«Non lascerò più che mi si
faccia vergognare. Avrò la mia voce: india, spagnola, bianca. Avrò lamia lingua
di serpente, la mia voce di donna, la mia voce sensuale»: così parlava di sé
l’autrice, di Terre di Confine/La Frontera, considerato uno dei
migliori libri del XX secolo.
Gloria Anzaldúa era nata il 26
settembre 1942 a Harlingen (Texas). Il padre era figlio di un giudice della
corte hidalga, discendente di famosi esploratori baschi arrivati in America nei
primi anni del diciassettesimo secolo. Ha solo undici anni quando inizia a
sentire sulla propria pelle gli effetti di quella discriminazione razziale che
fu uno dei temi della sua riflessione letteraria.
Donna capace di dare voce alla
poesia che le scorreva dentro e ripercorrere la storia della “espropriazione”
materiale e culturale – fatta dagli anglos – delle terre Aztlán, luoghi
d’origine della cultura azteca appartenute agli indigeni messicani sino al 1848
e sottratte loro (con il trattato di Guadalupe-Hidalgo) dagli Stati Uniti.
Nelle sue opere Gloria Anzaldúa
ha recuperato e reinventato alcuni miti femminili nati dal contatto/scontro
della civiltà nativa con quella europea: come Malinche, la traduttrice-amante
di Cortés a lungo ritenuta dai discendenti degli aztechi una “traditrice”,
presentata invece come esempio di una faticosa intermediazione
linguistico-culturale.
Non ha trascurato nemmeno la
Virgen de Guadalupe, la Madonna messicana frutto della fusione sincretica con
la divinità azteca Coatlique. Ha riportato poi la sua esperienza personale di
donna lesbica e chicana – ruoli faticosi da far rispettare – e si è soffermata
a mettere in luce l’arcobaleno delle lingue variegate che hanno
contraddistinto il panorama linguistico delle borderlands, fra Messico e Stati
Uniti, partendo dalle contaminazioni presenti nella sua complessa biografia.
«Le parole sono lame d’erba che attraversando gli ostacoli, germogliano sulla
pagina; lo spirito delle parole che si muove nel corpo è concreto e palpabile
come la carne; la fame di creare è altrettanto materiale quanto le dita e la
mano. Guardo le mie dita, vedo crescervi piume. Dalle dita, mie piume,
inchiostro nero e rosso cola sulla pagina». (in Terre di confine).
Un vero e proprio inno alla
mescolanza: non solo per i temi affrontati ma anche nella struttura dove i
confini tra i generi letterari sfumano l’uno nell’altro (saggio teorico e
biografia, poesia e storiografia, antropologia e romanzo) come quelli fra i
codici linguistici (castigliano, chicano, inglese standard e slang, nahuatl).
Parola e frontiera dunque sono
i concetti su cui si è sviluppata tutta la sua poetica: «luogo o stato della
coscienza dove tutti possiamo ascoltare e parlarci, dove le divisioni possono
essere colmate, forse persino sanate».
Luogo simbolico ma anche di
transito. Luogo delle anime in cerca di sé.
Con la frontiera i messicani
hanno dovuto fare i conti, e ancora li stanno facendo, costretti a lasciare
affetti e casa per adottare una nuova realtà che li avrebbe voluti sempre sottomessi
e subalterni.
La capacità della Anzaldua di
tramutare il luogo di oppressione coloniale in qualcosa di magico la si avverte
nel momento in cui la frontiera viene tracciata e ridefinita quale simbolo di
libertà e resistenza.
Se al confine si vogliono
costruire muri e separare culture, escludendole l’una dall’altra, lei ha
tentato di costruire ponti per disinnescare il meccanismo di separazione,
invitando ad abitare la frontiera per attraversarla mille e mille volte.
È infatti la mescolanza delle
culture, del sudore, delle sofferenze che può creare una possibile relazione
fra le genti. «There is the queer of me in all races» (C’è la mia “stranezza”
in tutte le razze) afferma con orgoglio. Riconoscere questa stranezza aiuta a
superare gli steccati che circondano la vita di ognuno di noi, dalle origini
alla sessualità, dalla lingua alla religione.
Il concetto di new
mestiza sviluppato con la sua scrittura ha avuto come obiettivo
anche quello di spezzare qualsiasi forma di contrapposizione assoluta
(filoamericano-amerindio) per cercare di disegnare una cartografia nuova di
luoghi fisici ed emotivi.
E’ scomparsa il 15 maggio 2004.
Durante la sua esistenza ha cercato sempre di coniugare mondi che, se
apparivano ancestralmente differenti, potevano comunque incontrarsi. Anzaldùa è
stata una donna capace di ridefinire le frontiere mettendo in luce soprattutto
le sorti di un gruppo di esseri umani tre volte penalizzato: le donne di
“razza” meticcia e dall’orientamento sessuale non tradizionale.
da qui
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