sono finito in georgia quasi per caso, come quando un bel giorno a casa si
dice “andiamo a farci un giro”; il bello di andare in un posto per caso
consiste nel fatto che non devi obbedire ad avvedutezze turistiche che ti
prescrivano dove conviene andare, non disponi di una classifica di cose da
vedere e quindi puoi permetterti di andare a zonzo imbranato e innocente quanto
ti pare; naturalmente devi inventarti così su due piedi alcuni riferimenti
orientativi, per esempio sulla popolazione, o sul clima, o sulla condizione
delle strade e poi stare a vedere cosa succede;
la popolazione della georgia è costituita prevalentemente da vacche, le
quali gironzolano dovunque in crocchi come gente di vicinato ed offrono un
esempio di generale socializzazione; come abbiamo imparato da piccoli la mucca
in inglese si chiama “cow” e infatti si pronuncia “cau”; e così ho trovato
immediatamente la prima ragione recondita dell’essere capitato fortunosamente,
insieme a mia moglie, nel leggendario cow-caso; talmente smagliante di neve, di
pascoli e vacche da non necessitare per niente di cow boys e di funi e recinti:
le vacche georgiane infatti si autogovernano quasi completamente e per la gioia
dei loro piccoli sono perennemente in giro; se fossero ad oristano o a cagliari
probabilmente non stazionerebbero in via dritta o in piazza yenne a guardare le
vetrine, ma nelle vie circostanti senza dubbio sì;
i tori sono visibilmente più solitari, meno zuzzerelloni e più portati alla
meditazione sui problemi della vita; nel villaggio di stepansminda, l’ultimo
centro abitato prima dell’unico varco di confine con la russia, ne ho ammirato
uno che all’alba si faceva meticolosamente il giro di tutte le vie, col portamento
severo di un vigile urbano, facendo “muuu” qua e là tra i cortili dove i galli
cantavano alle prime luci del giorno;
ecco quindi la prima lezione per uno che senza preavviso capita da quelle
parti: la serenità della vita quotidiana e perciò la presumibile affabilità
anche della specie umana: perché c’è sempre una relazione tra la condizione di
vita di questo genere di animali, le mucche o le galline, e la condizione di
vita della gente che abita in un posto: già solo gli odori di mucca,
apparentemente impropri tra i tavolini di un bar, evocano la bellezza e
l’eternità dell’infanzia: e infatti se ti trattieni in un luogo qualunque della
georgia dopo qualche giorno ti sembra di essere a casa, a ollastra in provincia
di oristano o a blera in provincia di viterbo;
la fisionomia della gente georgiana, a prima vista, non è propriamente
avvenente: i tipi in genere, almeno quelli in età matura, potrebbero sembrare
tagliati in grosso, ma “sa chinna”, alla fine è molto simile a quella di
ardauli, come del resto la gestualità spontanea, il passo in campagna ecc.:
molto più di quanto non lo sia, per esempio, l’ affinità tra un sardo e uno
dell’emilia romagna;
i georgiani sembrano compiacersi oggi di una loro europeità sostanziale
piuttosto che della loro asiaticità geografica: ma questo sentimento pare
motivato più dalla suggestione attuale del quadro geopolitico che dalla
consapevolezza storica di quanto l’antichità europea sia venuta dalla georgia,
piuttosto che per la direzione inversa; quanto al mediterraneo, i georgiani in
genere non hanno una chiara idea di dove sia per esempio la sardegna, mentre
manifestano una immediata simpatia per l’italia; esprimono un amore curioso,
iconico ed eternizzato, per esempio per la canzone “volare”, per roberto
baggio, per adriano celentano, luciano pavarotti, anna magnani e soprattutto,
non ho capito perché, per ornella muti; per il resto una pur breve ricognizione
folklorica sulla musica popolare, rivela assonanze inaspettate con moduli corsi
e anche sardi, probabilmente mediati da un comune passato bizantino rimasto
impresso nelle danze e nei canti corali;
la spontanea affabilità dei georgiani merita comunque qualche ulteriore
considerazione: le donne, per esempio, sono impegnate in continuazione e
