Statue e monumenti, soluzione alla
tedesca? - Claudio Geymonat (*)
In Germania molte opere d’arte discusse e
discutibili sono affiancate da pannelli che ne spiegano il contesto e
l’origine, nel tentativo non semplice di contestualizzarne la genesi
Fra iconoclastia e tutela ad ogni costo
delle statue in quanto rappresentazione della storia collettiva, anche se
spesso senza la S maisucola, la Germania da tempo ha scelto una via mediana,
che pur non esente a intervalli regolari da critiche, può rappresentare una
concreta modalità di gestione delle diverse tensioni.
Da tempo a fianco di alcuni monumenti e
statue i cui soggetti sono stati protagonisti di vicende anche tragiche del
passato sono state apposte delle targhe esplicative, che riportano spiegazioni
utili a contestualizzare i protagonisti e le vicende rappresentate. Non una
giustificazione di alcunché, ma un aiuto a comprendere perché in un dato
periodo storico si era sentita la necessità di innalzare una testimonianza
concreta a questo o a quel personaggio.
Non tutto è stato ovviamente salvato nel
tempo: le opere dedicate ai terribili anni del nazismo sono state in larga
parte abbattute, ma col passare degli anni alcune strutture sono state
risparmiate, in primis per la loro funzionalità, come il centro congressi di
Norimberga, teatro delle oceaniche adunate del reich, mentre le
recenti scoperte di campane con frasi o simboli che si rifanno all’identità
nazista sono state o spostate in musei accompagnate da
targhe esplicative o eliminate,
segnale di differenti tensioni su temi che toccano la carne viva del passato
tedesco, seppur con una intensità di dibattito decisamente attenuata rispetto a
un tempo. L’idea oggi è per lo più che il rischio di un’idolatria postuma sia
scongiurata. Quanto questa visione, e previsione, sia corretta, viene
spesso da dubitarne.
Stessi dibattiti attorno ai cosiddetti “Judensau”,
bassorilievi antisemiti datati Medioevo (anno 1305 quello sulla chiesa di
Wittenberg ad esempio), che rappresentano una scrofa che allatta dei
giovani ebrei mentre un rabbino è intento a scrutare le natiche dell’animale.
Oggi una simile opera ci fa sobbalzare sulla sedia, o almeno dovrebbe. A più
riprese in questi anni sono state intentate delle cause per giungere alla loro
rimozione (sono una trentina in Germania e un paio in Francia), ma ancora nei
giorni scorsi un tribunale ne ha rigettato l’ultima in ordine di tempo, con la
motivazione che la scultura è parte di un monumento censito come storico a
rilevanza nazionale, per cui non sottoponibile a revisioni di sorta, e
aggiungendo che la targa esplicativa (collocata nel 1988) è sufficiente per contestualizzare
il suo messaggio offensivo.
Le reazioni indignate continuano a essere
molte e migliaia di firme sta collezionando una apposita petizione on line lanciata
oramai alcuni anni fa che chiede la rimozione delle Judensau, così come fanno a
gran voce il consiglio parrocchiale e lo stesso pastore della chiesa.
Altro aspetto è quello dei monumenti
legati al passato coloniale tedesco: anche in questo caso il commissario
culturale evangelico Johann Hinrich Claussen ha supplicato di lasciarli il
più possibile in piedi e di commentarli storicamente e artisticamente. «È
importante ripensare la presentazione insieme, perché molte persone vivono in
Germania e hanno una storia di migrazione dalle ex aree coloniali», ha detto
Claussen all’Evangelical Press Service (Epd). «Finora, i monumenti coloniali
non sono stati al centro dell’attenzione e in questi ultimi anni finalmente
qualcosa sta cambiando».
«Abbiamo un grande compito educativo
davanti a noi» ha proseguito Claussen. «I monumenti potrebbero svolgere un
ruolo importante in questo contesto. Portano un tema scomodo nello spazio
pubblico, in modo problematico. Ci sono molti modi comprovati e creativi per fare
corretta informazione a riguardo».
In considerazione della richiesta da parte
di alcuni gruppi interessati di abolire monumenti o altre forme di memoria come
i nomi delle strade, che sono visti in relazione alle accuse di antisemitismo,
razzismo o sessismo, Claussen ha dichiarato: «Dobbiamo decidere caso per caso.
A volte tali monumenti sono semplicemente sbagliati. e stupidi, altri sono
veramente delle ferite, altri vengono attaccati a torto».
