Il coronavirus ci ha ricordato, al di là
dei tabù, che la morte è il finale obbligato
di ogni vita
e che vivendo ci si può ammalare.
Ma la paura
di morire non può
trasformarsi in paura
di vivere.
Non scriverò di Foucault e del perché
la tanatopolitica (il lasciar morire
che frutta più di lasciar
vivere) oggi sembra avere
la meglio rispetto
alla bio- politica (il lasciar
vivere per meglio
sfruttare) nono-stante nel paese, che dico nel paese, nel pianeta,
infiammi il panico
di morire di coronavirus. Le quarantene. I controlli. Le misure. Le quarantene. Le zone rosse.
I tamponi. Il numero dei
contagiati. Le mascherine. Le quarantene. Non scriverò di guerre e di sterminio biologico né di prove
generali di sorveglianza planetaria. Perché
no? Perché stamattina mentre facevo colazione sotto
uno splendido sole
mi sentivo
insolitamente felice.
Il pianeta,
pensavo, s’è rotto
il cazzo e sta scuotendo
i suoi esseri più superbi,
li sveglia dal torpore
di una vita da zombie,
li fa sentire in pericolo, minacciati dagli
esseri che sul
pianeta – che geniale contrappasso – sono i più elementari: i virus. Di cui si dice – a differenza dei batteri – non abbiano
neppure la dignità
di un organismo autonomo.
Mia moglie
non vuole darlo
a vedere ma è infastidita dalla
possibilità di morire
per uno stupido virus. Come se poi morire
per un cancro, per un incidente d’auto o per annegamento fosse più dignitoso. Mia figlia grande
filosofica tace, riflette, dice pure secondo Machiavelli l’uomo non cambia. Che cosa vorrà
dire, non lo so. Questi
che studiano al Classico
hanno la citazione facile. Mia figlia piccola mangia
i Nutella biscuits, vanno a ruba,
fra poco se ci sarà il finimondo non saranno più prodotti i Nutella
biscuits. Dovremo ritornare a coltivarci i pomodori da noi, altro
che Nutella biscuits. Dico a loro tre:
immaginatevi ora, per
un momento, che questo
pianeta sia una sfera vitale,
intelligente, con una coscienza sua, immaginatevi che la coscienza del pianeta si è proprio
stufata della superbia degli esseri
umani, che aggrediscono questo corpo sospeso
su cui abitano, lo dissanguano lo depredano lo inaridiscono lo insozzano lo squagliano lo asfissiano e allora scatena
le sue difese, un banale virus
che, se il pianeta vorrà,
se l’intelligenza
del pianeta vorrà,
saprà ridurre in polvere il genere umano,
sette miliardi di umani in un battibaleno torneranno a essere pochi
milioni, sparsi in qualche
continente, senza più l’amata tecnologia, senza i premi letterari, senza i premi
Nobel, senza i social
network, la palingenesi, il rasoio biologico di Occam; suvvia
umani, abbiamo scherzato, avete esagerato, vi do un’altra possibilità, si ricomincia da capo. Ma fate i bravi stavolta, niente arroganza, se no fate la fine dei dinosauri.
L’altro giorno vado in ospedale,
penso che sarà il
luogo perfetto per lasciarsi incubare dal coronavirus. L’ospedale – per ora ancora non è arrivato
ma arriverà, è questione
di giorni, al massimo qualche settimana, e il nosocomio dove lavoro vivo penso dormo mangio
parlo impasticco, diventerà un lazzaretto che
mi regalerà, anche
a me, la peste del
nuovo millennio – invece vado
e, per fortuna, per buona parte della notte dormo.
Fino alle sei del mattino. Alle sei del mattino
quando penso di averla ormai scampata chiama il pronto
soccorso, dice c’è
uno venuto con otto
poliziotti. Già lo conosco, è venuto
cinque giorni fa, era legato e sedato,
ci ho parla- to, s’è calmato, l’ho fatto sciogliere se n’è andato.
