Negli ultimi anni abbiamo assistito alla
crescita di un movimento femminista working class, dalle proteste
globali contro la violenza domestica e le molestie sul luogo di lavoro fino
agli scioperi di massa che hanno caratterizzato l’8 marzo in Spagna, Polonia e oltre. Eventi
che ci parlano di un femminismo anti-sistemico, capace di andare oltre la variante liberale e individualistica promossa da
gente come Hillary Clinton.
Un’espressione di questa nuova ondata è il
manifesto Femminismo per il 99% (Laterza,
2019). Le autrici insistono sul fatto che il femminismo non sia un’alternativa
alla lotta di classe, ma rappresenti invece un fronte decisivo nella lotta per
un mondo libero dal capitalismo e da tutte le forme di oppressione.
Nancy Fraser è co-autrice del manifesto,
insieme a Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya. Rebeca Martínez di Vientosur ha
parlato con lei del libro, della sua critica al cosiddetto «liberalismo
progressista», e della sua idea di un femminismo che metta la voce delle donne
working class e razzializzate al centro della scena.
Cos’è esattamente il Femminismo per il
99%, e
perché scrivere oggi un manifesto del genere?
Un manifesto è uno scritto breve che si
vorrebbe non accademico, ma popolare e accessibile. L’ho scritto insieme alla
femminista italiana Cinzia Arruzza, che vive a New York, e a Tithi
Bhattacharya, donna anglo-indiana che insegna negli Stati Uniti.
Questa è la prima volta dal ‘68 – sono
stata un’attivista negli anni Sessanta e Settanta – che ho scritto un libro di
vera propaganda politica. D’altra parte, sono soprattutto una professoressa di
filosofia. Ma la situazione oggi è così grave, la crisi della politica così
acuta, che ho sentito di dover dare un contributo concreto e provare a
raggiungere un pubblico più ampio. Il manifesto prova ad articolare un nuovo
percorso per il movimento femminista, che nelle ultime due decadi è stato
dominato dall’ala liberal-aziendalista del femminismo, personificata negli
Stati Uniti da Hillary Clinton.
Si tratta di un femminismo proprio della
classe professionale-manageriale, di donne relativamente privilegiate – donne
della classe media o medio alta, con un buon livello di istruzione e per lo più
bianche – che stanno provando a farsi strada nel mondo degli affari, o
dell’esercito, o dei media. Il loro progetto è di scalare la gerarchia aziendale, di essere trattate
allo stesso modo degli uomini della loro stessa classe, con la stessa paga e lo
stesso rispetto.
Non è un femminismo genuinamente egalitario – non ha molto da offrire alla vasta
maggioranza delle donne che sono povere e working class, che non
hanno i loro privilegi, che sono migranti, che non sono bianche, che sono trans
o non cis-gender. E questo femminismo dell’1 percento o, forse, al massimo, del
10 percento, ha davvero macchiato il buon nome del femminismo. Ha associato la
nostra causa all’elitismo, l’individualismo, l’aziendalismo. Ha dato una
pessima reputazione al femminismo, accomunandolo al neoliberismo, alla
finanziarizzazione, alla globalizzazione, alle politiche contro la working
class.
Noi tre abbiamo pensato che fosse un buon
momento per inserirci e provare a creare un’esposizione, breve e accessibile,
di una visione e un progetto di femminismo che partano dalla situazione delle
donne povere e delle lavoratrici, e si chiedano di cosa abbiamo davvero bisogno
per migliorare le vite delle donne. Certamente, noi tre non siamo le uniche in
questo: ci sono altre femministe di sinistra che stanno provando a sviluppare
un’alternativa.
Alternativa che sta già emergendo nei
grandi cortei e nelle manifestazioni per l’8 marzo [la Giornata Internazionale
della Donna]: queste proteste hanno un carattere anti-sistemico, dato che
mettono in discussione l’austerità e l’assalto alla produzione sociale. Un movimento
che punti a soddisfare i bisogni delle donne non può essere incentrato solamente sulle
questioni femminili tradizionalmente intese, come il diritto all’aborto – anche
se queste questioni sono ancora molto importanti. Deve anche pensare
in maniera allargata alla crisi più ampia della società e articolare politiche
e programmi per tutte e tutti. È per questo che lo chiamiamo il femminismo per
il 99 per cento. Non significa semplicemente il 99 per cento delle donne, ma il
99 per cento degli esseri umani sul pianeta.
