“L’intero modello economico deve essere ripensato, in modo più equo e
sostenibile dopo la pandemia”, dice Thomas Piketty, intervistato dal
Manifesto a proposito del suo nuovo, monumentale libro Capitale e
ideologia (La Nave di Teseo, traduzione di Lorenzo
Matteoli e Andrea Terranova).
“Monumentale” è la parola giusta. Sono 1.200 pagine, stampate su una carta
patinata sottile e consistente, simile a quella che si usa per i dizionari.
Appoggio l’edizione di carta sulla bilancia per gli spaghetti. Sono quasi
1.100 grammi. Il corrispondente di una (assai abbondante) spaghettata per dieci
persone.
Qui non provo nemmeno a commentarvele, le 1.200 pagine: ne verrebbe fuori
un consommé scipito.
Vi offro invece, su un ideale vassoio, una serie di assaggi che provo, per
quanto è possibile, a impiattare connettendoli tra loro, e che vi danno conto,
anche, del linguaggio limpido usato da Piketty. Poiché si tratta di un libro di
economia, di storia e di scienze sociali, la limpidezza è un attributo
tutt’altro che scontato.
L’incipit è
folgorante. E incrocia strutture socioeconomiche, sovrastrutture ideologiche e
narrazioni.
Ogni società
umana deve giustificare le sue disuguaglianze: è necessario trovarne le
ragioni, perché in caso contrario è tutto l’edificio politico e sociale che
rischia di crollare. Ogni epoca produce, quindi, un insieme di narrative e di
ideologie contraddittorie finalizzate a legittimare la disuguaglianza, quale è
o quale dovrebbe essere…
Nelle
società contemporanee, si tratta in particolare della narrativa proprietarista,
imprenditoriale e meritocratica: la disuguaglianza moderna è giusta, perché è la conseguenza di un processo
liberamente scelto nel quale ognuno ha le stesse opportunità di accesso al
mercato e alla proprietà e nel quale ciascuno gode naturalmente del vantaggio
derivante dal patrimonio dei più ricchi, che sono anche i più intraprendenti, i
più meritevoli e i più utili.
Ma questa
narrazione è adesso diventata fragile. Una “favoletta meritocratica”. Cioè un modo
molto comodo, per i privilegiati del sistema economico attuale, di giustificare
qualunque livello di disuguaglianza senza nemmeno doverlo analizzare,
stigmatizzando allo stesso tempo chi soccombe per le sue mancanze: di merito,
di capacità e di diligenza. Questa ‘colpevolizzazione’ dei più poveri non
esisteva o, almeno, non era così esplicita nei precedenti regimi basati sulla
disuguaglianza, che sottolineavano invece la complementarità funzionale dei
diversi gruppi sociali.
La disuguaglianza, insomma, non è “naturale”, e varia nel tempo e nello
spazio: ci sono sempre state e sempre ci saranno molte alternative per regolare
il sistema della proprietà, il sistema dell’istruzione e il sistema fiscale, le
tre maggiori fonti della disuguaglianza.
È tutta questione di scelte, politiche e, prima ancora, ideologiche. In
altre parole: a configurare le scelte è la struttura delle idee del mondo,
della giustizia e della legittimità (appunto: l’ideologia) che ciascuna società
adotta, attraverso un costante, conflittuale processo di sperimentazione
storica.
Lo fa scegliendo di volta in volta (e giustificando ideologicamente)
l’alternativa più favorevole a chi ha l’effettivo potere di scegliere, e
scartando tutte le altre alternative possibili, in un costante, doloroso e conflittuale processo di
creazione narrativa.
Il genere
umano vive oggi in condizioni di salute mai godute prima nella sua storia: lo
stesso vale per l’accesso all’istruzione e alla cultura.
Il reddito,
nei limiti della possibilità di misurarlo, è passato da un potere d’acquisto
medio (espresso in euro 2020) di 80 euro al mese per abitante del pianeta nel
1700, a circa 1000 euro al mese nel 2020. Questi importanti incrementi
quantitativi, che – è bene ricordarlo – corrispondono a ritmi di crescita
annuale media di appena lo 0,8%, accumulati in più di tre secoli, rappresentano
comunque dei ‘progressi’ incontestabili dello stesso ordine di grandezza di
quelli che si sono verificati per la salute e per l’istruzione; e provano che
forse non è indispensabile una crescita del 5% annuo per garantire il benessere
sul pianeta.