Ora ritorna. Dice
il poliziotto che
va di continuo al Vaticano
perché vuole incontrare il papa, per con-
vincerlo o per ucciderlo, dipende
da come gli gira, a seconda dei giorni, della
testa cosa gli dice in quel
momento. Ci parlo.
È gigantesco. È esaltato. È pazzo, sintetizza un’infermiera. Dice “dio mi è venuto
in sogno mi ha detto cosa fare. Ho una missione,
nessuno mi fermerà.”
Dimenticarsi della morte
Passa un giorno e ieri
di nuovo arrivo
nel nosoco- mio. L’Italia
continua ad avere
paura di morire
per un virus. Anzi
di più. La paura aumenta.
E il mondo ha paura dell’Italia. Che ridere. Ho il cercapersone. Il cercapersone suona. Non
l’ho disinfettato. Mi lavo spesso le mani.
Sono contento
tutto sommato che il virus
ci ri- cordi che tanto prima o poi si muore. È da un po’
che non abbiamo le pesti.
Le pesti ricordavano che si doveva morire.
L’Europa medievale aveva una discreta consuetudine con
la morte, le persone morivano, come le mosche potremmo dire – perché
sappiamo tutti che non stupisce
vedere le mosche
o peggio le più fastidiose
zanzare morire, e non scandalizza ucciderle,
esseri inutili e fastidiosi – insomma epidemie guerre inquisizioni mettevano gli
europei della fine
del Medioevo al cospetto
costante della morte.
Nasce una letteratura singolare, specifica, conosciuta generalmente come Ars Moriendi. Mors certa
hora incerta si diceva.
Non è possibile rimuoverla,
la morte, dunque meglio parlarne, memento mori, ricordarsene sempre,
ossessivamente; si affermano poemi chiamati appunto Memento mori o Vado mori,
che sviluppano temi
dove il misticismo oserei dire sconfinava
nell’anarchia, perché ribadire che non possediamo davvero un bel niente non era cosa
da poco, che la proprietà privata non solo
era un fur- to, come avrebbero detto
gli anarchici tra qualche
secolo, ma era più che altro un inganno, un’illusio- ne, come fai a possedere davvero
ricchezze che, una volta
morto, dovrai lasciare?
Ecco che gli scritti
dell’Ars Moriendi arrivano a una saggezza
che trascende l’aspetto terreno e si concentra sui grandi potenti
della terra, che sono quelli che ci perderanno di più, morendo;
immaginiamo adesso
per un attimo un Trump,
o un Putin, o un Erdogan a cui il Grande Livellatore o il Gran Mietitore segherà vita
e beni in un colpo
solo. A questi dittatorelli gli scoccerà molto
di morire.
Di pari passo a questo tipo di letteratura si affermano le danze frenetiche, dove i vivi si accompagnano ai morti, danze macabre o dance macabre
o danza de la muerte o totentanz
o canti ad mortem festinamus.
I monaci si allenano, per consolidare
il disprezzo
dei beni, della proprietà,
delle cose del mondo, a contempla- re l’orrido della morte. Sviluppano forme di
meditazione dove visualizzano il proprio corpo morto putre- facente poi
scheletrico poi polveriz- zato. Per
farla breve, all’inizio l’Ars Moriendi è letteratura per preti, monaci e chiesastici, per
preparar- li ad assistere
i morenti. Solo in seguito, quando i
preti scarseggiano e i morti aumentano, questi scritti vengono tradotti in volgare cosicché ognuno possa, da solo, aiutarsi
nell’arte di sa- per morire.
Angoscia di morire o morire di angoscia
Pochi secoli fa, solo pochi secoli, pure
in Europa c’era
una cultura del morire. Ora è scomparsa. L’angoscia di morire
ha fatto sì che la cultura, la medicina
occidentale, non se ne occupi. Il medico occidentale si ferma, si blocca, si paralizza, poco prima che
il paziente muoia.
