Se dovessi scrivere un horror distopico sul futuro post pandemico,
immaginerei un grande teatro con una platea fatta di biglietti omaggio e di
scarso pubblico pagante dove, su un palco vuoto di luci, scene e attori, uno
scrittore o un giornalista raccontano i relativamente interessanti cazzi loro
in un monologo mal letto. E alla fine, il ministro o l’assessore di turno
applaudono commentando soddisfatti: “Ecco come siamo riusciti a fare rinascere
il teatro italiano”.
Non so se il noto e bravo regista sardo Lelio Lecis condivida questo incubo. Però mi è sembrato abbastanza preoccupato per come la ripresa del suo settore si stia configurando in Sardegna: “Ai vecchi problemi si aggiungono i nuovi e la miscela è venefica”.
Lecis, oltre che tra i padri costituenti di Akroama, la compagnia di Cagliari che è uno dei più bei fabbricatori di teatro italiani, è il responsabile del settore teatro dell’Agis sarda. Il messaggio al grande pubblico di questo settore fondamentale nella produzione di cultura è sostanzialmente così: le immense difficoltà della ripresa del teatro dopo il disastro economico provocato dal blocco proprio nel periodo dell’anno in cui si vendono più biglietti e i mille lacci di distanziamenti, uscite, disinfezione e ogni altra misura anti virus, rischiano di chiudere per sempre molti dei sipari sardi, aiutateci quindi a convincere la Regione a fare in fretta se vuole salvare lo spettacolo.
Il problema, spiega, non è adesso il quanto ma il quando. I sette milioni stanziati a Cagliari per il settore non sono molti, la promessa è di farli arrivare almeno a nove, ma il fatto è che bisogna assolutamente concedere subito almeno ciò che si è promesso. La rapidità nell’erogazione dei fondi, in questo momento, è fondamentale per evitare il tracollo. Le tante compagnie sarde hanno già perso un mucchio di soldi, molte sono a rischio di scioglimento, quasi tutte cercano di resistere alla china di un forte ridimensionamento. La ripresa estiva si presenta difficilissima. Inoltre il teatro all’aperto, quello tipico dell’estate e ancora più di questa estate post peste, era già un’impresa da eroi e navigatori tra i bizantinismi delle regole e regolette dopo i fatti di Torino e il decreto Gabrielli, ora con le nuove restrizioni sarà ancora più tragico.
La prima soluzione è quindi quella di mettere rapidamente le compagnie in condizioni di lavorare rendendo più rapidi gli ingranaggi della burocrazia regionale che azionano l’emissione dei finanziamenti.
C’è ancora il terrore del virus, più o meno giustificata, commenta Lecis, cita Buzzati: la gente, come nella fortezza Bastiani del “Deserto dei Tartari” attende immobile un nemico che forse non arriverà mai.
Ma come ridare fiducia a queste platee spaventate se non si può mostrare la sicurezza e la qualità di un’organizzazione teatrale sarda bene supportata dalla Regione Sardegna?
Lecis sembra abbastanza fiduciosa della “volontà politica”, teme soprattutto la burocrazia, quindi. Sarebbe già utile– dice – se per ogni pratica ci si accontentasse delle autocertificazioni, nelle quali comunque non si può mentire se non rischiando fior di condanne penali.
Lecis ha ragione ma ritengo che sia anche un problema di fondo. In Italia – e in Sardegna – la cultura viene sempre meno considerata un servizio fondamentale e nell’ambito di questa categoria cenerentola il teatro è ultimo degli ultimi. Eppure l’attenzione popolare verso il palcoscenico è molto viva dappertutto. Non è neppure un problema di classe politica che asseconda gli umori senza guidarli, come avviene in altri ambiti nell’era del populismo. Al contrario, molta gente vuole andare a teatro, quando glielo si offre, e i dati nazionali e sardi sui biglietti venduti testimoniano in questo senso. Ma a fronte di un pubblico le cui dimensioni rispecchiano più o meno quelle dei pubblici di altre parte d’Europa, i finanziamenti dello Stato e degli enti locali sono infinitamente più bassi. E, nella dimensione Italia, il teatro sardo è a sua volta dimenticato rispetto a quello di molte altre parti del Paese. Lecis cita il comune brianzolo di Vimercate dove il settore è sostenuto con tre milioni di euro annui: a Cagliari, “leggermente” più grande, con 800.000 euro e a Sassari, naturalmente, con ancora meno. E questo della disparità di trattamento tra Sassari e Cagliari nell’erogazione dei fondi per lo spettacolo è un altro dei capitoli di questo tartassato settore, ancora più spettinato da queste discrasie finanziarie che generano malumori di campanile tanto più dannosi in una categoria alta qual è quella della cultura.
