martedì 9 giugno 2020

La morte ai tempi del virus - Piero Cipriano



Il coronavirus ci ha ricordato, al di là dei tabù, che la morte è il finale obbligato di ogni vita e che vivendo ci si può ammalare.
Ma la paura di morire non può trasformarsi in paura di vivere.
Non scriverò di Foucault e del perché la tanatopolitica (il lasciar morire che frutta più di lasciar vivere) oggi sembra avere la meglio rispetto alla bio- politica (il lasciar vivere per meglio sfruttare) nono-stante nel paese, che dico nel paese, nel pianeta, infiammi il panico di morire di coronavirus. Le quarantene. I controlli. Le misure. Le quarantene. Le zone rosse. I tamponi. Il numero dei contagiati. Le mascherine. Le quarantene. Non scriverò di guerre e di sterminio biologico di prove generali di sorveglianza planetaria. Perché no? Perché stamattina mentre facevo colazione sotto uno splendido sole mi sentivo insolitamente felice.
Il pianeta, pensavo, s’è rotto il cazzo e sta scuotendo i suoi esseri più superbi, li sveglia dal torpore di una vita da zombie, li fa sentire in pericolo, minacciati dagli esseri che sul pianeta che geniale contrappasso sono i più elementari: i virus. Di cui si dice a differenza dei batteri non abbiano neppure la dignità di un organismo autonomo.
Mia moglie non vuole darlo a vedere ma è infastidita dalla possibilità di morire per uno stupido virus. Come se poi morire per un cancro, per un incidente d’auto o per annegamento fosse più dignitoso. Mia figlia grande filosofica tace, riflette, dice pure secondo Machiavelli l’uomo non cambia. Che cosa vorrà dire, non lo so. Questi che studiano al Classico hanno la citazione facile. Mia figlia piccola mangia i Nutella biscuits, vanno a ruba, fra poco se ci sarà il finimondo non saranno più prodotti i  Nutella  biscuits.  Dovremo ritornare a coltivarci  i  pomodori da noi, altro che  Nutella  biscuits. Dico a loro tre: immaginatevi ora, per un momento, che questo pianeta sia una sfera vitale, intelligente, con una coscienza sua, immaginatevi che la coscienza del pianeta si è proprio stufata della superbia degli esseri umani, che aggrediscono questo corpo sospeso su cui abitano, lo dissanguano lo depredano lo inaridiscono lo insozzano lo squagliano lo asfissiano e allora scatena le sue difese, un banale virus che, se  il pianeta vorrà, se l’intelligenza del pianeta vorrà, saprà ridurre in polvere il genere umano, sette miliardi di umani in un battibaleno torneranno a essere pochi milioni, sparsi in qualche continente, senza più l’amata tecnologia, senza i premi letterari, senza i premi Nobel, senza i social network, la palingenesi, il rasoio biologico di Occam; suvvia umani, abbiamo scherzato, avete esagerato, vi do un’altra possibilità, si ricomincia da capo. Ma fate i bravi stavolta, niente arroganza, se no fate la fine dei dinosauri.
L’altro giorno vado in ospedale, penso che sarà il luogo perfetto per lasciarsi incubare dal coronavirus. L’ospedale per ora ancora non è arrivato ma arriverà, è questione di giorni, al massimo qualche settimana, e il nosocomio dove lavoro vivo penso dormo mangio parlo impasticco, diventerà un lazzaretto che mi regalerà, anche a me, la peste del nuovo millennio invece vado e, per fortuna, per buona parte della notte dormo. Fino alle sei del mattino. Alle sei del mattino quando penso di averla ormai scampata chiama il pronto soccorso, dice c’è uno venuto con otto poliziotti. Già lo conosco, è venuto cinque giorni fa, era legato e sedato, ci ho parla- to, s’è calmato, l’ho fatto sciogliere se n’è andato. Ora ritorna. Dice il poliziotto che va di continuo al Vaticano perché vuole incontrare il papa, per con- vincerlo o per ucciderlo, dipende da come gli gira, a seconda dei giorni, della testa cosa gli dice in quel momento. Ci parlo. È gigantesco. È esaltato. È pazzo, sintetizza un’infermiera. Dice “dio mi è venuto in sogno mi ha detto cosa fare. Ho una missione, nessuno mi fermerà.”

