La violenza sulle donne nere, oltre a Montanelli
Non è un caso sapere che il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha rifiutato di
rimuovere la statua dell’giornalista fascista Indro Montanelli, affermando che
“noi tutti facciamo degli errori”, perché è sempre stato un'ipocrita
antirazzista, oppure il commento di Di Maio pubblicato
su giornale la Repubblica: “Nessuno ha il diritto di
rimuoverla” e altri vergognosi commenti fatti da giornalisti su questo
caso senza sollevare il motivo per cui le donne chiedono la rimozione della
statua.
Ciò che mi stupisce è lo Stato che rifiuta di accogliere l’occasione di
rimediare i suoi crimini e riconoscere le infinite violenze commesse sulle
donne nere durante la colonizzazione in Africa. Solo pochi giorni fa, sono
state organizzate delle proteste in alcune città italiane contro il razzismo
sistematico negli Stati Uniti e l’indignazione dei politici italiani ma senza
indignarsi di ciò che succede in Italia. Il fatto che la storia di Desta — una
ragazzina eritrea di 12 anni comprata da Montanelli per farne sua moglie, all’epoca
del colonialismo in Africa — viene considerato come un caso estraneo o un
problema di Montanelli e non dello Stato in sè.
Il comportamento degli italiani nello scenario coloniale è stato
caratterizzato da violenze sessuali atroci, crimini e sopraffazione che ha
causato dei danni psicologici difficili da rimediare. L’utilizzo di razzismo,
classe e violenza di genere come metodi di oppressione che fino ad oggi si
riflette nella società e sulla percezione della donna nera. Esattamente quello
che è accaduto alla bambina eritrea Desta che è soltanto una tra un
milione di altre donne violentate.
Un triplice stigmatizzazione, il risultato del patriarcato coloniale
razzista che, attraverso metodi violenti, aveva messo in atto questa, fino alla
sua ‘istituzionalizzazione” che ancora relega la donna nera al gradino più
basso della scala sociale e alla demoralizzazione e disumanizzazione.
La sistematicità della violenza sessuale nel contesto coloniale italiano,
non ha soltanto distrutto l’integrità sessuale delle donne nere, ma ha anche
portato alla costruzione di stereotipi fortemente sessisti e razzisti, che
hanno provocato una svalutazione della “black-womanhood” e “femminilità” nella
società italiana contemporanea, favorendo la cristallizzazione dell’immagine
della donna nera come sessualmente permissiva, selvaggia, servile, passiva,
matriarca castrante e dissoluta. Un metodo di controllo del patriarcato
capitalista bianco sullo statuto sociale delle donne nere che continuiamo a
rivedere nella nostra vita quotidiana e di cui noi donne nere siamo costrette a
convivere.
Tuttavia, i passi compiuti negli ultimi decenni per raccogliere
informazioni sulle violenze di genere per merito degli storici, restano molte
lacune nella ricostruzione di quanto realmente successo, sia per le resistenze
ancora presenti a rinunciare a un’immagine positiva della colonizzazione
italiana, sia per la precisa volontà di occultare l’opera di repressione. Non
solo molte fonti archivistiche sono tuttora indisponibili, ma negli archivi
ministeriali e militari la documentazione concernente molti dei fatti indicati
è scarsa perché dell’argomento si parlava e si scriveva il meno possibile. Un
ferreo sistema di censura impediva all’opinione pubblica italiana e
internazionale di conoscere ciò che veniva perpetrato nelle colonie. In tale
scenario, uno degli aspetti su cui è più difficile reperire informazioni è la
violenza subita dalle donne africane, nonostante negli ultimi anni siano
comparsi alcuni preziosi lavori che si soffermano, in un’ottica di genere,
sulla condizione femminile nell’Africa occupata dagli italiani (Barrera, 1996,
2002; Poidimani, 2006; Srgoni, 1998, 2001; Stefani, 2007).