Dobbiamo ricordare che tra il 1700 e il 2020 la popolazione mondiale è
passata da circa 600 milioni di persone a più di sette miliardi. Dobbiamo però
anche stare attenti a non lasciarci ingannare dalla”media del pollo”. Il progresso esiste, ma è fragile e iniquo, e in
ogni momento può essere cancellato dalle derive identitarie e dalla rinnovata
crescita delle disuguaglianze, che si sono enormemente accentuate a partire
dagli anni ottanta.
Nei capitoli centrali del suo testo, Piketty interpreta, alla luce delle
disuguaglianze e dei sistemi di relazioni che si sono via via prodotti per
giustificarle, le strutture sociali che si sono sviluppate non solo nell’Europa
cristiana, ma anche “in moltissime società extraeuropee e nella maggior parte
delle religioni, in particolare nel caso dell’induismo e dell’islam sciita e
sunnita”.
(Immagino che trascuri la breve ma fiorente età comunale proprio perché sta
andando in cerca delle disuguaglianze maggiori, mentre – se i miei modesti
ricordi di storia non mi tradiscono – la società comunale coinvolge una
consistente parte della cittadinanza nel governo, nella difesa e
nell’amministrazione cittadina. È socialmente fluida e vede la nascita di un
embrione di borghesia artigianale e mercantile).
Piketty si concentra, invece, sulla società trifunzionale, o ternaria, e
sul grande sforzo di “astrazione, di concettualizzazione e di formalizzazione
giuridica” cha dà luogo a un sistema che lascia tracce importanti nel mondo
moderno. È un sistema in cui due classi distinte per legittimità, funzione e organizzazione – i nobili e
il clero – controllano singolarmente una quota importante delle risorse e dei
beni (tra un quarto e un terzo circa per ciascun gruppo delle proprietà totali
disponibili, ovvero tra metà e due terzi per i due gruppi insieme, e talvolta
ancora di più, nel caso del Regno Unito), fatto che permette a queste due
classi di svolgere pienamente un ruolo sociale e politico dominante. Come tutte
le ideologie basate sulla disuguaglianza, l’ideologia ternaria rappresenta un
regime politico e un regime di proprietà e, al tempo stesso, una specifica
realtà umana, sociale e materiale.
Per Piketty,
la rottura definitiva con la società trifunzionale coincide con la rivoluzione
francese del 1789, che tenta di ridefinire radicalmente le relazioni di potere
e di proprietà, e consolida il perimetro della proprietà privata traducendolo
in un’ideologia proprietarista. La quale abolisce i privilegi di nobiltà e
clero e garantisce stabilità sociale, ma non riduce certo le disuguaglianze.
La
concentrazione della proprietà privata è rimasta a un livello estremamente
elevato tra il 1789 e il 1914. La sacralizzazione della proprietà è in qualche
modo una risposta alla fine della religione come ideologia politica esplicita
L’idea di fondo è che il “vaso di Pandora” della redistribuzione della
proprietà non dovrebbe mai essere aperto, e che se si comincia a parlare di
redistribuzione non si sa dove si può andare a finire. Questo timore
dell’instabilità e del caos è ancora ben presente nel dibattito odierno, e
sostiene regimi fiscali che hanno poca valenza redistributiva, e offrono
condizioni ideali per l’accumulazione e la concentrazione della ricchezza.
Traiettorie analoghe, anche se differite nel tempo, si ritrovano nel Regno
Unito (e guidano, per esempio, il risentimento irlandese nei confronti dei
proprietari terrieri britannici assenteisti) e in Svezia, dove fino ai primi
del novecento è rimasto in vigore un regime proprietarista basato sulla disuguaglianza
più estrema.
Alla vigilia
della prima guerra mondiale, nel Regno Unito il 10 per cento dei proprietari
più ricchi possedeva il 92 per cento del patrimonio privato totale, rispetto al
‘solo’ 88 per cento in Svezia e all’85 per cento in Francia. Dato ancora più
significativo, nel Regno Unito l’1 per cento più ricco possedeva il 70 per
cento del patrimonio privato totale, rispetto al 60 per cento in Svezia e al 55
per cento in Francia (anche se a Parigi il valore era superiore al 65 per
cento).
