Una fuorviante ossessione
Sembra che
non accenni a scemare il flusso, ripetitivo e ormai noioso, di aggiornamenti
post-COVID 19. Il mondo dei media si è rappreso intorno ai numeri, alle
polemiche, alle foto ripetute all’infinito di presidi medici, bare, interviste
agli esperti, piazze deserte, cori incoraggianti… Intanto il mondo va avanti…
ma in che direzione? Con i telegiornali e gli ‘speciali’ tutti concentrati sul
coronavirus, non c’è più spazio per altro.
Come se le
locuste non continuassero a distruggere intere regioni dell’Africa e del Medio
Oriente, lasciando milioni di persone con la fame; come se le fabbriche di
armamenti non continuassero a produrre e commercializzare materiale bellico
destinato a distruggere intere comunità; come se fosse irrilevante la notizia
che in Europa, nel marzo 2020, le temperature medie dell’atmosfera si sono
mantenute quasi 2° C al di sopra della media 1981-2010.
Anche se
‘complessità’ e ‘interdipendenza’ sono ormai diventate parole chiave per
descrivere questo nuovo mondo – l’Antropocene – non se ne fa un uso sufficiente
per mantenere uno sguardo aperto, interpretare gli eventi e i processi in corso
e collegarli tra loro, e per prendere decisioni collettive di buon senso.
Importante: si sapeva
Nella
ricostruzione degli eventi che hanno portato alla pandemia sono numerosi i
riferimenti a conoscenze, dichiarazioni di allerta, allarmi che non sono stati
ascoltati.
Come ha
ricordato Ignazio Ramonet [1] solo qualche giorno fa, «si
possono dire molte cose per spiegare la scarsa preparazione delle autorità di
fronte a questo brutale flagello, però quella della sorpresa non è ammissibile.
Perché decine di previsioni e varie informative recenti avevano lanciato avvisi
molto seri sull’imminenza dell’arrivo di un nuovo virus che avrebbe potuto
causare qualcosa come la madre di tutte le epidemie». Ancora Ramonet ricorda
che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva lanciato un grido di
allarme già a settembre del 2019: «Ci troviamo di fronte alla minaccia molto
reale di una pandemia fulminante, sommamente letale, provocata da un patogeno
respiratorio che potrebbe uccidere da 50 a 80 milioni di persone e liquidare
quasi il 5 per cento dell’economia mondiale».
Alla fine la
pandemia è arrivata, ma mancavano mascherine e respiratori: strategie
potenzialmente disponibili con sistemi sanitari tradizionali, se fossero stati
ben radicati sul territorio e orientati alla prevenzione.
Un assassino di poco conto, una reazione enorme
Negli ultimi
tre mesi sono stati 303.825 [2] i morti (registrati) da e con
coronavirus nel mondo. Come fa notare Jan Oberg in un recente
articolo [3] la guerra in Irak e le successive
sanzioni hanno provocato almeno un milione di vittime civili. Altre guerre –
Afganisthan, Pakistan – hanno causato almeno 875.000 morti. E come non
ricordare che ogni giorno 20.000 persone muoiono di fame… eppure il malsviluppo
globale, i divari di reddito e la difficile situazione di centinaia di milioni
di “miserabili della Terra” non hanno mai indotto alcun governo a introdurre
misure particolari, e certamente niente di così drastico come quelle che ora
siamo tutti costretti a vivere.
Nessun altro
evento della storia contemporanea ha dato luogo a così numerose e gravi
decisioni, con sostanziali limitazioni delle libertà personali e collettive,
che in tutti i paesi i governi (democratici o autoritari) hanno imposto ai
cittadini.
Tra i motivi
che vengono addotti per spiegare questa reazione, Oberg ne ricorda alcuni
possibili: che ad essere colpiti per primi sono stati abitanti del mondo
‘ricco’; che la salute personale è sentita da tutti come un problema primario;
che la dinamica di diffusione – un avvio lento e subdolo, poi l’esplosione di
casi – ha suscitato particolare apprensione e paura. L’Autore avanza anche
un’ipotesi più cinica: la pandemia può aver indotto le élites internazionali a
cancellare molte procedure democratiche, e ad aumentare il controllo sociale,
sostenendo che queste restrizioni sono imposte ‘per il nostro bene’, e
annullando di fatto ogni forma di dissenso politico nelle piazze ormai
vuote.