Tali lavori analizzano soprattutto due versanti: la rappresentazione delle
donne nell’ immaginario culturale degli italiani e le relazioni sessuali tra
donne africane e colonizzatori italiani. Per quanto riguarda il
primo aspetto, gli studi sottolineano come gli italiani, almeno fino al momento
della conquista dell’Etiopia, fossero in linea con la “porno-tropics
tradition” (McClintock, 1995), imperniata sulla metafora della Venere
nera, che riduceva l’immagine della donna africana alle sole dimensioni
dell’esotismo e dell’erotismo. Alla donna nera veniva riconosciuta come unica
identità quella sessuale. Ne derivava una sorta di “harem coloniale” (Alloula,
1986; si veda anche Gautier, 2003) che aveva la funzione di rendere
desiderabile ai lavoratori italiani il trasferimento nelle colonie. Dopo la
fondazione dell’impero, quando l’accento fu posto sulla lotta al meticciato, il
regime mise la sordina a questa raffigurazione. L’immagine della Venere nera fu
sostituita da rappresentazioni di tipo etnografico, che ponevano in risalto
tratti fisici ritenuti segno di inferiorità, allo scopo di riaffermare la
“naturale” superiorità degli europei e la legittimità della loro
colonizzazione. Per quanto riguarda il secondo aspetto — le relazioni
sessuali tra donne africane e colonizzatori italiani — fin dal lavoro
pionieristico di Gabriella Campassi (1983), nel quale il possesso del
corpo dei sudditi delle colonie era interpretato come metafora del possesso
territoriale, gli studi hanno dedicato molto spazio ai rapporti di
“Madamato” (“relazione temporanea, ma non occasionale tra un cittadino e una
suddita indigena”, S rgoni, 1998, pag. 74), che connotano tutta la prima fase
dell’occupazione italiana, fino alla brusca rottura operata dalla politica
fascista in concomitanza con la proclamazione dell’impero.
Da quel momento vennero implementati una serie di dispositivi giuridici
miranti a controllare il comportamento di italiani e “sudditi” per riaffermare
il prestigio dei bianchi. Furono vietate le relazioni coniugali ed
extraconiugali tra “razze” diverse, proibita la legittimazione e l’adozione di
figli nati dall’unione di “cittadini” con “sudditi”, instaurata una capillare
segregazione razziale. I “meticci” furono ricacciati nella comunità indigena e
ogni istituzione precedentemente creata per la loro assistenza fu posta fuori
legge. Obiettivo di tali misure era la volontà di rafforzare la
piramide etnica e di non consentire, al suo interno, alcuna “zona grigia”, per
garantire alla “razza italiana” un posto di spicco tra i colonizzatori.
La delegittimazione della loro immagine, la costrizione nelle pratiche di
madamato e prostituzione non furono per le sole violenze alle quali le donne
africane furono sottoposte. Con anziani e bambini, perirono nei massacri, nella
guerra con i gas, nell’incendio di interi villaggi, furono deportate in campi
che meritano la denominazione di sterminio più che di concentramento. Come è
noto, fu proprio sullo scenario coloniale che furono messe a punto quelle
tecniche di violenza contro i civili impiegate poi in tutti i conflitti del
Novecento.
Sia nella memorialistica, sia nella letteratura storica, per i riferimenti
alle violenze contro le donne nere sono sempre episodici, le vittime femminili
vengono citate a margine, mancano studi che facciano luce sulle vicende che le
riguardano. Tuttavia, alcune testimonianze sui campi di concentramento in Libia
e nel Corno d’Africa fanno cenno alla condizione femminile. Nelle duemila
pagine del diario, il colonnello Eugenio Mazzucchetti descrive le condizioni di
donne e bambini, detenuti in tende “stracciate e scosse dal vento”, condizioni
che causarono la morte della metà dei prigionieri. Oltre a queste atrocità, di
cui furono vittime come parte della popolazione civile, le donne nere furono
fatte segno di violenze specifiche, che derivarono dalla combinazione di una
triplice stigmatizzazione: di razza, di classe, di genere. Si tratta delle
violenze più difficili da documentare e quantificare.
Secondo Chiara Volpato, nel suo articolo “la violenza contro le
donne nelle colonie italiane”, spiega che non esistono ancora lavori
specifici sull’argomento; sia nei documenti analizzati dagli storici sia nelle
pagine dei testimoni dell’epoca sono citati una serie di casi che sono
interpretabili come tracce, indizi, di una realtà ben più vasta e che possono
costituire il punto di partenza per l’indagine di quello che è, con tutta
probabilità, un universo sommerso. Le tracce sono infatti concordi
nell’indicare che le pratiche di sopruso e violenza erano largamente diffuse e
restavano il più delle volte impunite.