Tutto questo
accade proprio nel momento in cui per lo sviluppo sociale ed economico ci
sarebbe bisogno di uguaglianza nell’istruzione, e non di sacralizzazione della
proprietà, così iniquamente distribuita da minacciare la stabilità sociale e da
“far emergere, alla fine del diciannovesimo secolo e nella prima metà del
ventesimo, prima le contronarrazioni e poi i controregimi comunisti e
socialdemocratici”.
A proposito
di narrazioni: Piketty compie poi un ampio esame delle narrazioni che
giustificano la disuguaglianza estrema delle società schiaviste, la
distribuzione del potere e le diverse traiettorie seguite dalle società
coloniali, fino ad arrivare al Giappone dello shogunato, e alla Cina imperiale,
“diseguale e gerarchizzata, percorsa da continui conflitti di élite
intellettuali, proprietariste e guerriere”. La sua conclusione è netta.
Tutte queste
esperienze storiche hanno tuttavia un tratto comune: dimostrano come la
disuguaglianza sociale non abbia mai nulla di ‘naturale’ ma sia, al contrario,
sempre profondamente ideologica e politica. Ogni società non ha altra scelta
che dare un senso alle proprie disuguaglianze; e le narrazioni che vengono
elaborate in merito al bene comune non possono rivelarsi efficaci, se non sono
dotate di un minimo di plausibilità e se non si concretizzano in istituzioni
durature.
Il ventesimo
secolo cambia la struttura delle disuguaglianze, ma le riduce solo per un breve
periodo, e in seguito a eventi traumatici.
Nel 1914,
alla vigilia della guerra, la prosperità del sistema di proprietà privata
sembrava assoluta e inalterabile, esattamente come quella del sistema
coloniale. Le potenze europee, al tempo stesso proprietariste e coloniali, sono
al culmine del potere. I proprietari britannici e francesi detengono nel resto
del mondo portafogli finanziari di dimensioni a tutt’oggi ineguagliate. Poco
più di trent’anni dopo, nel 1945, la proprietà privata scompare nel sistema
comunista (assurto al potere prima in Unione Sovietica e poco più tardi in Cina
e nell’Europa orientale), e perde gran parte del suo potere anche in paesi che
sono rimasti nominalmente capitalisti, ma che in realtà stanno diventando
società socialdemocratiche, con combinazioni varie di nazionalizzazioni,
sistemi pubblici d’istruzione e di assistenza sanitaria, e imposte fortemente
progressive sugli alti redditi e sui grandi patrimoni. Gli imperi coloniali
saranno di lì a poco smantellati.
Se
osserviamo le diverse situazioni all’interno dell’Europa, scopriamo che tutti i
paesi per i quali esistono dati disponibili registrano un crollo delle
disuguaglianze tra il 1914 e il 1945-1950.
I grandi
patrimoni vengono distrutti, espropriati, o subiscono gli effetti
dell’inflazione. Vengono attuati prelievi eccezionali e progressivi sui
capitali. Inoltre, “per la prima volta nella storia, e quasi negli stessi anni
in tutti i paesi, le aliquote applicate ai redditi più alti e alle successioni
più importanti raggiunsero livelli consistenti e stabili nel tempo, nell’ordine
di alcune decine di punti percentuali”. Ma non solo.
All’inizio
degli anni cinquanta del secolo scorso, in Europa, gli elementi fondanti dello
Stato sociale erano già in essere, con entrate totali superiori al 30% del
reddito nazionale e un programma diversificato di spese sociali e per
l’istruzione che assorbivano i due terzi del totale, in sostituzione delle
spese sovrane che un tempo avevano la parte del leone. Questa spettacolare
evoluzione è stata possibile solo dopo un radicale mutamento dei rapporti di
forza politico-ideologici negli anni 1910-1950, in un contesto nel quale
guerre, crisi e rivoluzioni denunciavano in modo plateale i limiti del mercato
autoregolamentato e la necessità di integrazione nel sociale dell’economia.
Lo stallo
degli investimenti in materia di istruzione registrato nei paesi ricchi a partire
dagli anni ottanta-novanta del secolo scorso può spiegare non solo l’aumento
delle disuguaglianze, ma anche il rallentamento della crescita.
A partire dagli anni ottanta, la speranza in un mondo più giusto e i
progetti di trasformazione anche radicale si sono di fatto dovuti scontrare con
il triste bilancio del comunismo sovietico (e le sue disuguaglianze fondate non
sul patrimonio, ma su status e conseguenti privilegi) e con il disincanto.