‘Guerra’ contro il bersaglio sbagliato
Anche se
tutti i governi ora si affannano a dire che le misure dolorose e restrittive
messe in atto sono una dimostrazione dell’impegno con cui si prendono cura di
noi, è chiaramente dimostrato che i governi negli ultimi 70 anni hanno speso
miliardi per assicurare una forma di sicurezza che si è rivelata del tutto
inadeguata di fronte alla minaccia arrivata con il virus. Bilanci sempre
più grandi, più armi, più forza fisica: una visione militare del benessere dei
popoli, che ha trascurato completamente le minacce civili – come la povertà, il
disagio sociale, il degrado ambientale… o una pandemia come quella oggi in
atto.
Il risultato
è che alcuni paesi sono in grado di inviare intorno al mondo missili
teleguidati di precisione, e persino armi nucleari; possono dislocare truppe
armate e combattere guerre ovunque, anche nei luoghi più lontani. Ma non
sono stati capaci o – più correttamente – non si sono curati di proteggere le
loro società con semplici misure protettive: mascherine, guanti, termometri.
Come mai è
successo? Perché – sostiene sempre Jan Oberg – le politiche messe in campo
negli ultimi 70 anni hanno obbedito alle esigenze del sistema militare – anzi,
del complesso MIMAC (Military – Industrial – Media – Academic – Complex).
I cittadini sono stati convinti che c’erano dei nemici esterni a minacciarli;
sono stati impauriti, e indotti a pagare tasse sempre più alte per costruire
armi sempre più potenti contro questi nemici, che li minacciano
militarmente. Questo schema interpretativo, continuamente e ossessivamente
alimentato dall’idea del nemico, ha portato all’insostenibile situazione
attuale: il mito della difesa e della sicurezza nazionale ha prodotto
un’escalation senza fine di nuovi nemici, nuove paure, nuove armi, nuove
distruzioni… energie e risorse orientate verso minacce irreali, smascherate
dall’arrivo di un piccolo virus.
Importante: si sa…
Uno dei
pericoli più terribili che incombono sul mondo oggi, ben conosciuto e persino
segnalato dal ticchettio di un orologio, è costituito dagli armamenti nucleari
e dalle politiche che ne reggono la produzione, lo stoccaggio, l’uso.
L’Orologio dell’Apocalisse, inventato nel 1947 dagli scienziati della
rivista Bulletin of the Atomic Scientists, è un orologio metaforico
che misura il pericolo di una ipotetica fine del mondo a cui l’umanità è
esposta a causa degli armamenti nucleari e delle politiche militari che ne sono
alla base. Quest’anno, il 2020, il rischio è il più elevato di sempre,
quantificato da 100 secondi!
Nonostante
la consapevolezza della situazione di gravissimo pericolo in cui si trova
l’intera umanità, il trend di produzione di armamenti continua a crescere. Sono
disponibili al pubblico – tradotti in diverse lingue – i recenti dati del SIPRI
sulle spese militari: il 27 aprile, sul sito di Nigrizia[4] si legge che «Le spese
militari superano i 1.900 miliardi di dollari, il valore assoluto più alto
dalla fine della Guerra Fredda. Ognuno di noi (inclusi i neonati) nel 2019 ha
pagato 249 dollari. Il budget militare più alto resta quello degli Stati Uniti,
aumentato del 5,3% nel 2019 a 732 miliardi di dollari, pari al 38% della spesa
globale. Dopo sette anni di declino la spesa Usa per la difesa ha ripreso a
salire nel 2018. Seconda in classifica è la Cina, con 261 miliardi di dollari
(+ 5,1% rispetto all’anno precedente) e terza l’India con 71,1 miliardi di
dollari (+ 6,8% su base annua)».
E l’Italia?
