[Traduzione a cura di Carolina Carta dall’articolo originale di Chouaib Elhajjaji pubblicato su openDemocracy]
Avevo sei anni quando corsi da mia madre lamentandomi di un voto ricevuto a scuola. Ricordo ancora il modo in cui lei mi guardò e mi disse: bambina, tu dovrai studiare e lavorare il doppio rispetto ai tuoi coetanei – la vita è dura per quelli con la pelle del nostro colore. Se fallirai, nessuno sarà lì per te.
Questo ricordo risuona ancora nella testa di Houda, ingegnere civile di 27 anni. Con il sostegno dell’amica Sabrine racconta la sua storia con eccitazione ma anche con amara tristezza. Entrambe le ragazze sono cresciute nel sud della Tunisia e rimarcano il ruolo delle donne nere nella loro comunità. Un ruolo che dà pochi riconoscimenti in cambio di tanti sacrifici.
Avendo sulle spalle un’intera comunità e tutta la famiglia – racconta Houda – da donna nera penso costantemente a come migliorare la situazione dei miei cari e soltanto con l’istruzione e il lavoro si è in grado di farlo. Mia madre è sempre stata la mia fonte di ispirazione, la forza motrice dell’intero nucleo familiare.
L’esperienza del corpo nero: sessualizzazione, esotizzazione e false credenze
Rania e Maha, sebbene provengano da contesti differenti, hanno scelto di diventare una manifestazione vivente di attivismo. Maha, ricercatrice in Geografia Sociale e dottoranda, rivela: “Non stiro più i capelli, li tengo naturali e così mi sento autentica”. Non passa inosservato nella sua voce l’orgoglio per quella che è stata una lunga battaglia. “Tutti quei prodotti e quegli agenti chimici danneggiano sia i capelli che quello che sei dentro”, continua Maha. “Credo che, al naturale, i capelli delle donne siano di per sé una dichiarazione d’identità, un atto di resistenza contro i canoni di bellezza eurocentrici”.
Rania, che ha poco più di vent’anni, studia Relazioni Internazionali e lavora part-time in una panetteria locale, conferma questa svolta nella sua vita: “Mi piace portare le trecce, mi fanno sentire vera”. Ma il suo tono di voce diventa più rigido: “Riuscite a credere che non c’è un solo negozio che venga incontro alle nostre esigenze, che ci offra un servizio adeguato? Di conseguenza sono costretta a chiedere ai miei amici di spedirmi prodotti dall’estero. È una situazione molto frustrante.”
Alcuni casi sono anche peggiori. Houda non dimentica la difficoltà “nel lisciare i capelli ogni giorno prima di indossare lo hijab.” Con un sorriso che pian piano svanisce, continua a raccontare: “Ogni notte prima di andare a scuola piangevo, pregando mia mamma di fermarsi”. Si interrompe un attimo per raccogliere i pensieri: “Quando avevo otto anni gli insegnanti mi dicevano di calmarmi”. “Calmarmi?”” esclama “Cosa significa? La nostra identità è stata attaccata ripetutamente per adattarsi a standard di bellezza riconosciuti dalla maggioranza”.
Il dolore diventa profondo e la sua voce si spezza: “Ho cominciato a odiare i miei capelli, assimilando tutto quel razzismo e chiedevo mia madre perché non potessi avere dei bei capelli come quelli delle mie amiche”.
La questione dei capelli afro può assumere sfumature più cupe, essendo spesso associata a scarsa professionalità o all’essere “troppo radicali”. Secondo Maha, infatti, “può diventare un ostacolo per tutte le donne nere tunisine che cercano di farsi valere nella società del proprio Paese e del resto del mondo”.
Al telefono Maha ci racconta: “Quando arrivai in Tunisia per la prima volta, fui sopraffatta dalle molestie sessuali che dovevo subire”. Viene interrotta dai flashback. Ora il suo tono è più fermo e deciso: “Le donne nere sono percepite come oggetti, come uno strumento per raggiungere la soddisfazione sessuale – e coloro che affermano il contrario mentono”. Il suo già tono acceso si intensifica: “Prima avevo l’abitudine di correre e salire sul primo taxi, andare nel mio appartamento e piangere tutto il giorno. Ma sono diventata più forte”.
Essere l’esotico oggetto piacere del partner non è l’unico stereotipo che le donne nere devono sopportare in questo Paese, rivelano le quattro donne intervistate. Come spiega bene Sabrine: “Le persone di colore sono considerate strumenti sessuali, oppure viene attribuita loro la capacità di spezzare gli incantesimi o di curare l’anima”. Si rattrista. “Oh sì, i non neri ti portano ai loro matrimoni per proteggerli dal malocchio e dalla magia nera; e gli uomini ti sposano soltanto per scacciar via la cattiva sorte e risanare la propria anima. È così disumanizzante, è ripugnante”. L’atmosfera diventa pesante ed è difficile ignorare la tristezza che aleggia nell’aria. “Mi sono stancata dei non neri, del modo in cui mi vedono, è davvero straziante.”
Maha insiste sul fatto che “mentre il governo tunisino e segmenti della società si fanno vanto dei propri successi riguardo ai diritti delle donne, il femminismo tunisino è selettivo e respinge le storie delle donne nere che soffrono a causa dell’oppressione sistemica e nel contempo non viene dato loro nessuno spazio neanche dalle altre donne.”
Continua senza sosta, quasi senza riprendere fiato: “Mentre veniamo chiamate in causa soltanto per le ricorrenze legate alla schiavitù o al razzismo, siamo escluse dai seminari e dalle conferenze sul femminismo. Le guardo mi penso tra me ‘quella donna non sono io'” dice con voce piena di rabbia, o forse della frustrazione che logora queste donne. Maha richiama alla memoria gli incidenti che a volte ricorrono e confermano ogni suo dubbio: “Sui social media nessuno interagisce con me quando, nei gruppi dedicati al femminismo, pubblico post riguardanti la marginalizzazione delle donne nere. Tuttavia, quando si parla di ‘femminismo mainstream’ le discussioni si accendono e le persone interagiscono tra loro. Io invece vengo ignorata o ridicolizzata dalle femministe che non credono alle nostre storie.”
In che direzione stiamo andando?
“Ma in che direzione andiamo? Come possiamo andare avanti?” Si interrogano queste donne. Anche quando non si conoscono direttamente, tutte loro sono unite dalle storie comuni e dalle loro identità.
Maha ne ha abbastanza delle domande e si auspica un cambiamento radicale basato su iniziative concrete. Dichiara con convinzione: “La salvezza delle donne nere è il femminismo nero”, che definisce come “un femminismo che può essere portato avanti soltanto dalle donne nere per le donne nere, in modo da conquistare la giustizia socioeconomica e politica. In quanto colonna portante della comunità, è necessario celebrare e prendersi cura delle donne nere tunisine, anziché alienarle, escluderle e ridurle a meri oggetti.”
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