Bisognerebbe sinceramente ringraziare il manager Vittorio Colao che, in mesi di duro lavoro nella clausura del suo loft nella city londinese, ha prodotto un piano per la rinascita dell’Italia chiaro, netto, senza fronzoli più del necessario e comprensibile a tutti.
Un piano che ha un grande pregio: se, come tutti hanno affermato, la drammatica esperienza della pandemia rappresenta un monito e uno stimolo a rimettere in discussione un modello economico e sociale che ha dimostrato di non garantire protezione ad alcuno, il piano Colao è la summa di tutto ciò che NON si dovrebbe fare.
A tutti quelli che in questi mesi da una corsia di ospedale, da un reparto di produzione, da una consegna dettata da un algoritmo, da un portone di scuola sbarrato, dalla solitudine di una finestra hanno gridato “Mai più come prima!”, il pool di manager ha detto a chiare lettere non solo che tutto sarà “come prima, più di prima!”, ma che sulla destinazione delle risorse non faranno prigionieri.
Nei suoi sei paragrafi e 121 progetti concreti, il piano Colao è attraversato da due chiavi di lettura inequivocabili.
La prima è l’identificazione della società con l’impresa, per cui sono gli utili di quest’ultima a determinare il benessere della prima. Da questo punto di vista, l’elenco di provvedimenti finanziari, fiscali e normativi proposti per liberare le imprese dai cosiddetti “lacci e lacciuoli” è sterminato.
Si va dalla “sburocratizzazione” della pubblica amministrazione, con la proposta di abolizione del codice degli appalti (un primo passo verso la legalizzazione delle mafie?) alla totale deregolamentazione dei contratti e delle condizioni di lavoro (imprenditori e lavoratori sono o non sono entrambi parte dell’Azienda Italia?) ; dagli aiuti finanziari a totale carico dello Stato (è chiaro chi pagherà l’ulteriore aumento del debito pubblico?) all’azzeramento di ogni contributo fiscale delle imprese alla collettività (si sa, gli imprenditori sono illuminati solo se sono gli altri a pagare la bolletta della luce). A dimostrazione che nessun dettaglio è stato trascurato, basti pensare che, fra le proposte, si chiede la defiscalizzazione delle indennità per turni aggiuntivi o per lavoro notturno e festivo.
La seconda chiave di lettura è l’identificazione della rinascita con l’idea del “grande e competitivo è bello”. Il piano è un profluvio di lodi alle grandi opere digitali (5G) e materiali (Tav, Tap, chi più ne ha più ne metta, fino al Ponte sullo Stretto), per la realizzazioni delle quali va tuttavia superata la notoria resistenza delle comunità territoriali: ecco allora la proposta di “leggi o protocolli nazionali di realizzazione non opponibili da enti locali”.
Certo che no, fino a citare espressamente la necessità di modernizzare (leggi: privatizzare) l’acquedotto pugliese, il più grande d’Europa.
Dal gigantismo non si sottraggono neppure le piccole e medie imprese, perché la proposta del piano Colao è di destinare la gran parte delle risorse disponibili alle grandi aziende multinazionali, che potranno, grazie alla proposta di modifica della legge sui fallimenti, assorbire le piccole maggiormente remunerative, lasciando al naufragio tutte le altre.
Molto si potrebbe aggiungere, ma bastano due definizioni per condensare l’humus che fertilizza il piano: dentro il contesto di rinascita dell’economia, l’ambiente diventa un “volano per il rilancio”, mentre l’arte e la cultura costituiscono un “brand del Paese”.
Se la pandemia ci ha posto di fronte alla necessità di scelte radicali di fuoriuscita dal modello capitalistico per costruire collettivamente una società diversa, basata sulla cura di sé, degli altri e dell’ambiente, il piano Colao ci proietta dentro la riproposizione in salsa autoritaria della società fondata sull’ideologia del profitto.
Non sappiamo se e quanta parte di questo piano verrà assunta dal governo come linea guida delle scelte politiche di risposta all’emergenza sanitaria, economica e sociale.
Un’idea la vorremmo suggerire: cestinare il piano senza se e senza ma, rispedirne l’autore al suo soggiorno londinese. Se così non sarà, dovranno essere le piazze d’autunno a porre con determinazione il problema.
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