L’Italia non fa eccezione. Come ci spiega Luca Liverani su Avvenire [5], secondo la stima dell’Osservatorio
Mil€x, la spesa militare prevista per il 2020 arriva a circa 26,3 miliardi di
euro, con una crescita di oltre il 6% (quasi un miliardo e mezzo in più) rispetto
al comparabile bilancio preventivo 2019. «E questi sono solo i numeri delle
previsioni di partenza» – sottolinea Francesco Vignarca, coordinatore di Rete
Disarmo – «perché nei bilanci consuntivi si verifica una spesa effettiva
decisamente superiore”. Va sottolineato poi che nella previsione per il 2020
quasi 5,9 miliardi di euro sono destinati all’acquisto di nuovi sistemi
d’arma».
L’Italia armata
È di questi
giorni la notizia della conclusione dei lavori di ammodernamento della
portaerei Cavour, a Taranto, per rendere compatibile la nave con l’impiego dei
nuovi aerei F-35. Questi lavori sono stati effettuati grazie a un contratto tra
il Ministero della Difesa e il Raggruppamento Temporaneo d’Impresa tra cui
spiccavano Fincantieri e Leonardo, del valore di 74 milioni di euro. Completati
i lavori, la portaerei raggiungerà gli Stati Uniti dove effettuerà il ciclo di
esercitazioni e di abilitazione all’ impiego dei cacciabombardieri Lockheed
Martin F-35B Joint Fighter Strike, entro la primavera del 2021. La lettura di
un articolo pubblicato su ARES – Osservatorio Difesa [6] (del 12 maggio 2020) consente
anche a un profano di cogliere le finalità di questo nuovo gioiello della
Marina Militare: tra i dettagli elencati ci sono gli armadietti per lo
stivaggio delle bombe, le rotaie per la movimentazione di bombe, missili e
siluri. Tutte apparecchiature molto sofisticate e costose. La
Cavour potrà accogliere fino a 15 aerei, con il ‘corredo’ di 30 caschi (Helmet
Mounted Display Systems), ciascuno del costo di circa 400.000 $.
Essendo tagliati su misura sul singolo pilota, ognuno ne avrà in dotazione due,
di cui uno di riserva in caso di avaria di quello in uso.
Costituzione Italiana Articolo 11
L’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in
condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale
scopo.
Sempre più spudorata la costruzione del nemico
La
prospettiva di una catastrofe nucleare è talmente inquietante che all’interno
stesso degli Stati Uniti il rischio viene segnalato da studiosi ed esperti,
sempre più allarmati dalla posizione aggressiva del presidente Trump e dalle
false notizie diffuse dallo staff del comando strategico militare USA, che
intendono far credere all’opinione pubblica che gli Stati Uniti si trovano
sotto crescente minaccia da parte di altre potenze mondiali.
Tra gli
articoli pubblicati dal Bulletin of Atomic Scientists [7] il 7 maggio 2020, uno mi ha
colpito in modo particolare[8]: per il titolo, per il commento
introduttivo e per una ‘infografica’ iniziale piuttosto interessante. Partiamo
dal titolo: L’anatomia di una disinfografica STRATCOM. La
‘disinfografica’ è una modalità di comunicazione in cui le informazioni sono
organizzate in una forma grafica e visuale in modo errato o incompleto.
La sigla STRATCOM sta a indicare il comando strategico militare USA: US
Strategic command (Il sito merita una visita…).
Gli Autori
dell’articolo ci spiegano che il comando strategico degli Stati Uniti, il ramo
dell’esercito responsabile delle armi nucleari della nazione, ha recentemente
pubblicato un’infografica sulla quale il team editoriale del Bulletin ha
sentito la necessità di esprimere alcune osservazioni. Cerco di riassumere le
note più significative, facendo riferimento allo schema del comando strategico,
qui sotto riportato.
Gli Autori dell’editoriale
del Bulletin obiettano che il termine ‘moderazione’ forse non
è adeguato [9]. Gli USA sono orientati a spendere da
1,2 a 1,7 trilioni [10] di $ nei prossimi 30 anni per la
modernizzazione del loro programma nucleare. Inoltre, le quantità hanno
importanza: i grafici a torta suggeriscono che gli arsenali cinesi e russi sono
molto più abbondanti di quelli americani… ma più ‘tipi’ di cose non vuol dire
più numerose, o più potenti. Nelle pagine che seguono l’articolo elenca una
serie di dati tecnici che smentiscono il messaggio grafico: l’impressione
generale che riceve chi guarda questi disegni è che Russia e Cina stiano
predisponendo molti nuovi sistemi d’arma, aumentando così i rischi per USA e
alleati. Ma questo non è vero per molte ragioni, che gli autori elencano in
modo analitico. Anche i dati numerici sono imprecisi: in realtà la riduzione
delle scorte nucleari nei decenni passati è stata dell’82% per gli Stati Uniti,
a fronte dell’88% della Russia: quindi è falsa l’affermazione che mentre gli
USA hanno ridotto i loro armamenti, gli altri paesi (Russia, Cina, Nord
Corea, Iran) li stanno moltiplicando, minacciando gli USA.