Le donne erano continuamente sottoposte a vessazioni e insidie da parte
degli italiani. Nel 1897, ad esempio, durante la spedizione di Bottego, il
gruppo che accompagnava l’esploratore, oltre a eccidi, incendi, saccheggi,
compì una serie di stupri (Vannutelli e Citerni, 1899; Del Boca, 1991). Hiwet
Ogba Georgis, un’eritrea intervistata sull’epoca coloniale, ha raccontato che
le donne che lavoravano per gli italiani erano terrorizzate dalle continue
molestie sessuali (Wilson, 1991). Diverse fonti riferiscono raggiri commessi a
scopo sessuale. S rgoni (1998) espone vari casi: la denuncia degli inganni
(false cerimonie nuziali, organizzate per far credere alle africane che le loro
unioni con gli italiani fossero legalmente riconosciute) fatta da Lincoln De
Castro (1910), un medico vissuto a lungo in Abissinia; il raggiro compiuto
dall’esploratore Gustavo Bianchi (1886), che racconta con fierezza la sua
impresa, uno stupro operato attraverso l’inganno della vittima e della sua
famiglia; le parole di Alberto Pollera (1922, pag. 79), che vale la pena di
citare nella loro interezza:
“La legge indigena ammette la ricerca della paternità; anzi questo è uno
dei cardini di quel diritto; la legge italiana la vieta; e basandosi su questo
contrasto di diritto, molti Italiani, approfittando della ignoranza delle
indigene su questo punto, ne fanno facilmente delle concubine, per abbandonarle
quando ne abbiano prole”.
Ferdinando Martini, scrittore, parlamentare, governatore civile
dell’Eritrea dal 1897 al 1907, ministro delle colonie nel biennio 1915–16,
riporta nel suo diario, pubblicato in quattro volumi tra il 1942 e il 1943, il
caso di un ufficiale che aveva portato via dalla missione che la ospitava una
ragazzina per farne la sua concubina e di altri occupati “a tirar su bambine a
minuzzoli di pane” per conseguire lo stesso scopo. Nelle interviste raccolte da
Le Houérou (1994) tra i reduci d’Africa si trovano conferme di queste pratiche;
uno degli intervistati dichiara, ad esempio, che la colonia era “un paradiso
per gli uomini anziani” che potevano avere rapporti con bambine di dodici anni.
Altre informazioni si possono trarre dai lavori di S rgoni (1998) e Barrera
(1996), che hanno passato in rassegna le sentenze emesse dai tribunali di Addis
Abeba. S rgoni (1998) analizza, ad esempio, due processi per stupro. Nel primo
— “stupro violento” — la vittima, Desta Basià Ailù, è una bambina di nove anni,
segregata contro la sua volontà, per diversi giorni, nell’abitazione
dell’imputato. Quest’ultimo viene processato per violenza carnale, non per
sequestro di persona, e ottiene le attenuanti sulla base del fatto che si
trattava di una bambina abbandonata e quindi, secondo una traduzione italiana
del “Fetha Negast”, testo che racchiudeva i costumi penali
abissini, poteva essere presa in casa da chiunque. Il secondo caso concerne lo
stupro di una ragazza di tredici anni, Lomi, che aveva anche denunciato di
essere stata, dopo la violenza, legata “per punizione”. L’imputato fu in
prima istanza assolto perché i giudici italiani dichiararono che a tredici anni
un’abissina era “sessualmente maggiorenne”. Successivamente, fu condannato
dalla Corte di Appello per non essersi comportato secondo i dettami della” missione
civilizzatrice della razza superiore”.
Perché tanto silenzio e occultamento delle violenze compiute sulle donne
africane?
Le ragioni sono varie perché da un lato, la conoscenza delle violenze di
genere risente del generale ritardo dell’indagine storica sulle vicende
coloniali, indagine che, come sopra accennato, è stata soggetta a censure,
disattenzioni, volontà politica di non fare i conti con il passato. Solo
recentemente è stata posta in discussione la pervicace volontà di rimozione
delle vicende coloniali che ha contrassegnato il panorama politico-sociale
italiano del dopoguerra. La ricostruzione dell’identità collettiva, dopo la
sconfitta bellica e l’onta dell’alleanza con il nazismo, si è imperniata sul
mito auto-assolutorio degli italiani brava-gente, un mito che,
enfatizzando l’immagine degli italiani come colonizzatori dal volto umano, ha
ostacolato la riflessione sugli orrori commessi (Volpato, Durante, Cantone,
2007). Una seconda ragione è legata alla generale scarsità di ricerche sulla
storia delle donne in Africa prima, durante, dopo la colonizzazione. Poco si
conosce della loro esperienza, dei loro vissuti. Per quanto riguarda, poi, la
storia delle vicende coloniali italiane, l’assenza delle voci femminili è quasi
assoluta. La voce delle donne africane non compare mai nei documenti ufficiali,
dai quali è peraltro assente.