La richiesta urgente e cogente è quindi quella della spendita totale e immediata dei soldi stanziati e non ancora erogati. Ma restano aperti mille altri problemi di questa ripresa estiva, non ultimo dei quali l’incertezza e i ritardi nell’individuazione degli spazi. Basti l’esempio di Sassari, dove l’iniziativa dell’assessora comunale alla Cultura Rosanna Arru per una rapida risalita sui palcoscenici viene rallentata, anche in questo caso, da un milione di problemi burocratici sull’utilizzo dei siti, vane complicazioni che possono essere travolte soltanto da una decisa iniziativa politica.
La Cultura, quindi, che Tremonti aveva definito una cosa che non si mangia, provocando rovine politico culturali che hanno attraversato anche altri governi non di destra come il suo, è una delle vittime principali anche di questo contagio. Il teatro e lo spettacolo dal vivo in genere potrebbero non riprendersi se la classe politica non capirà che questo è uno dei settori più produttivi e importanti del nostro Paese e della nostra regione. Ogni cosa, adesso, senza soldi, diventa più difficile. Ciascuno dei settori dello spettacolo, prosa, danza,lirica, musica sinfonica, ha problemi diversi che diversamente incidono sulle regole che vorrebbero gli attori in mascherina. Dal Nabucco si taglierà “Va pensiero” perché gli assembramenti sono proibiti? Dal “Ballo in maschera” si cancellerà la scena appunto del ballo in maschera che prevede varie decine di artisti tra solisti, coristi, danzatori e comparse? I “Sei personaggi in cerca di autore” diventeranno due perché in tanti sul palco non ci possono stare? Magari, finito di ridere, a questi problemi si ovvierà, ma senza finanziamenti rapidi diventeranno insormontabili. Il problema è che qui come nel resto d’Italia c’è una grande voglia di buon teatro e insieme una sua sottovalutazione da parte della politica. Il teatro, certo, ha i suoi peccati. C’è la tendenza di molti autori moderni di scrivere non più per il grande pubblico ma per gli intellettuali di riferimento e soprattutto per certi critici e alcune compagnie accettano e producono testi interessanti e coinvolgenti quanto un iban pur di entrare nelle logiche di finanziamento da parte di gruppi di potere molto attenti al politically correct e ai suoi esponenti. La carenza di soldi ha portato all’invenzione di forme di teatro che prevedano poca folla sul palcoscenico, anche prima che lo si vietasse per motivi di covid. Una commedia con dieci attori viene considerata un lusso. Se un autore la scrive sa che difficilmente sarà rappresentata. Quelle già scritte vengono messe in scena con la copertura “intellettuale” delle audaci riscritture di geniali registi il cui scopo è in realtà soltanto quello di risparmiare impoverendo il numero dei personaggi e quindi degli interpreti. Fra un po’ nella scespiriana “Eccellentissima e tristissima tragedia di Romeo e Giulietta” compariranno in scena soltanto i due eroi eponimi, nelle versioni più audaci, osannate da certa critica, soltanto uno dei due. Magari alternandosi tra donna e uomo e dividendosi il compenso.
Il monologo inteso come spettacolo unico, dall’inizio alla fine della serata, con la fortunata necessità di una sola persona in scena, è la forma teatrale preferita dai risparmiatori, spesso dimenticando che, se a dirlo non è un professionista con tutte le carte in regola, lo stesso monologo rischia di essere una delle forme più pallose di spettacolo. Eppure, nonostante tutto, le compagnie resistono presentando buon teatro e secondo il rapporto di Federcultura la prosa negli ultimi dieci anni ha avuto un incremento di pubblico del 18 per cento. Se scomparirà o se verrà ridimensionata, quindi, la gente infine chiamerà la politica a risponderne, quella politica che dovrebbe proporre idee e programmi colti, popolari e anche economicamente produttivi. Basti ricordare il grande assessore Renato Nicolini, che risollevò con il suo “effimero” (mai si è visto un effimero così perenne e glorioso) il comune della capitale da una grave crisi politica e finanziaria, creando un modello di moderno mecenatismo dell’ente pubblico che purtroppo ora viene abbandonato.
Non si può affidare un settore fondamentale della vita sociale a dilettanti o pretendere che venga mantenuto per gentile omaggio. Per il teatro occorrono soldi, ma possiamo stare certi che torneranno tutti indietro e con ampi guadagni non soltanto sul piano della crescita culturale, di per sé un dovere fondamentale di Stati, amministrazioni pubbliche e classi dirigenti, ma anche su quello economico. Ma deve finire la concezione di teatro che ha creato lo sketch amaro che, da molti anni, circola tra le quinte
-Lei cosa fa?