Un altro
aspetto importante rispetto al quale gli schemi pubblicati da STRATCOM
sono davvero disinformativi, anzi, falsi, riguarda il ruolo della diplomazia e
del dialogo. Le riduzioni degli armamenti nucleari conseguite in passato
sono state ottenute grazie a lunghe, faticose e preziose relazioni
diplomatiche. Eppure STRATCOM non fa cenno agli accordi dai quali gli Stati
Uniti si sono ritirati, in alcuni casi contro il consiglio dei suoi alleati.
L’amministrazione Trump si è ritirata dal trattato INF (Trattato sulle Forze
nucleari intermedie) nell’agosto 2019 [11] e ha rapidamente iniziato a
lavorare su un’arma che il trattato avrebbe vietato. Mentre suggerisce che la
Cina e la Russia stanno sviluppando nuove armi che «aggireranno gli obblighi
del trattato», omette di dire che gli USA hanno, più drasticamente, eliminato
la legge stessa.
Il Comando
Strategico Militare USA sta deliberatamente ingannando la società civile,
alimentando la paura del ‘nemico’ proprio in un momento in cui la pandemia sta
creando tensioni sociali, incertezza, disorientamento.
Quando la prevenzione è
impossibile
Si fa un
gran parlare, in questi mesi, della necessità di prepararsi adeguatamente alle
prossime pandemie…
È sempre
il Bulletin of Atomic Scientists, il 28 aprile 2020, a richiamare
l’attenzione dei lettori sulla minaccia nucleare, con un titolo
inquietante [12]: Quanti letti per la terapia
intensiva saranno necessari nel caso dell’esplosione di un ordigno nucleare?
Tom Sauer,
belga, professore di politica internazionale già presso l’Università di
Harvard, e Ramesh Thakur, australiano, Direttore del Centre for
Nuclear Non-Proliferation and Disarmament, sostengono che l’attuale
pandemia da coronavirus è una vistosa conferma dell’attualità e della rilevanza
dell’Iniziativa Umanitaria, avviata dieci anni fa con tre affermazioni
cruciali:
- Primo, nessun paese individualmente
– e neppure un sistema coordinato a livello internazionale – ha la
capacità di far fronte alle conseguenze di una guerra nucleare sulle
comunità umane.
- Secondo, è quindi interesse
dell’umanità che armi nucleari non siano mai più usate, in nessuna
circostanza.
- Terzo: l’unica garanzia che tali
armi non vengano usate è la loro completa eliminazione.
Queste tre
considerazioni sono state alla base delle iniziative che hanno portato a
promuovere la Campagna internazionale per l’abolizione delle Armi
nucleari (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons: ICAN),
dalla quale è scaturita la risoluzione 71/258 del 26 dicembre 2016 e che ha
portato le Nazioni Unite ad adottare il 7 luglio 2017 il Trattato di
messa al bando delle armi nucleari, che entrerà in vigore dopo la
ratifica da parte di almeno 50 Paesi.
Utilizzando
l’esperienza globale di questi mesi, proviamo a valutare – dicono i due
studiosi – quanti letti di terapia intensiva sarebbe necessario predisporre per
affrontare un’emergenza nucleare.
Gli Autori
utilizzano uno strumento previsionale messo a punto dal ricercatore Alex
Wellerstein, dello Stephens Institute of Technology: si
tratta di Nukemap [13] che permette di
calcolare gli effetti di bombe atomiche di diversa potenza e su differenti aree
geografiche. Una versione italiana si può leggere sul sito [14] della rete italiana per il
disarmo.