Non più Ars Moriendi, ma tecniche
per non dire,
non far sapere, occultare, dissimulare, mentire,
ingannare. La negazione totale del morire.
Ma per fortuna proprio mentre
scrivevo ciò, sono arrivate le sette regole
che la Società Italiana di Psichiatria ha deciso di divulgare per affrontare e vin- cere
la paura generata dalla circolazione di notizie infondate o non vagliate
accuratamente. Sono vere. Non scherzo.
Prendete subito nota:
1.
attenersi alle comunicazioni ufficiali delle autorità sanitarie;
2.
riconoscere che le cose spaventose che attraggono la nostra attenzione non sono necessaria-
mente le più rischiose è il primo
passo verso la consapevolezza;
3.
contenere la paura, mantenere la calma ed evi-
tare di prendere
decisioni fino a quanto il panico non è passato;
4.
affidarsi solo alle testate giornalistiche ufficiali e autorevoli;
5.
non
fare tesoro di ciò che si intercetta online e
sui social media,
soprattutto se condiviso da amici solo virtuali, che in realtà
non si conoscono davvero, e se non accuratamente verificato;
6.
rivolgersi al proprio
medico e non fare domande su gruppi social, chiedendo
opinioni;
7.
se compaiono sintomi come panico,
ansia o depressione rivolgersi ad uno specialista al fine di un’adeguata diagnosi.
Ecco, soprattutto, mi raccomando, l’adeguata diagnosi psichiatrica, è la
prima cosa da ottenere, in questi casi.
Come
vedete, il bello di questo coronavirus, questo virus che ancora non sappiamo se è una bufala
e se la sua epidemia è un’epidemia fake – scrivo questo
pezzo che siamo ai primi di marzo, quando uscirà il numero
di aprile di “A” sarà passato almeno
un mese; adesso il mondo,
il paese, è letteralmente diviso
in due: chi se la fa sotto e pensa che
la fine è arrivata,
e chi non si capacita
di come tutti stiano abboccando,
scambiando questa sindrome solo un po’ più
aggressiva dell’annuale influenza, per
la peste bubbonica – è che per un attimo ci ha ricordato, a noialtri che viviamo come zombie
in una specie di eterno
presente, che:
1. capita
anche di morire;
2.
possono morire
anche i ricchi
non solo i morti di fame che
arrivano dall'Africa o i cinesi
rurali che si mangiano topi,
cani e pipistrelli;
3.
ogni tanto bisogna guardarsi attorno, guardare la disperazione che ci circonda, l’inferno che ci circonda;
4.
quasi tutto quello che facciamo nella
vita, che acquistiamo, di cui
ci nutriamo, è inutile, se ne potrebbe fare a meno;
5.
lavarsi le mani, nella vita, anche molte volte al giorno, anche sempre, può
non bastare;
6.
a
volte è meglio stringerle le mani, dare una mano, piuttosto che lavarle e tenersele in tasca;
7.
i politici, i giornalisti, i virologi e gli psichiatri, be’, come posso dirlo
senza essere troppo
offensivo? non è che siano
dei grandi punti
di riferimento per gli esseri
umani che non sono politici giornalisti virologi o psichiatri.