-Faccio l’attore.
-No, volevo dire di mestiere.
da qui
Non so se il noto e bravo regista sardo Lelio Lecis condivida questo incubo. Però mi è sembrato abbastanza preoccupato per come la ripresa del suo settore si stia configurando in Sardegna: “Ai vecchi problemi si aggiungono i nuovi e la miscela è venefica”.
Lecis, oltre che tra i padri costituenti di Akroama, la compagnia di Cagliari che è uno dei più bei fabbricatori di teatro italiani, è il responsabile del settore teatro dell’Agis sarda. Il messaggio al grande pubblico di questo settore fondamentale nella produzione di cultura è sostanzialmente così: le immense difficoltà della ripresa del teatro dopo il disastro economico provocato dal blocco proprio nel periodo dell’anno in cui si vendono più biglietti e i mille lacci di distanziamenti, uscite, disinfezione e ogni altra misura anti virus, rischiano di chiudere per sempre molti dei sipari sardi, aiutateci quindi a convincere la Regione a fare in fretta se vuole salvare lo spettacolo.
Il problema, spiega, non è adesso il quanto ma il quando. I sette milioni stanziati a Cagliari per il settore non sono molti, la promessa è di farli arrivare almeno a nove, ma il fatto è che bisogna assolutamente concedere subito almeno ciò che si è promesso. La rapidità nell’erogazione dei fondi, in questo momento, è fondamentale per evitare il tracollo. Le tante compagnie sarde hanno già perso un mucchio di soldi, molte sono a rischio di scioglimento, quasi tutte cercano di resistere alla china di un forte ridimensionamento. La ripresa estiva si presenta difficilissima. Inoltre il teatro all’aperto, quello tipico dell’estate e ancora più di questa estate post peste, era già un’impresa da eroi e navigatori tra i bizantinismi delle regole e regolette dopo i fatti di Torino e il decreto Gabrielli, ora con le nuove restrizioni sarà ancora più tragico.
La prima soluzione è quindi quella di mettere rapidamente le compagnie in condizioni di lavorare rendendo più rapidi gli ingranaggi della burocrazia regionale che azionano l’emissione dei finanziamenti.
C’è ancora il terrore del virus, più o meno giustificata, commenta Lecis, cita Buzzati: la gente, come nella fortezza Bastiani del “Deserto dei Tartari” attende immobile un nemico che forse non arriverà mai.
Ma come ridare fiducia a queste platee spaventate se non si può mostrare la sicurezza e la qualità di un’organizzazione teatrale sarda bene supportata dalla Regione Sardegna?
Lecis sembra abbastanza fiduciosa della “volontà politica”, teme soprattutto la burocrazia, quindi. Sarebbe già utile– dice – se per ogni pratica ci si accontentasse delle autocertificazioni, nelle quali comunque non si può mentire se non rischiando fior di condanne penali.
Lecis ha ragione ma ritengo che sia anche un problema di fondo. In Italia – e in Sardegna – la cultura viene sempre meno considerata un servizio fondamentale e nell’ambito di questa categoria cenerentola il teatro è ultimo degli ultimi. Eppure l’attenzione popolare verso il palcoscenico è molto viva dappertutto. Non è neppure un problema di classe politica che asseconda gli umori senza guidarli, come avviene in altri ambiti nell’era del populismo. Al contrario, molta gente vuole andare a teatro, quando glielo si offre, e i dati nazionali e sardi sui biglietti venduti testimoniano in questo senso. Ma a fronte di un pubblico le cui dimensioni rispecchiano più o meno quelle dei pubblici di altre parte d’Europa, i finanziamenti dello Stato e degli enti locali sono infinitamente più bassi. E, nella dimensione Italia, il teatro sardo è a sua volta dimenticato rispetto a quello di molte altre parti del Paese. Lecis cita il comune brianzolo di Vimercate dove il settore è sostenuto con tre milioni di euro annui: a Cagliari, “leggermente” più grande, con 800.000 euro e a Sassari, naturalmente, con ancora meno. E questo della disparità di trattamento tra Sassari e Cagliari nell’erogazione dei fondi per lo spettacolo è un altro dei capitoli di questo tartassato settore, ancora più spettinato da queste discrasie finanziarie che generano malumori di campanile tanto più dannosi in una categoria alta qual è quella della cultura.