Anche chi si è occupato di storia orale ha faticato a raccogliere voci
femminili. Tra le 34 interviste raccolte da Taddia (1996) in Eritrea ed
Etiopia, che ci raccontano la colonizzazione italiana dalla prospettiva dei
colonizzati, nessuna è stata fatta a donne. Solo Barrera (1996, 2002) ha
cercato la testimonianza delle donne africane sui temi qui indagati. Le
interviste effettuate sono per poche; offrono indicazioni preziose, ma
dovrebbero essere integrate e approfondite da ricerche di più ampio respiro. Il
silenzio sulle violenze nei confronti delle donne nere si inserisce nel più
generale silenzio sulle violenze di genere. In un bel libro, Un
silenzio assordante, Patrizia Romito (2005) si è occupata dell’occultamento
delle violenze perpetrate su donne e minori analizzando le strategie e le
tattiche messe a punto a tale scopo.
Le strategie sono manovre articolate e complesse per nascondere la violenza
maschile e mantenere inalterato lo status quo; la strategia per eccellenza è la
negazione. Le tattiche sono, invece, strumenti non specifici della violenza
contro le donne, usati in modo trasversale all’interno delle singole strategie:
l’eufemizzazione, la disumanizzazione, la colpevolizzazione, la
psicologizzazione, la naturalizzazione, la distinzione.
La lezione di Romito si presta bene al nostro discorso: per occultare
la violenza contro le donne africane è stata impiegata soprattutto la strategia
della negazione che si è avvalsa, di volta in volta, di tecniche di
eufemizzazione, naturalizzazione, colpevolizzazione, disumanizzazione. Anche
chi si è occupato di storia orale ha faticato a raccogliere voci femminili. Tra
le 34 interviste raccolte da Taddia (1996) in Eritrea ed Etiopia, che ci
raccontano la colonizzazione italiana dalla prospettiva dei colonizzati,
nessuna è stata fatta a donne. Solo Barrera (1996, 2002) ha cercato la
testimonianza delle donne africane sui temi qui indagati. Le interviste
effettuate sono per poche; offrono indicazioni preziose, ma dovrebbero essere
integrate e approfondite da ricerche di più ampio respiro. Il silenzio
su queste violenze si inserisce nel più generale silenzio sulle violenze di
genere.
Queste strategie hanno portato ai diversi pregiudizi e stereopitizzazione
nei confronti degli africani. Il giudizio sociale italiano sugli africani
durante il periodo coloniale è così negativo che i processi di
stereotipizzazione e pregiudizio posti in atto costituiscono delle vere e
proprie strategie delegittimanti. In psicologia sociale si definisce
delegittimazione, la categorizzazione di un gruppo in categorie sociali
estremamente negative, che lo pongono fuori dalla cerchia dei gruppi umani con
cui è normale intrattenere rapporti. Tale esclusione è segnata da emozioni
negative e governata da precise norme sociali. I risultati di questi si
rivelano nell’immagine mediatica negativa degli africani. Gli africani vengono
considerati un gruppo di basso status, da sfruttare come forza lavoro e accusati
di debolezza intellettuale, scarsa moralità, incapacità di assimilare la
cultura europea(come la cultura superiore); considerati “primitivi”, venivano
paragonati ad animali. Il pregiudizio che oscilla tra paternalismo e disprezzo.
Quando si mostravano sottomessi, incarnavano la figura del suddito fedele,
verso il quale gli italiani potevano orgogliosamente assumere il “fardello
dell’uomo bianco”. Quando, al contrario, non accettavano il dominio italiano,
diventavano “ribelli”, “selvaggi”, “belve” prive di intelligenza e calore,
target ideali del pregiudizio sprezzante. I meticci, invece, erano oggetto
di un pregiudizio univalente di disprezzo. Considerati un gruppo di infimo
status, con il quale gli italiani non avevano interesse a stringere relazioni,
venivano dipinti come incompetenti, privi di calore, ostili, ripugnanti,
inferiori persino agli animali; paragonati ai bolscevichi e agli ebrei,
erano ritenuti una minaccia per la purezza razziale europea.
Per concludere, la violenza perpetrata contro le donne africane è ancora un
fenomeno particolarmente difficile da indagare a causa della generale scarsità
di ricerche sulla loro storia, durante e dopo la colonizzazione e fino ad oggi
stesso, nonché delle teorie e dei modelli socio-psicologici che possono contribuire
a la comprensione dei fenomeni di violenza collettiva e genocidio che sono
stati commessi e in che modo influiscono sulla vita di molti afro-discendenti
nell’attuale società italiana.
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