svolgono ogni genere di lavoro; la loro pazienza e la loro solerzia commuove,
se semplicemente ti fermi al mattino tra le povere bancarelle dei mercatini tra
la vendita di formaggio e mazzetti di cipolle, e vecchi pelouche o lacci da
scarpe o rametti di fillirea per la domenica delle palme, e se poi ripassi alla
sera e le trovi ancora lì, a conversare tra loro mentre mettono via per
l’indomani le cose invendute;
gli uomini fanno certamente tante cose, ma tra queste le più ricorrenti per
le strade sono: giocare a domino sulle panchine, oppure fare i tassisti, oppure
fare i parcheggiatori; i tassisti costituiscono una tipologia molto indicativa
del comportamento degli automobilisti in genere, e la cosa è importante in
quanto se non sei una mucca il semplice attraversamento della strada può
costituire un rischio a prima vista mortale; mi sono chiesto come mai una
popolazione così tranquilla possa trasformarsi in una ciurma senza controllo
quando è alla guida di un’auto, e mi sono risposto che in realtà non vi è
alcuna incoerenza: credo che semplicemente si sia trasferita sul traffico
automobilistico la consuetudine della mobilità a cavallo, laddove la regola
fondamentale non è data dal codice della strada ma soltanto dalla velocità del
cavallo e dall’abilità del cavaliere;
le strade sono a loro volta luoghi di varia condizione e la loro
apprezzabilità dipende dal mezzo di locomozione: sono bellissime per andare su
cavalcature al galoppo, ma spesso in auto sono adatte per marciare solo in
prima o in seconda; non si tratta solo delle buche, per esempio la strada per
mestia, che sta sotto le cime di cinquemila metri del kabardino-balkaria,
sguscia per cento chilometri sull’orlo un orrido canion a centinaia di metri
sul fondovalle, con tratti di guard rail curiosamente assenti negli strapiombi
più impressionanti;
i cimiteri sono un luogo particolarmente indicativo di quell’altra faccia
della vita che è la morte; le lapidi riportano il ricalco del viso di
innumerevoli giovani; le tombe sono posizionate in recinti familiari di circa
dieci metri quadri ciascuno e quasi tutte sono corredate di un tavolino e di
una o due piccole panchine; è stato così che il giorno di pasqua, nella
minuscola frazione montana di juta circondata da vette innevate, abbiamo potuto
vedere un vecchio mentre apriva la sua borsa del pranzo sul tavolino del suo
giardino dell’aldilà, vicino ai suoi cari che dormono; e poi altri e altri
ancora, che si offrivano da bere tra una tomba e l’altra come vicini di casa, e
onoravano vicendevolmente il proprio vino;
il vino e il pane sono inscindibili dal concetto della georgia; il vino
georgiano segna la mitologia e l’archeologia, tanto che probabilmente la
coltura della vite non sarebbe mai esistita nel mondo senza quei primordi; e se
vuoi capire cosa è il pane, devi vedere e soprattutto odorare quelle forme di
farina impastata che fanno ogni volta il loro miracolo su quei piccoli forni a
cupola, presenti nelle botteghe di pane di ogni strada e accesi ad ogni ora del
giorno;
il dio del vino, ed anche della morte di dio per la resurrezione, è nella
sua effigie primordiale il celebre ed enigmatico dioniso, così come ci è stato
insegnato a proposito degli antichi greci; e tuttavia il vecchio dioniso prima
che greco era zagreo, conosciuto dai due lati della montagna come il dio della
soglia tra l’asia e l’europa e tra lo sciamanesimo e la razionalità; le tracce
di dioniso portano nell’antica colchide, oggi ripartita tra l’abkazia ancora
dolorante di guerra e la magnifica montagna svaneta; i miti di fondazione della
grecità, quelli di giasone e prometeo che rubarono i segreti agli dei, hanno
qui la loro scena; vi sono molti motivi a riguardo di questo, ma il principale
è questo: la colchide è il luogo nel quale si è realizzato il passaggio di
civiltà dalla pietra del neolitico alla fusione del rame; si scoprì la potenza
