giovedì 19 settembre 2019

I «migranti economici» di cui l’Italia ha ancora bisogno - Giorgio Barba Navaretti, Tommaso Frattini


L’immigrato economico è oggi considerato un individuo residuale da scartare. Il nostro Paese sembra avere deciso di non averne bisogno. Il dibattito pubblico e politico ha fatto emergere una dicotomia tra immigrati considerati “meritevoli”, perché fuggono da guerre o persecuzioni, ai quali viene concessa protezione umanitaria e quelli considerati “non meritevoli” perché sbarcano in Europa “solo” per trovare un lavoro migliore di quello che avevano a casa, e la cui domanda di asilo viene rigettata.
Questi ultimi rappresentano oltre il 50% delle circa 173mila richieste d’asilo esaminate in prima istanza dalle Commissioni territoriali competenti tra il 2016 e il 2017. Se non otterranno protezione umanitaria neanche nei successivi gradi di giudizio, dovrebbero tornare al loro Paese. Sono circa 100mila persone il cui destino ufficiale è il rimpatrio, quello reale la clandestinità.
Invece di provare a rimpatriarli, notoriamente missione impossibile, il governo dovrebbe permettere una loro integrazione nella nostra economia, esattamente come farà per coloro a cui è riconosciuto lo status di rifugiato. Non solo, dovrebbe anche riaprire le quote di accesso per motivi di lavoro.
Questo per almeno tre ragioni. La prima è che un irregolare costa al Paese molto più di uno straniero regolarizzato: lavora in nero; ha una maggiore propensione a delinquere; non paga contributi, pur avendo accesso a servizi come istruzione e sanità. Solo attraverso la regolarizzazione un immigrato ha la possibilità di diventare, nelle parole di Salvini, «immigrazione positiva, pulita, che porta idee, energie e rispetto».
La seconda è che gli immigrati economici utilizzano oggi impropriamente il canale dell’asilo anche perché il canale dell’ingresso per lavoro è praticamente chiuso. Nel decreto flussi 2007 erano previsti 158mila nuovi permessi per lavoro subordinato e 80mila stagionali. Il decreto flussi 2017 prevedeva solo 17mila permessi stagionali e nessuno per lavoro subordinato. Questo crea grande confusione. Il Paese dovrebbe invece dotarsi di politiche esplicite per l’afflusso di immigrati per lavoro, che comunque continueranno sempre ad arrivare. Sarebbe molto più efficiente avere regole che permettano a che vorrebbe emigrare di selezionare ex ante il canale con cui provare ad arrivare in Europa, sulla base delle proprie motivazioni.
La terza è che l’Italia continua ad avere bisogno degli immigrati economici. La crisi dei rifugiati ha reso il dibattito politico miope. I 6 milioni di immigrati regolari che vivono nel nostro Paese, lavorano e pagano tasse e contributi sono in maggioranza immigrati economici. Anch’essi sono spesso arrivati in condizioni di irregolarità e sono poi stati negli anni regolarizzati attraverso sequenze di sanatorie.
Fa molto bene Tito Boeri a ricordare l’importanza della popolazione straniera per la nostra economia. Il tema demografico e dei contributi previdenziali è ovviamente cruciale in un Paese che invecchia inesorabilmente. L’impatto dei migranti, circa il 15% della forza lavoro è cruciale in senso lato. Confindustria ha stimato che il Pil a fine 2015 sarebbe stato di 124 miliardi inferiore a quello effettivo se non ci fossero stati gli immigrati. Quante famiglie beneficiano direttamente o indirettamente del lavoro delle badanti straniere? Quante aziende industriali e agricole chiuderebbero se non avessero operai stranieri? Come potrebbe sopravvivere l’industria del turismo senza immigrati che lavorano negli alberghi, nei ristoranti? E come farebbero gli ospedali senza infermieri?
Nonostante l’esistenza di intollerabili situazioni di sfruttamento, non stiamo parlando di immigrati che guadagnano 3 euro all’ora. A parità di competenze e tipo di lavoro, gli immigrati guadagnano meno dei nativi, ma la differenza è solo di circa il 7% secondo il rapporto del Migration observatory del Centro studi Luca d’Agliano e del Collegio Carlo Alberto (www.dagliano.unimi.it). Il punto è che gli immigrati offrono servizi in aree dove c’è carenza di offerta di lavoro nazionale. Si pensi ad esempio agli infermieri negli ospedali, dove i salari sono spesso determinati da concorsi pubblici e uguali per tutti. Se il 10% degli infermieri sono stranieri, questo non è certo perché lavorano a un salario inferiore agli italiani.
Dunque, sia nella prospettiva di lungo termine, sia per i fabbisogni immediati l’Italia deve avere una politica migratoria per motivi di lavoro attiva. Le opzioni sono molte e sarebbe utile un dibattito su queste pagine che provi in modo costruttivo a mettere in fila delle proposte.
Dovrebbe essere una politica europea, certamente. Ma intanto l’Italia dovrebbe muoversi ed essere proattiva nell’Unione: una migliore gestione dei flussi lavorativi, unita a delle politiche comuni di frontiera rigorose ed efficienti potrebbe essere un mezzo per ridurre gli sbarchi sulle nostre coste. Per quanto ostile all’immigrazione, il Governo farebbe bene ad accettare che il Paese ha ancora un fabbisogno strutturale di lavoratori immigrati. Chi continua a negarlo per rincorrere consensi di breve periodo, lui sì, vive davvero su Marte.

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