Hai menzionato l’8 marzo e gli scioperi
femministi che sono stati organizzati sin dal 2017 in diversi paesi, inclusa la
Spagna. In realtà, anche al di là dell’8 marzo, in Spagna negli ultimi anni la
maggior parte delle proteste sul lavoro sono state portate avanti dalle donne,
per esempio dalle lavoratrici domestiche o dalle badanti. Stiamo forse
assistendo a una nuova ondata interna al femminismo? E a quale fase del
capitalismo neoliberista sta rispondendo?
Credo che sì, sia una nuova ondata, o
almeno ha le potenzialità per diventarlo, se riesce a separarsi dal femminismo
liberal-aziendalista. E penso che ci siano molti segnali in questa direzione.
Il neoliberismo ha ingaggiato un assalto
feroce a quella che chiamiamo la sfera della riproduzione sociale, e cioè a
tutte le attività e i programmi che supportano le persone e la loro
riproduzione: dalla nascita e la crescita dei figli, alla cura degli anziani e
al lavoro interno alle abitazioni private, fino a cose come l’educazione
pubblica, l’assistenza sanitaria, i trasporti, le pensioni, il mercato
immobiliare. Il neoliberismo ha spremuto profitto da tutto questo. Sostiene che
le donne debbano essere impiegate a tempo pieno nella forza lavoro salariata, e
che allo stesso tempo lo stato debba tagliare le spese sociali per tener fede
ai programmi di austerità e finanziarizzazione.
E così assistiamo sia al ritirarsi del
supporto pubblico in questi settori, sia all’insistenza sul fatto che le donne
debbano mettere il loro tempo a disposizione per produrre profitto per il
capitale. Questo vuol dire una crisi reale della cura e della riproduzione
sociale. È questa la sfera in cui, come dici tu, avvengono gli scioperi e le
controffensive più militanti.
Nella crisi degli anni Trenta, al centro
della rivolta militante stava il lavoro salariale – i nascenti sindacati, le
lotte per i diritti sul lavoro, e così via. Oggi la situazione è diversa, in
parte a causa della deindustrializzazione e della delocalizzazione del
manifatturiero nel sud del mondo. Oggi al centro sta la riproduzione sociale.
Hai citato alcuni scioperi importanti
guidati dalle donne; aggiungo che negli Stati Uniti abbiamo avuto un’ondata
impressionante di scioperi delle e degli insegnanti. È straordinario: le e gli
insegnanti sono pagati così poco che molte e molti di loro devono fare un
secondo lavoro, magari la sera da Walmart, per poter avere abbastanza da
mantenersi, o da mantenere le loro famiglie. Ma le e gli insegnanti non hanno
scioperato soltanto per avere paghe più alte: hanno chiesto anche più fondi per
l’educazione, per rendere le scuole migliori. E così hanno avuto un supporto
incredibile.
È un esempio di come la sfera della
riproduzione sociale possa essere un terreno di lotta privilegiato. E so che le
grandi manifestazioni dell’8 marzo e gli scioperi in Spagna sono stati anche
proteste contro i tagli alla spesa sociale in tutti questi settori. Oggi le
lotte sulla riproduzione sociale sono l’avanguardia della lotta di sinistra,
anti-sistema e anti-capitalista, e le donne sono in prima linea. Questo fatto
deve essere al centro di un nuovo modo di pensare a cosa significhi politica
femminista.
Come pensi che questa lotta per la
riproduzione sociale interagisca con la lotta di classe e con i movimenti
antirazzisti e Lgbtq?
Prima di tutto, dobbiamo ripensare a cosa
intendiamo per lotta di classe. Di nuovo: la nostra immagine della lotta di
classe affonda le sue radici negli anni Trenta – operai maschi e bianchi
interni a un sindacato. Secondo me le lotte per la riproduzione sociale sono
esse stesse lotta di classe, perché non si può avere produzione e lavoro
industriale senza qualcuno che faccia il lavoro di produrre e reintegrare i
lavoratori, e badi alla generazione successiva che dovrà rimpiazzarli. La
riproduzione sociale è essenziale alla produzione capitalista.