A partire dagli anni novanta, un mondo iperconnesso e legato da un’infinità
di relazioni fa da riscontro a una società ipercapitalista. Le disuguaglianze
assumono forme anche nuove: per esempio, la disparità nelle emissioni di
anidride carbonica. Gli stati competono anche in termini di concorrenza
fiscale. I patrimoni non sono solo più concentrati, sono anche più opachi.
Le strutture sociali continuano ad avere una forte impostazione
patriarcale, e le disuguaglianze di genere non si sono certo risolte.
“L’ideologia meritocratica dell’attuale narrazione sociale si accompagna a una
glorificazione di imprenditori e miliardari”, che sono “così presenti
nell’immaginario contemporaneo da essere anche entrati con ruoli di spicco nel
romanzo e nella finzione”.
Infine: le classi popolari, che in precedenza si riconoscevano nei partiti
comunisti, socialisti, laburisti, socialdemocratici che componevano la sinistra
elettorale, si sono ritrovate deluse dall’incapacità di quei partiti di
promuovere programmi convincenti a proposito di istruzione, fisco, politiche
internazionali.
Oggi “i partiti e i movimenti politici della sinistra sono diventati quelli
maggiormente votati dagli elettori più istruiti e – in alcuni contesti – stanno
per diventare i partiti con gli elettori più ricchi in termini di reddito e di
patrimonio”.
Se il conflitto politico degli anni 1950-1980 era “classista”, ora siamo in
uno spazio politico complesso, e in un sistema di “élite multiple”, distinte
per istruzione, o per reddito e patrimonio.
È una trasformazione radicale, che ricorre in tutte le democrazie, e che
porta a ridefinire le categorie stesse di “sinistra” e “destra”, e a trascurare
il tema cruciale della redistribuzione del reddito.
“La sinistra, che era il ‘partito dei lavoratori’, si è trasformata nel
‘partito dei laureati’ (che propongo di chiamare la ‘sinistra intellettuale
benestante’), senza averlo di fatto voluto e senza che nessuno l’abbia
veramente deciso”.
In sostanza, sembra essere “il partito dei vincitori della
globalizzazione”. E le classi popolari? Be’, quelle si ritirano dalla
competizione politica e non vanno a votare.
‘Sinistra
intellettuale benestante’ e ‘destra mercantile‘ incarnano valori ed esperienze
in qualche modo complementari. E condividono anche non pochi tratti comuni, a
cominciare da una certa dose di ‘conservatorismo’ di fronte all’odierna
situazione di disuguaglianza. La sinistra crede nell’impegno e nel merito nello
studio; la destra, nell’impegno e nel merito negli affari. La sinistra si
prefigge l’acquisizione di titoli di studio, di sapere e di capitale umano; la
destra, l’accumulazione di capitale monetario e finanziario. Possono anche
presentare delle divergenze su alcuni punti. La ‘sinistra intellettuale
benestante’ può volere più imposte, rispetto alla ‘destra mercantile’, per
esempio al fine di finanziare i licei, le grandes écoles e
le istituzioni culturali e artistiche a cui è legata. Ma entrambe le parti
condividono una netta adesione al sistema economico attuale e alla
globalizzazione nel suo assetto attuale, che di fatto avvantaggiano sia le
élite intellettuali sia quelle economiche e finanziarie.
Se alla sinistra intellettuale e alla destra pro-mercato si affiancano una
sinistra più “radicale” e una destra nativista e nazionalista, ecco che abbiamo
l’attuale sistema del confronto politico, che si identifica secondo le due
discriminanti principali della tutela della proprietà e dei confini: sono
quattro blocchi ideologici, ciascuno dei quali è contraddistinto da una propria
narrativa, a cui si aggiunge il quinto di chi non va a votare.
Le traiettorie di sviluppo, a partire da questa situazione instabile, sono
numerose, e comprendono il possibile, ed “enormemente dannoso” successo elettorale dei
‘nazionalisti’, soprattutto se questi riusciranno a sviluppare una forma di
socialnativismo, vale a dire un’ideologia che abbina obiettivi sociali ed
egualitari, ma riservati ai soli ‘nativi’, a forme violente di esclusione nei
confronti dei ‘non nativi’.