La richiesta urgente e cogente è quindi quella della spendita totale e immediata dei soldi stanziati e non ancora erogati. Ma restano aperti mille altri problemi di questa ripresa estiva, non ultimo dei quali l’incertezza e i ritardi nell’individuazione degli spazi. Basti l’esempio di Sassari, dove l’iniziativa dell’assessora comunale alla Cultura Rosanna Arru per una rapida risalita sui palcoscenici viene rallentata, anche in questo caso, da un milione di problemi burocratici sull’utilizzo dei siti, vane complicazioni che possono essere travolte soltanto da una decisa iniziativa politica.
La Cultura, quindi, che Tremonti aveva definito una cosa che non si mangia, provocando rovine politico culturali che hanno attraversato anche altri governi non di destra come il suo, è una delle vittime principali anche di questo contagio. Il teatro e lo spettacolo dal vivo in genere potrebbero non riprendersi se la classe politica non capirà che questo è uno dei settori più produttivi e importanti del nostro Paese e della nostra regione. Ogni cosa, adesso, senza soldi, diventa più difficile. Ciascuno dei settori dello spettacolo, prosa, danza,lirica, musica sinfonica, ha problemi diversi che diversamente incidono sulle regole che vorrebbero gli attori in mascherina. Dal Nabucco si taglierà “Va pensiero” perché gli assembramenti sono proibiti? Dal “Ballo in maschera” si cancellerà la scena appunto del ballo in maschera che prevede varie decine di artisti tra solisti, coristi, danzatori e comparse? I “Sei personaggi in cerca di autore” diventeranno due perché in tanti sul palco non ci possono stare? Magari, finito di ridere, a questi problemi si ovvierà, ma senza finanziamenti rapidi diventeranno insormontabili. Il problema è che qui come nel resto d’Italia c’è una grande voglia di buon teatro e insieme una sua sottovalutazione da parte della politica. Il teatro, certo, ha i suoi peccati. C’è la tendenza di molti autori moderni di scrivere non più per il grande pubblico ma per gli intellettuali di riferimento e soprattutto per certi critici e alcune compagnie accettano e producono testi interessanti e coinvolgenti quanto un iban pur di entrare nelle logiche di finanziamento da parte di gruppi di potere molto attenti al politically correct e ai suoi esponenti. La carenza di soldi ha portato all’invenzione di forme di teatro che prevedano poca folla sul palcoscenico, anche prima che lo si vietasse per motivi di covid. Una commedia con dieci attori viene considerata un lusso. Se un autore la scrive sa che difficilmente sarà rappresentata. Quelle già scritte vengono messe in scena con la copertura “intellettuale” delle audaci riscritture di geniali registi il cui scopo è in realtà soltanto quello di risparmiare impoverendo il numero dei personaggi e quindi degli interpreti. Fra un po’ nella scespiriana “Eccellentissima e tristissima tragedia di Romeo e Giulietta” compariranno in scena soltanto i due eroi eponimi, nelle versioni più audaci, osannate da certa critica, soltanto uno dei due. Magari alternandosi tra donna e uomo e dividendosi il compenso.
Il monologo inteso come spettacolo unico, dall’inizio alla fine della serata, con la fortunata necessità di una sola persona in scena, è la forma teatrale preferita dai risparmiatori, spesso dimenticando che, se a dirlo non è un professionista con tutte le carte in regola, lo stesso monologo rischia di essere una delle forme più pallose di spettacolo. Eppure, nonostante tutto, le compagnie resistono presentando buon teatro e secondo il rapporto di Federcultura la prosa negli ultimi dieci anni ha avuto un incremento di pubblico del 18 per cento. Se scomparirà o se verrà ridimensionata, quindi, la gente infine chiamerà la politica a risponderne, quella politica che dovrebbe proporre idee e programmi colti, popolari e anche economicamente produttivi. Basti ricordare il grande assessore Renato Nicolini, che risollevò con il suo “effimero” (mai si è visto un effimero così perenne e glorioso) il comune della capitale da una grave crisi politica e finanziaria, creando un modello di moderno mecenatismo dell’ente pubblico che purtroppo ora viene abbandonato.
Non si può affidare un settore fondamentale della vita sociale a dilettanti o pretendere che venga mantenuto per gentile omaggio. Per il teatro occorrono soldi, ma possiamo stare certi che torneranno tutti indietro e con ampi guadagni non soltanto sul piano della crescita culturale, di per sé un dovere fondamentale di Stati, amministrazioni pubbliche e classi dirigenti, ma anche su quello economico. Ma deve finire la concezione di teatro che ha creato lo sketch amaro che, da molti anni, circola tra le quinte
-Lei cosa fa?
-Faccio l’attore.
-No, volevo dire di mestiere.
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