Il lavoro che produce queste persone e
queste forme di socialità è lavoro tanto quanto quello che si svolge nelle
fabbriche. A fare la classe non è soltanto la relazione di lavoro all’interno
della fabbrica, ma anche la relazione di riproduzione sociale che produce i
lavoratori. E dunque, fa tutto parte della lotta di classe.
Nel passato la nostra concezione di lotta
di classe è stata fin troppo ristretta. Non penso che un femminismo per il 99
per cento sia alternativo alla lotta di classe. È un altro fronte della
lotta di classe, e dunque dovrebbe allearsi ai movimenti sul lavoro più
tradizionali così come alle altre lotte che citavi prima – le lotte
antirazziste, la lotta per i diritti dei migranti, e la lotta per i diritti
Lgbtq.
È un punto importante anche per via delle
nuove divisioni di classe e razza interne alle donne. Le donne istruite, della
classe medio-alta, che combattono le discriminazioni e raggiungono i livelli
aziendali più alti, lavorano sessanta ore a settimana in luoghi di lavoro
estremamente esigenti. E così assumono donne non bianche, spesso donne
migranti, per farsi carico della quota di lavoro domestico, per il
babysitteraggio o la pulizia della casa, per cucinare per i figli, badare ai
genitori anziani nelle case di riposo, e così via. In questo modo le donne
liberal-femministe si appoggiano al lavoro delle donne razzializzate.
Quest’ultime sono vulnerabili: non hanno diritti sul lavoro, sono pagate molto
poco, e sono soggette ad aggressioni e abusi.
Queste dimensioni di classe e razza interne
al femminismo devono essere messe al centro della riflessione. Il femminismo
per il 99 percento dev’essere un movimento antirazzista. Deve farsi carico
della situazione delle donne povere, working class e razzializzate – cioè la
maggioranza delle donne – e mettere al centro i loro bisogni, non le necessità
di quante vogliono scalare i vertici delle aziende e rompere il tetto di
cristallo.
Allo stesso modo, all’interno del
movimento Lgbtq esiste un’ala liberale che è stata egemonica, e una grande massa
di persone i cui bisogni e le cui necessità sono state marginalizzate. Per
questo ritengo che ci sia una lotta simile interna al movimento Lgbtq sul fatto
che questi temi debbano essere messi al centro. Mi piacerebbe vedere il nostro
femminismo per il 99 percento parlare per le donne trans, queer e lesbiche, e
mi piacerebbe vedere un movimento Lgbtq per il 99 percento, che ne sarebbe
l’alleato naturale.
È chiaro che la lotta per la riproduzione
sociale potrebbe costruire un fronte contro il neoliberismo e il capitalismo.
Ma riguardo le relazioni patriarcali – possiamo combattere la violenza maschile
nei termini della lotta sulla riproduzione? Possiamo usare questo fronte per
cambiare la nostra relazione con le altre donne e, soprattutto, con gli uomini?
Fammi iniziare citando il movimento
#MeToo. L’immagine pubblica di questo movimento è focalizzata su Hollywood,
sulle attrici profumatamente pagate, sugli artisti, i media, e così via. Ma
un’ampia maggioranza di donne molto meno privilegiate è ancora più vulnerabile alle molestie
sessuali e agli abusi sui luoghi di lavoro. Sto parlando delle lavoratrici
dell’agricoltura, alcune delle quali non hanno nemmeno i documenti, e la cui
mancanza di potere e risorse le rende estremamente vulnerabili alle richieste
dei capi e dei capireparto. Lo stesso vale per le lavoratrici degli hotel – per
esempio, il caso di Dominque Strauss-Kahn – o per quante puliscono gli uffici. Le
persone che lavorano nelle abitazioni private come collaboratrici domestiche
sono notoriamente soggette a stupri e molestie sessuali.