Proviamo
anche noi a utilizzare la simulazione di Nukemap con la
città di Torino: i risultati dell’esplosione di una bomba del tipo B-61
sulla nostra città causerebbe istantaneamente quasi 370mila morti, e circa
540mila feriti.
Facciamo
un’altra prova, sperimentiamo l’effetto della Castel Bravo, la bomba più
potente fatta esplodere a titolo sperimentale dagli USA [15] : 1 milione 126 mila morti
immediati, tra Torino e dintorni e poi… distruzioni, fallout, disastri
inenarrabili…
Quanti letti
per la terapia intensiva, dunque? La domanda risulta priva di senso di fronte
allo scenario che si presenterebbe, in cui – oltre ai morti e ai feriti – ci
sarebbe la completa distruzione di tutte le infrastrutture e di tutti i sistemi
di comunicazione: si tratta di effetti noti, descritti persino su Wikipedia. E,
dopo le distruzioni immediate, il fallout radioattivo farebbe
il resto, nei mesi, anni, decenni successivi…
L’unica prevenzione possibile
Sauer e
Thakur proseguono la loro riflessione: qual è la probabilità di una guerra
nucleare, o anche semplicemente dell’esplosione di una singola bomba nucleare?
Certamente è maggiore di zero. E sembra che questa probabilità stia aumentando,
invece di ridursi. Per la prima volta in 50 anni, il mondo può trovarsi, alla
fine del 2020, senza alcun trattato per il controllo bilaterale delle armi che
comprenda anche le verifiche. Il mondo è di fronte alla chiara minaccia di una
proliferazione incontrollata delle armi nucleari.
Attualmente
non sono disponibili vaccini per contrastare la pandemia da coronavirus, ma un
‘vaccino’ contro la minaccia nucleare esiste: è il Trattato per la
messa al bando delle armi nucleari. Proseguendo con il parallelo tra
minaccia del virus e minaccia di una guerra nucleare, i due studiosi non hanno
dubbi: non esiste una prevenzione possibile – in termini di letti per la
terapia intensiva – che possa far fronte agli esiti di una esplosione nucleare.
L’unica prevenzione possibile, da mettere in atto con assoluta urgenza, è
l’eliminazione totale degli ordigni nucleari.
Molte
persone, in tutto il mondo, sono ancora incredule: che un piccolo virus, un
pacchetto di sequenze geniche elementari ricoperto da qualche proteina
sparsa, una manciata di informazioni che
potrebbe essere contenuta in un foglio A4, sia stata in grado di
colpire milioni di persone, e di scompaginare l’economia globale: incredibile…
prima che avvenisse.
Questo duro
confronto con la realtà, che ci ha messo di fronte alla nostra fragilità, deve
motivarci ad agire, finalmente, e subito. Inutile ‘ripartire’ – come si sente
dire da ogni parte – verso strade già percorse, e rivelatasi sbagliate.
Oltre a incamminarsi verso un nuovo modello di sviluppo, occorre con urgenza
imporre la messa al bando di tutto il sistema militare mondiale, a partire dal
modesto ma pericolosissimo contributo italiano. L’uscita trionfale della
portaerei Cavour dal porto di Taranto, pronta a ospitare aerei da combattimento
F-35 in grado di caricare (e sganciare) bombe nucleari, è una manifestazione di
arroganza, prepotenza e stupidità: fermare questo sistema impazzito è più
urgente che allestire letti di terapia intensiva per la prossima pandemia.
È di questi
giorni un report di ICAN, la Campagna internazionale per l’abolizione delle
Armi nucleari, che ha per titolo Enough is Enough: Global Nuclear
Weapons Spending 2019 che potremmo tradurre così: Quando
è troppo è troppo: le spese nucleari globali 2019. In questa
situazione di sofferenza globale, che ha coinvolto l’intera popolazione
mondiale e sta gettando nella miseria e nella fame milioni di persone, dobbiamo
trovare la forza di sostenere le numerose associazioni impegnate da molti anni
per l’abolizione degli armamenti nucleari, qui a Torino, in Italia, in Europa e
in tanti posti del mondo. Dobbiamo coinvolgere l’intera società civile
nell’opposizione, nonviolenta ma ferma, a chi intende gestire le relazioni
internazionali con strategie e tattiche militari, utilizzando la nostra Terra
come un campo di battaglia.
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