Dimenticarsi della morte
Passa un giorno e ieri di nuovo arrivo nel nosoco- mio. L’Italia continua ad avere paura di morire per un virus. Anzi di più. La paura aumenta. E il mondo ha paura dell’Italia. Che ridere. Ho il cercapersone. Il cercapersone suona. Non l’ho disinfettato. Mi lavo spesso le mani.
Sono contento tutto sommato che il virus ci ri- cordi che tanto prima o poi si muore. È da un po’ che non  abbiamo  le pesti. Le  pesti  ricordavano che si doveva morire.
L’Europa medievale aveva una discreta consuetudine con la morte, le persone morivano, come le mosche potremmo dire perché sappiamo tutti che non stupisce vedere le mosche o peggio le più fastidiose zanzare morire, e non scandalizza ucciderle, esseri inutili e fastidiosi insomma epidemie guerre inquisizioni mettevano gli europei della fine del Medioevo al cospetto costante della morte.
Nasce una letteratura singolare, specifica, conosciuta generalmente come Ars Moriendi.  Mors certa hora incerta si diceva. Non è possibile rimuoverla, la morte, dunque meglio parlarne, memento mori, ricordarsene sempre, ossessivamente; si affermano poemi chiamati appunto Memento mori o Vado mori, che sviluppano temi dove il misticismo oserei dire sconfinava nell’anarchia, perché ribadire che non possediamo davvero un bel niente non era cosa da poco, che la proprietà privata non solo era un fur- to, come avrebbero detto gli anarchici tra qualche secolo, ma era più che altro un inganno, un’illusio- ne, come fai a possedere davvero ricchezze che, una volta morto, dovrai lasciare?
Ecco che gli scritti dell’Ars Moriendi arrivano a una saggezza che trascende l’aspetto terreno e si concentra sui grandi potenti della terra, che sono quelli che ci perderanno di più, morendo; immaginiamo adesso per un attimo un Trump, o un Putin, o un Erdogan a cui il Grande Livellatore o il Gran Mietitore segherà vita e beni in un colpo solo. A questi dittatorelli gli scoccerà molto di morire.
Di pari passo a questo tipo di letteratura si affermano le danze frenetiche, dove i vivi si accompagnano ai morti, danze macabre   dance macabre o danza de la muerte o totentanz o canti ad mortem festinamus.
I monaci si allenano, per consolidare il disprezzo dei beni, della proprietà, delle cose del mondo, a contempla- re l’orrido della morte. Sviluppano forme di meditazione dove visualizzano il proprio corpo morto putre- facente poi scheletrico poi polveriz- zato. Per farla breve, all’inizio l’Ars Moriendi è letteratura per preti, monaci e chiesastici, per preparar- li ad assistere i morenti. Solo in seguito, quando i preti scarseggiano e i morti aumentano, questi scritti vengono tradotti in  volgare cosicché ognuno possa, da solo, aiutarsi nell’arte di sa- per morire.

Angoscia di morire o morire di angoscia

Pochi secoli fa, solo pochi secoli, pure in Europa c’era una cultura del morire. Ora è scomparsa. L’angoscia di morire ha fatto che la cultura, la medicina occidentale, non se ne occupi. Il medico occidentale si ferma, si blocca, si paralizza, poco prima che il paziente muoia. Non più Ars Moriendi, ma tecniche per non dire, non far sapere, occultare, dissimulare, mentire, ingannare. La negazione totale del morire.
Ma per fortuna proprio mentre scrivevo ciò, sono arrivate le sette regole che la Società Italiana di Psichiatria ha deciso di divulgare per affrontare e vin- cere la paura generata dalla circolazione di notizie infondate o non vagliate accuratamente. Sono vere. Non scherzo. Prendete subito nota:
1.   attenersi alle comunicazioni ufficiali delle autorità sanitarie;
2.   riconoscere che le cose spaventose che attraggono la nostra attenzione non sono necessaria- mente le più rischiose è il primo passo verso la consapevolezza;
3.   contenere la paura, mantenere la calma ed evi- tare di prendere decisioni fino a quanto il panico non è passato;
4.   affidarsi solo alle testate giornalistiche ufficiali e autorevoli;
5.   non fare tesoro di ciò che si intercetta online e sui social media, soprattutto se condiviso da amici solo virtuali, che in realtà non si conoscono davvero, e se non accuratamente verificato;
6.   rivolgersi al proprio medico e non fare domande su gruppi social, chiedendo opinioni;
7.   se compaiono sintomi come panico, ansia o depressione rivolgersi ad uno specialista al fine di un’adeguata diagnosi.
 Ecco, soprattutto, mi raccomando, l’adeguata diagnosi psichiatrica, è la prima cosa da ottenere, in questi casi.
Come vedete, il bello di questo coronavirus, questo virus che ancora non sappiamo se è una bufala e se la sua epidemia è un’epidemia fake scrivo questo pezzo che siamo ai primi di marzo, quando uscirà il numero di aprile di “A” sarà passato almeno un mese; adesso il mondo, il paese, è letteralmente diviso in due: chi se la fa sotto e pensa che la fine è arrivata, e chi non si capacita di come tutti stiano abboccando, scambiando questa sindrome solo un po’ più aggressiva dell’annuale influenza,  per la peste bubbonica è che per  un attimo ci ha ricordato, a noialtri che viviamo come zombie
in una specie di eterno presente, che:
1.   capita anche di morire;
2.   possono morire anche i ricchi non solo i morti di fame che arrivano  dall'Africa o i cinesi rurali che si mangiano topi, cani e pipistrelli;
3.   ogni tanto bisogna guardarsi attorno, guardare la disperazione che ci circonda, l’inferno che ci circonda;
4.   quasi tutto quello che facciamo nella vita, che acquistiamo, di cui ci nutriamo, è inutile, se ne potrebbe fare a meno;
5.   lavarsi le mani, nella vita, anche molte volte al giorno, anche sempre, può non bastare;
6.   a volte è meglio stringerle le mani, dare una mano, piuttosto che lavarle e tenersele in tasca;
7.   i politici, i giornalisti, i virologi e gli psichiatri, be’, come posso dirlo senza essere troppo offensivo? non è che siano dei grandi punti di riferimento per gli esseri umani che non sono politici giornalisti virologi o psichiatri.