Il movimento #MeToo, se lo consideri in
senso ampio, è una lotta sui luoghi di lavoro. È la lotta per un luogo di lavoro
sicuro, dove non ci sia il rischio di abusi. Il fatto che i media si
concentrino sui piani alti è spiacevole, perché fa sì che non sembri più una
lotta di classe. Ma il problema della riproduzione sociale ha a che fare, in
fondo, con il cambiare le relazioni tra produzione e riproduzione e, di
conseguenza, cambiare i rapporti di potere nella famiglia.
La riproduzione sociale non dovrebbe
essere connotata come lavoro esclusivamente femminile. È un lavoro importante
all’interno della società, e alcuni suoi aspetti sono davvero piacevoli e
creativi. Gli uomini dovrebbero avervi accesso e sentire la responsabilità di
fare la loro parte e metterci il massimo. Cambiare le dinamiche interne alla
casa significa anche questo. E, ovviamente, un femminismo per il 99 per cento è
contro tutti i tipi di violenza sulle donne, sulle persone trans, sulle persone
non-cis, sulle persone razzializzate, e così via.
Il patriarcato è una parola, direi, che
non mi piace usare molto, perché suggerisce un’immagine di potere come sistema
diadico – c’è un padrone e c’è un servo che gli obbedisce. Per certi versi
questa dinamica esiste ancora, non c’è dubbio. Ma le forme di potere davvero
centrali nella nostra società sono molto più impersonali e strutturali, e
limitano le opzioni della working class e delle persone povere.
Penso dunque che sia importante avere
un’immagine diversa del potere. Il potere opera attraverso le banche e l’Fmi,
attraverso le organizzazioni della finanza e dell’industria, e attraverso la
costruzione genderdizzata e razzializzata del mercato del lavoro. Questo è ciò
che determina chi ha accesso alle risorse, e chi può rivendicare una parità di
richieste e funzioni persino all’interno della famiglia e delle relazioni
personali.
Quando parli di giustizia sociale
distingui tre livelli. C’è quello della distribuzione (economia), ma anche
quello del riconoscimento (cultura) e della rappresentazione (politica). Fino a
che punto questi tre livelli sono inclusi nel nuovo ciclo di femminismo?
Penso che siano presenti tutte e tre i
livelli, che del resto sono collegati tra di loro. Non puoi cambiare la sfera
economica e le relazioni distributive se non cambi anche le altre cose.
Ciò che conta a livello politico è spesso
definito nei termini di ciò che conta a livello economico. Le forze del
capitale insistono sul fatto che i problemi che riguardano i luoghi di lavoro
dovrebbero essere risolti dal mercato, o dai capi, e che questi problemi non
sono decisivi per l’autodeterminazione democratica, politica e collettiva. C’è
una linea di demarcazione tra ciò che decidono i proprietari privati di
capitale e ciò che decide la maggioranza democratica.
Molto di questo ha a che fare con una
questione culturale, con i linguaggi che abbiamo a disposizione per comprendere
la situazione. Abbiamo a disposizione concetti come molestia sessuale o stupro,
una terminologia con la quale descrivere i torti interni alla società, parlare
delle nostre esperienze e avanzare le nostre rivendicazioni?
Il femminismo ha fatto molto per creare
un nuovo linguaggio e, in questo senso, per cambiare la cultura, per cambiare
la comprensione di ciò che le persone sono legittimate a fare e di ciò che non
sono tenute a sopportare. In questo modo, ha allargato la sfera del discorso
politico e di ciò che è potenziale terreno di decisione democratica e non di
decisione privata della famiglia o dell’azienda.
Al presente, abbiamo fatto più progressi a
livello culturale di quanti non ne abbiamo fatti a livello di cambiamento e
trasformazione istituzionale, sia nella sfera politica che in quella economica.
Ma fra queste tre cose c’è sempre una stretta correlazione.
Hai fatto notare come il neoliberismo si
sia appropriato di alcune delle critiche e delle richieste sviluppate e
sollevate dalla seconda ondata del femminismo e da altri movimenti degli anni
Settanta, incorporandole a proprio vantaggio. Potrebbe succedere di nuovo con
le forme emergenti di femminismo? Cosa possiamo fare per evitarlo?