tecnologica del fuoco, come strumento della fusione e della plasmazione dei
metalli, dando con ciò agli uomini un nuovo immenso potere;
oggi dio è un’altra cosa, in georgia; la georgia è ortodossa e a noi è
capitato di seguire i riti della passione; nei monasteri sulle montagne si vive
in queste giornate dedicate al calvario una fascinazione particolare, ma nelle
grandi cattedrali della città la cosa presenta un aspetto diverso e per me
inusuale; ho avuto l’impressione che da parte dei fedeli vi sia una straripante
devozione e una quasi assenza di raccoglimento; vedere poi tra i concelebranti
del venerdi santo, nella cattedrale maggiore di tutta la georgia, un prete che
molla l’altare per riprendere la scena con la videocamera, cosa che non farebbe
nemmeno un giapponese in vacanza, è stata una bizzarra sorpresa; in verità poi
nemmeno io sono riuscito ad arrivare alla fine del rito: la lettura cantata
delle scritture diventa dopo qualche ora talmente narcotica che secondo me gesù
stesso, se potesse, scenderebbe dalla croce e andrebbe fuori a giocare a domino
sulle panchine col primo buontempone che che gli capita di incontrare;
la città è un’altra cosa, in georgia, rispetto alla campagna; la storia
dell’est europeo ci ha abituato a vedere città capitali nate e cresciute
divorando incessantemente le risorse della campagna: budapest, sofia, o mosca,
sono un esempio di questo; ma tbilisi, la pur piccola capitale georgiana,
probabilmente presenta una esasperazione di questa consuetudine storica, e
quindi si pone da sé come la scena privilegiata di tutte le grandi
contraddizioni: città-campagna, cultura-degrado, potere-rassegnazione,
ricchezza-miseria ecc.; la dominanza delle élites delle capitali di queste
repubbliche ex sovietiche può forse anche spiegare, per la sua parte, la
complicatezza e la crudeltà del puzzle caucasico, dove ogni rivendicazione di
indipendenza ne evoca altre ancora, con ossezie, abkazie, inguscezie e karabak
internate l’una nell’altra come in immense matrioske della montagna;
oggi l’elite politica dominante in georgia è superimpegnata ad esibire
l’allineamento con l’unione europea e con la nato; la piazza centrale di
tbilisi si chiama “freedom square” e non distante vi è persino una “george bush
street”; il museo nazionale presenta una mostra sulla cosiddetta “occupazione
sovietica: 1921-1991”, e curiosamente glissa su stalin mentre mette in croce
gorbaciov; un pannello afferma che i settant’anni di “occupazione sovietica”
sono costati alla georgia 800.000 tra morti e deportati, metà dei quali per la
seconda guerra mondiale: ergo, se ho capito bene, l’attuale leadership
georgiana rinnega la scelta di campo georgiana nella seconda guerra mondiale,
mentre vagheggia il corteggiamento del 1918 da parte della germania come alternativa
desiderabile all’adesione al bolscevismo;
uno dei pannelli riporta la conclusione del testamento spirituale di un
vescovo che fu vittima della cosiddetta repressione bolscevica nel 1924; dice
così: “la mia anima a dio, il mio cuore alla georgia, il mio corpo alla terra
dovunque vogliate lasciarlo”; è un testamento che mi piace e lo voglio anche
per me, salvo forse per il mio cuore che batte per tante cose; del resto,
quanto ai cuori, condivido anche una recente affermazione del famigerato
vladimir putin, secondo cui chi rimpiange l’unione sovietica è senza cervello,
ma chi la ripudia è senza cuore;
oggi tutta la georgia è in una fase di febbrile evoluzione, con molte
apparenze stimolanti e molte vittime predestinate; la capitale tbilisi è teatro
di un traffico incessante e di una promozione architettonica sorprendente, con
suv d’alto costo sulle arterie principali e ardite silhouettes di grattacieli,
tra le case cadenti del vecchio centro, i tuguri nel rione della sinagoga e in
quello della cattedrale, e i tristi palazzi dell’era sovietica comunque ancora
principale ricovero della vita; uno dei modi per vedere una città, alla fine, è
