita; capiamo
perfettamente che il suo belato è il querelarci universale del nostro dolore,
accettato con un sorriso condiviso. La traccia è sia letteraria sia
argomentativa, perché come testo consegno Mio padre è stato per me
“l’assassino” e – a sorpresa – Soldi di Mahmood pochi
giorni dopo la sua eccellente performance all’Eurovision 2019 a Tel Aviv. Sono
due ventenni con un padre abbandonico: a inizio Novecento Saba perdona il
padre, la sua leggerezza, e serenamente legge la diversità tra i due genitori;
Mahmood condanna un padre meschino, che torna dal figlio per spillargli soldi
ora che ha avuto successo.
Nel
tempo della Famiglia in cui Saba si era nascosto per dissimulare il suo
tormento omosessuale, Saba tollera e accetta; nel tempo in cui la famiglia ha
la effe ormai minuscola, in cui siamo quasi tutti figli di separati, o non più
innamorati, Mahmood è pieno di rabbia perché il padre che l’ha messo al mondo
non sa amare nessuno. Tutti hanno lavorato i due testi e commentato quei due
mondi così diversi di poesia da leggere e poesia da cantare. E il lavorio
noioso, costante, estenuante sulla grammatica ha portato a una diminuzione di
quegli errori ortografici che – spiego ancora e ancora – sporcano la qualità
dei loro ragionamenti. Una di loro ha il padre in galera; l’altra non ha mai
visto il padre, un altro non lo vede quasi mai, è sempre in giro, due e tre
dicono che i loro genitori sono meravigliosi e presenti.
È così, a maggio
loro maturano mentre noi sfioriamo, stanchi di un anno di sforzi, ma siamo
tutti un frutteto. Stamattina, in un momento in cui stava partendo di nuovo la
loro agitazione, stavo loro leggendo un’altra pagina del Diario di
scuola di Pennac: parlava del dovere di provare ancora noia, fermare
il fare e il pensare. La possibilità di sentire che tutto rallenta, che tutto è
inutile. Sediamoci così, ho mostrato: le piante dei piedi a terra, le gambe
parallele, la schiena diritta e non appoggiata alla sedia, respiriamo;
appoggiate le mani sulle ginocchia, e non fate più niente. Ci siamo goduti
dieci minuti in cui sentivamo le altre classi ululare, gli uccelli cantare sul
noce del Caucaso. E quando è suonata la campanella non uno di loro era come
prima.
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