Vivere fa ammalare
Aggiungo solo che adesso
ho capito perché
da un po’ di giorni mi porto dietro
Il gaucho insostenibile nell’edizione Sellerio, che è più bella e più piccola e più comoda
e nella traduzione di Maria Nicola, che non è Angelo Morino,
il povero Angelo Morino che in 2666 Bolaño trasforma in Morini, il torinese Morini, uno dei quattro
critici fanatici di Benno Von Arcimboldi; perché
ne Il gaucho insostenibile non c’è solo
il racconto omonimo, che non esito a definire il racconto perfetto, lo ridico, il racconto perfetto, non solo
c’è Il poliziotto dei topi
dove fa il verso a Kafka, non solo c’è Il viaggio di Alvaro Rousselot e
Due racconti cattolici, non solo c’è Jim e
I
miti di Chtulhu, il vero motivo
per cui me ne
vado in giro da un po’ di tempo con il libretto
blu Sellerio sempre nello
zaino – anche
qui in ospedale ce l’ho sempre
con me, nella tasca del camice le poche
volte che indosso
il camice, se no nella
tasca dei jeans perché
il libretto si riesce a infilarlo – dicevo quando vengo nel reparto
psichiatrico, questo buco nero da cui si apre il portale per gli altri mondi, altri mondi da dove i ricoverati entrano
e escono mentre io sto qui solo a ratificarne l’andirivieni, il vero motivo
per cui me lo porto
dietro è che devo leggere
e rileggere Letteratura + malattia = malattia. Dedicato al suo amico dottore
epatologo, Vìctor Vargas.
Bolaño ha
cinquant’anni. La mia età. Anche meno. Bolaño sta morendo. Il fegato non funziona.
Aspettare che uno
muoia, che il suo fegato
sia non solo buono ma pure compatibile, sperare
che il corpo di Bolaño
non rigetti il fegato compatibile di quel corpo umano che è appena morto.
Troppi eventi magici. Non ce la farà.
Bolaño lo sa. Bolaño infatti scrive Malattia e conferenze: “Nessuno deve stupirsi del fatto
che il conferenziere salti di palo
in frasca. È gravemente malato”. Malattia
e Dioniso: “La colpa è tutta di Dioniso”. Malattia e Apollo: “Apollo
è gravemente malato”. E così via. Ma è Malattia e viaggi che mi interessa particolarmente. È per questo
che mi porto sempre
dietro il libretto
blu.
Pensate, mia figlia
diciassettenne ora che compie la maggiore età vuol andare
a Capo Nord col suo ragazzo. Venti
giorni. E dopo
vogliono andare a New
York, due settimane. Ma che è questa smania
che hanno, gli esseri umani, soprattutto quando sono giovani, di viaggiare? Di spostarsi per acqua o per mare o per aria
intorno al pianeta?
Ma non lo sanno che così
pure i virus si spostano
insieme a loro?
E così, alcuni giorni fa, preso dall'esasperazione le ho letto Malattia e viaggi. Ascolta,
e dopo vedi
se avrai ancora voglia di viaggiare. Dopo
vedi, se non ti pas- sa
la voglia di muoverti.
“Viaggiare fa ammalare. Una volta i medici raccomandavano ai loro pazienti, soprattutto a quelli che soffrivano di malattie
nervose, di viaggiare. I pazienti, che in genere erano
ben provvisti di denaro,
obbedivano e s’imbarcavano in lunghi viaggi
che duravano mesi
e talvolta anni.
Quelli che soffrivano di malattie nervose
ed erano poveri non viaggiava- no.
Alcuni, come si può immaginare, impazzivano. Ma anche quelli che viaggiavano
impazzivano o, peggio ancora, contraevano
nuove malattie via via che cambiavano
città, clima, abitudini alimentari. In
realtà, è più sano non viaggiare, è più sano
non muoversi, non uscire
di casa, stare
ben coperti d’inverno e togliersi la sciarpa solo d’estate, è più sano non
aprire bocca e non battere
ciglio, è più sano non
respirare. Ma la verità è che uno respira e viaggia.
Io, tanto per fare un esempio, ho cominciato a viaggiare da giovanissimo […] Risultato: molteplici malattie […] Ma tutto,
prima o poi arriva. Arrivano i figli. Arrivano i libri. Arriva
la malattia. Arriva
la fine del viaggio”.
Il bello di aver riscoperto
la morte ai tempi del coronavirus è che, per un po’, ci sarà proibito
viaggiare.
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