osservare i panni stesi alle finestre o ai balconi; o vedere come girano i
bambini o se ci siano biciclette: ma curiosamente la città di tbilisi, così
satura di traffico ed automobili, è praticamente priva di bici nonostante sia
tutta in pianura;
nonostante la recente opera di cosmesi, tuttavia, è difficile non prestare
attenzione a quanto di epoca sovietica la georgia conserva nelle sue nervature:
la metropolitana della capitale è di qualità superiore a quelle italiane e
risale al 1965; la rete del gas arriva attraverso migliaia di chilometri di
tubi fin sull’ultimo villaggio della montagna, consentendo alla gente di ogni
dove di avere acqua calda e di non morire di freddo; altrettanto si può dire
della rete elettrica e delle reti fognarie urbane; se ne sapessimo di più,
potremmo forse azzardare constatazioni analoghe a riguardo di altri servizi
essenziali oggi in pezzi: istruzione, sanità, protezione degli anziani ecc.;
le vittime predestinate sono ovviamente le campagne, poi i poveri, poi gli
anziani; è bello vedere in giro in città gruppi di giovani in jeans sbucciati e
piccole band che cantano “come togheter”; come è triste, nella stessa misura,
vedere giovani con lo sguardo vuoto appoggiati a vecchi cartelli stradali, nei
villaggi di campagna disseminati di case senza vetri e macerie; constatare che
il pane non costa quasi niente, e che gli esercizi commerciali più diffusi e
vetrinati sono profumerie, saloncini di estetiste, farmacie piene di dentifrici
e pannolini, e soprattutto sportelli di cambiavalute e di piccoli crediti
presumibilmente su pegno; i lavori usualmente conosciuti, come spazzini o
operai stradali, impiegano quasi esclusivamente operai anziani, mentre folle di
giovani attendono impazienti ai colloqui per assunzioni ai call center; in
compenso trionfano su locali a più piani gli esercizi di slot, videogiochi e
immondizie digitali;
la vera cicatrice aperta della capitale, al netto di tutto, è costituita
per me dall’enorme numero di mendicanti; essi sono dappertutto, distribuiti
probabilmente secondo una gerarchia del bisogno e della pietà che lascia le
postazioni migliori, alla metro, alle cattedrali o ai centri commerciali, ai
più vecchi e alle donne; perfino intorno ai venditori di libri usati di disloca
ogni giorno la piccola corte di mendicanti, e così poi agli ingressi dei
ristoranti, ai giardini e ai ponti sul fiume; e ai rapsodi di strada, e in
ultimo ai cassonetti, cercando di conservare il pudore;
un pomeriggio ci trovavamo in metropolitana, in attesa di scendere alla
fermata centrale; quando il treno si fermò, e mettemmo piede sulla banchina, un
batuffolo di bambina coi capelli neri sgusciò di fianco a noi e salì veloce sul
vagone, mentre le porte di questo si richiudevano; aveva si e no quattro anni
ed era sola; mise le piccole mani sui vetri della portiera e incrociammo così i
nostri sguardi; per un istante però, perché il treno fuggì subito via nella sua
corsa sotterranea; una vecchia guardava, ancora dietro a noi, e non appena il
convoglio fu inghiottito dal buio si girò verso la scala mobile e andò via;
credo che in quella fugacità si sia rifugiata la ragione segreta di questo
viaggio nel caso; penso ancora a quella bambina, a quelle mani sul vetro e a
quella che credo fosse la nonna, sulla scala del sottosuolo; ma non è un vero
pensiero, poiché ogni pensiero, per sua natura, risolve; piuttosto è una
visione che secondo la sua propria natura semplicemente “sovviene”; “il dio –
ricorda il filosofo eraclito – non parla: accenna”;
vai piccola: vai per tua madre, a trovare qualche soldo per un pane; vai,
per le guardie che ogni giorno ti consentono di passare inosservata sotto i
tornelli per il sottosuolo; per quelli che riescono a vedere le briciole
dell’umanità sul tuo cammino incessante; e per quelli come me, che non
dispongono di mappe per prestare attenzione al tuo mondo, e che possono vederlo
soltanto grazie ai tuoi occhi
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