Il femminismo liberal, insieme con
l’antirazzismo e i movimenti Lgbtq, sempre di stampo liberal, e a ciò che viene
chiamato «capitalismo verde», sono stati egemonizzati – incorporati da – un
blocco di potere egemonico che negli Stati uniti ha preso la forma di ciò che
io chiamo «neoliberismo progressista».
Questi movimenti danno in prestito il loro
carisma, le loro idee, a politiche orribili – la finanziarizzazione, la
precarizzazione del lavoro, l’abbassamento dei salari – affinché abbiano una
patina pro-gay, pro-donne, e così via. Questo è senza dubbio avvenuto in
passato, e per questo è così importante che la nuova ondata di femminismo rompa
i legami con questo tipo di femminismo e tracci un nuovo sentiero.
È sempre possibile essere egemonizzati e
assorbiti da forze più potenti, i cui obiettivi sono profondamente in contrasto
con i nostri. È importante che i movimenti di sinistra e d’emancipazione stiano
costantemente in guardia per evitarlo.
Oggi, ci viene detto che abbiamo soltanto
due opzioni – o i populismi autoritari di destra, razzisti e xenofobi, o il
ritorno dei nostri protettori liberali e il neoliberismo progressista. Ma
questa è una falsa scelta, e dobbiamo rifiutare entrambe le opzioni.
È un momento di grande crisi in cui
abbiamo l’opportunità di segnare un percorso differente, costruire un movimento
realmente antisistemico per il 99 per cento, nel quale il femminismo per il 99
percento si accompagni al movimento sul lavoro, all’ambientalismo per il 99 per
cento, alla lotta per i diritti dei migranti per il 99 percento, e così via.
Hai scritto che lo stato nazione (in ciò
che chiami il quadro westfaliano-keynesiano) è entrato in crisi con il
neoliberismo e che i suoi confini sono ora più diffusi. L’hai chiamata politica
del deframing. Ma qual è il ruolo
dello stato nazione oggi? È forse scomparso?
No, non è scomparso. Storicamente, la
forza principale che assicurava a lavoratrici e lavoratori sicurezza e
protezione dal capitale a tutti i livelli è stata lo stato nazione. E ancora
oggi è lo stato il soggetto principale a cui si rivolgono le nostre richieste.
Quando vogliamo protezione, supporto sociale, a chi lo chiediamo? Al governo.
La politica è ancora largamente
organizzata su base nazionale, e le campagne elettorali nazionali sono la
principale attività politica a livello nazionale. Ma rimane il fatto che lo
stato nazione sia ormai inadeguato.
Lo si può vedere per quanto riguarda le
migrazioni, che sono una grossa occasione di conflitto, anzi una vera e propria
crisi. Esistono persone in tutto il mondo che non hanno stati in grado di
proteggerli o di dare loro nulla di ciò che negli stati ricchi pretendiamo dai
nostri governanti. Vivono in stati falliti, in campi profughi, sono costretti a
partire dalle violenze politiche, dalle persecuzioni religiose, dal fatto che
gli Stati uniti hanno invaso e distrutto i loro paesi, dalla crisi climatica,
dai molti aspetti della crisi globale in cui viviamo.
Quando queste persone arrivano, i
movimenti populisti di destra raddoppiano le politiche nazionaliste e di
esclusione. Qual è lo slogan di Trump? «Make America Great Again»,
«rendere l’America di nuovo grande», cioè come era prima che
tutta questa gente scura di pelle iniziasse a invadere e rovinare la nostra
nazione. Questa è l’ideologia del movimento populista.
Abbiamo bisogno di pensare a un modo
transnazionale e globale di assicurare i diritti sociali a tutte le persone del
mondo. Hanno bisogno di questi diritti, così che non debbano mettersi su una
barca e rischiare la loro vita solo per trovare un posto decente in cui vivere,
da qualche parte in mezzo al pianeta.
(Nancy Fraser è professoressa di filosofia e politica alla New School for
Social Research. È autrice di Fortunes of Feminism, Unruly
Practices, e co-autrice di Femminismo per il 99% (Laterza). Rebeca
Martínez è ricercatrice e collaboratrice della rivista spagnola Vientosur. Questa intervista è uscita su Vientosur e
su JacobinMag. La traduzione è di Gaia Benzi)
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