Vivere fa ammalare

Aggiungo solo che adesso ho capito perché da un po’ di giorni mi porto dietro Il gaucho insostenibile nell’edizione Sellerio, che è più bella e più piccola e più comoda e nella traduzione di Maria Nicola, che non è Angelo Morino, il povero Angelo Morino che in 2666 Bolaño trasforma in Morini, il torinese Morini, uno dei quattro critici fanatici di Benno Von Arcimboldi; perché ne Il gaucho insostenibile non c’è solo il racconto omonimo, che non esito a definire il racconto perfetto, lo ridico, il racconto perfetto, non solo c’è Il poliziotto dei topi dove fa il verso a Kafka, non solo c’è Il viaggio di Alvaro Rousselot e Due racconti cattolici, non solo c’è Jim e I miti di Chtulhu, il vero motivo per cui me ne vado in giro da un po’ di tempo con il libretto blu Sellerio sempre nello zaino anche qui in ospedale ce l’ho sempre con me, nella tasca del camice le poche volte che indosso il camice, se no nella tasca dei jeans perché il libretto si riesce a infilarlo dicevo quando vengo nel reparto psichiatrico, questo buco nero da cui si apre il portale per gli altri mondi, altri mondi da dove i ricoverati entrano e escono mentre io sto qui solo a ratificarne l’andirivieni, il vero motivo per cui me lo porto dietro è che devo leggere e rileggere Letteratura + malattia = malattia. Dedicato al suo amico dottore epatologo, Vìctor Vargas.
Bolaño ha cinquant’anni. La mia età. Anche meno. Bolaño sta morendo. Il fegato non funziona. Aspettare che uno muoia, che il suo fegato sia non solo buono ma pure compatibile, sperare che il corpo di Bolaño non rigetti il fegato compatibile di quel corpo umano che è appena morto. Troppi eventi magici. Non ce la farà.  Bolaño lo sa. Bolaño infatti scrive Malattia e conferenze: “Nessuno deve stupirsi del fatto che il conferenziere salti di palo in frasca. È gravemente malato”. Malattia e Dioniso: “La colpa è tutta di Dioniso”. Malattia e Apollo: “Apollo è gravemente malato”.  E così via.   Ma è Malattia e viaggi che mi interessa particolarmente. È per questo che mi porto sempre dietro il libretto blu.
Pensate, mia figlia diciassettenne ora che compie la maggiore età vuol andare a Capo Nord col suo ragazzo. Venti giorni. E dopo vogliono andare a New York, due settimane. Ma che è questa smania che hanno, gli esseri umani, soprattutto quando sono giovani, di viaggiare? Di spostarsi per acqua o per mare o per aria intorno al pianeta? Ma non lo sanno che così pure i virus si spostano insieme a loro? E così, alcuni giorni fa, preso dall'esasperazione le ho letto Malattia e viaggi. Ascolta, e dopo vedi se avrai ancora voglia di viaggiare. Dopo vedi, se non ti pas- sa la voglia di muoverti.
“Viaggiare fa ammalare. Una volta i medici raccomandavano ai loro pazienti, soprattutto a quelli che soffrivano di malattie nervose, di viaggiare. I pazienti, che in genere erano ben provvisti di denaro, obbedivano e s’imbarcavano in lunghi viaggi che duravano mesi e talvolta anni. Quelli che soffrivano di malattie nervose ed erano poveri non viaggiava- no. Alcuni, come si può immaginare, impazzivano. Ma anche quelli che viaggiavano impazzivano o, peggio ancora, contraevano nuove malattie via via che cambiavano città, clima, abitudini alimentari. In realtà, è più sano non viaggiare, è più sano non muoversi, non uscire di casa, stare ben coperti d’inverno e togliersi la sciarpa solo d’estate, è più sano non aprire bocca e non battere ciglio, è più sano non respirare. Ma la verità è che uno respira e viaggia. Io, tanto per fare un esempio, ho cominciato a viaggiare da giovanissimo […] Risultato: molteplici malattie […] Ma tutto, prima o poi arriva. Arrivano i figli. Arrivano i libri. Arriva la malattia. Arriva la fine del viaggio”.
Il bello di aver riscoperto la morte ai tempi del coronavirus è che, per un po’, ci sarà proibito viaggiare.




Nessun commento:

Posta un commento