Solo con la
riapertura del dibattito sulla giustizia e sul modello economico conseguente si
potrà fare in modo che il tema fondamentale della proprietà e della
disuguaglianza prenda il sopravvento sulle questioni dei confini e
dell’identità.
Il punto
essenziale consiste nell’istituire uno spazio di deliberazione e di decisione
democratica che consenta di adottare a livello europeo dispositivi efficaci di
giustizia fiscale, sociale e climatica.
Il caso di
Israele offre probabilmente l’esempio più estremo di democrazia elettorale in
cui il conflitto identitario ha preso il sopravvento su tutte le altre
dimensioni.
Il problema
delle relazioni con il popolo palestinese e con gli arabi israeliani è
diventato quasi l’unica questione politica significativa.
Nel periodo
1950-1980, il partito laburista israeliano aveva un ruolo centrale nel sistema
dei partiti e promuoveva la riduzione delle disuguaglianze socioeconomiche e lo
sviluppo di forme cooperative originali. Ma, non avendo saputo elaborare in
tempo una soluzione politica praticabile e adatta alle comunità umane in gioco
– soluzione che avrebbe implicato la creazione di uno Stato palestinese o lo
sviluppo di una forma originale di Stato federale binazionale –, il partito
laburista oggi è quasi scomparso dal panorama elettorale israeliano, e ha
lasciato il campo a lotte senza fine tra fazioni interessate solo alle
questioni securitarie.
Piketty sostiene che oggi la disuguaglianza estrema deprime lo sviluppo, e
delinea un nuovo “socialismo partecipativo”: bisogna tornare a usare la leva
fiscale (reddito, patrimonio o successioni) secondo una regolamentazione al
livello sovranazionale.
Le imprese devono essere cogestite (esistono già diversi esempi europei).
Un fisco più equo deve finanziare la riconversione ecologica, un reddito
universale di base e una dotazione universale di capitale, che ogni cittadino
riceve al compimento dei 25 anni. L’accesso universale e paritario
all’istruzione, che è cruciale, deve essere non solo promosso, ma garantito.
Insomma: la proprietà privata rimane (e deve rimanere) ma il suo impatto viene
mitigato dalla presenza di forti meccanismi redistributivi. E, soprattutto, non
è un diritto permanente ed ereditario. Tutto ciò sembra essere, tra l’altro,
una condizione necessaria, anche se non ancora sufficiente, per poter
contrastare con efficacia il cambiamento climatico.
Si tratta di
proposte che potrebbero sembrare radicali, ma in realtà sono in linea con
un’evoluzione iniziata alla fine del diciannovesimo secolo e all’inizio del
ventesimo, per quanto riguarda sia la condivisione del potere nelle imprese,
sia l’aumento della tassazione progressiva. Questa dinamica evolutiva si è
interrotta negli ultimi decenni, da un lato perché la socialdemocrazia non è
stata in grado di rinnovare e internazionalizzare il suo progetto; dall’altro
perché il drammatico fallimento del comunismo di stile sovietico ha inaugurato in
tutto il mondo, a partire dagli anni ottanta e novanta del secolo scorso, una
fase di deregolamentazione incontrollata e di rinuncia a ogni ambizione
egualitaria (della quale la Russia attuale e i suoi oligarchi costituiscono
senza dubbio il caso più estremo).
Come ci si arriva, senza che il mondo esploda? Piketty non è troppo
esplicito su questo punto ma, nelle conclusioni, riformula l’affermazione che
Marx ed Engels fanno nel Manifesto (la
storia di ogni società è stata fino a oggi solo la storia della lotta di
classe) in questi termini: “La storia di ogni società è stata fino a oggi solo
la storia della lotta delle ideologie e della ricerca di giustizia”.
Ha ripetuto mille volte che molteplici traiettorie, segnate da infinite
biforcazioni, sono sempre possibili. E ora invita i mezzi d’informazione e i
cittadini a formarsi un’opinione indipendente, senza dar troppo retta agli
economisti.
Questa sintesi è il mio contributo per voi.
In questi tempi di somma incertezza politica, economica e sociale, speriamo
solo, tutti quanti, di saper capire in tempo quali sono la traiettoria e la
biforcazione giusta. Forse non sono esattamente quelle indicate da Piketty, ma
vale di sicuro la pena di parlarne e di cominciare, proprio a partire da
cambiamento climatico e contrasto alle disuguaglianze, a farsi qualche domanda.
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