L’associazione Berlin Postkolonial da
vari anni sta tentando di far cambiare molti nomi delle vie della capitale
tedesca e di altre città. L’ Afrikanisches Viertel di Berlino,
il quartiere africano, nei nomi delle sue vie riflette il coinvolgimento
coloniale tedesco a cavallo fra XIX e XX secolo: la Wissmannstraße,
deriva dall’esploratore Hermann von Wissmann, inviato dal Re Leopoldo II di
Belgio in quella che oggi è la Repubblica Democratica del Congo vista la sua
abilità nel piegare interi villaggi al volere Europeo, bruciandoli; la Lüderitzstraße da
Adolf Lüderitz, mercante e personaggio politico nella colonia dell’Africa
Tedesca del Sud-Ovest, corrispondente oggi allo stato della
Namibia, sfruttò e prese il controllo delle risorse e terre dei locali.
Come riporta il portale Berlino Magazine tutt’oggi in Namibia esiste la
cittadina di Lüderitz, soprannominata anche la “Monaco del Deserto”. Stesso
discorso per Gustav Nachtingal, Carl Peters o Carl Hagenbeck che commerciava
leoni e tigri per il circo di P.T. Barnum e progettò di allestire lo
zoo come vetrina per gli animali provenienti dai possedimenti africani della
Germania. Seguendo il modello del parco esistente ad Amburgo, il sito avrebbe
probabilmente anche ospitato uno zoo umano in cui esibire popolazioni non
europee come se fossero una specie di fauna selvatica. Quello zoo non si è mai
aperto, ma la sua concezione si rifletteva nei nomi delle strade vicine. Ancora
oggi, ci si ritrova a passeggiare lungo Togostrasse, attraversando
la Kamerunerstrasse per imbattersi nel piccolo parco
sulla Kongostrasse.
Dibattiti su dibattiti ma i nomi delle vie
sono ancora quelli.
La damnatio memoriae non
l’abbiamo certo inventata nel XXI secolo e le soluzioni non appaiono semplici,
anche in Italia. Come ricordava il pastore Peter
Ciaccio, guardiamo al dibattito anche acceso in
corso nelle altre nazioni con in fondo un certo distacco, e non sappiamo
cogliere che «ci sono, infatti, ancora strade, gallerie, ponti, scuole, caserme,
ospedali, addirittura la Biblioteca Nazionale di Napoli, che sono intitolati a
Vittorio Emanuele III. Questo nome è legato alle Leggi Razziali: Vittorio
Emanuele III fu il sovrano che, firmandole e promulgandole, tradì quei
cittadini ebrei delle cui vite era il massimo responsabile in terra.
È un momento buio nella nostra storia,
forse il momento più buio del già oscuro Ventennio fascista. Le Leggi Razziali
declassarono a nemici della razza italica — qualunque cosa questa espressione
volesse dire — uomini, donne e bambini ebrei, che erano fino a quel momento
sudditi e cittadini della monarchia, persone che contribuivano al destino del
nostro paese.
Ancora oggi, a 75 anni dalla liberazione,
il nome di Vittorio Emanuele III appare su decine, forse centinaia di luoghi
pubblici: sarebbe ora che quel nome fosse sostituito con i nomi di ben altri
italiani, magari proprio di ebrei espulsi dalla vita pubblica italiana a causa
di quelle leggi.
Non si tratta di rimuovere la storia o di
buttare giù monumenti, quanto piuttosto di prendere atto della storia, di come
sono andate le cose. Si tratta di rendere giustizia alla storia, alle cittadine
e e ai cittadini ebrei italiani che persero ogni diritto in maniera arbitraria
da un giorno all’altro. Sarebbe un gesto di riparazione importante dopo che
tanti italiani non ebrei approfittarono come dei rapaci nel ricoprire i posti
di lavoro che gli italiani ebrei furono costretti a lasciare liberi, nelle
università, nei tribunali, nell’esercito. Sarebbe un importante atto di
riconciliazione nazionale. Sarebbe una battaglia che potremmo fare insieme come
chiese e comunità religiose, come associazioni laiche che promuovono un’Italia
dove non ci sia più spazio per il razzismo. Sarebbe una possibilità di azione
comune, di unità».
(*) ripreso da riforma.it
Montanelli, non chiamateli errori: erano
crimini - Nadira Haraigue (**)
“Nessuno
schiavo è più infelice di quello che mette al mondo figli destinati a essere
schiavi.” (Esopo)
Il tema non è distruggere, rimuovere o
salvare una statua perché quelle, aldilà del fatto assolutamente soggettivo che
possano piacere o meno, non ci aiuta a guardare la realtà nel suo complesso.
Una statua è una semplificazione; l’idealizzazione dei valori che un certo
personaggio ha rappresentato che, per sua natura fredda ed asettica, non può
cogliere la complessità dell’esistenza soggettiva. Ma l’uomo, evidentemente, ha
bisogno di simboli.
Nella vita, è necessario sapere mettere
insieme sia la professionalità e quello che rappresenta, che la morale e
l’etica. In politica invece, è utile saper mettere insieme ciò che è in linea
con i nostri valori e ciò che non lo è. Altrimenti riabilitiamo il “ha fatto
anche cose buone”, o “Italiani brava gente”, senza fare mai davvero i conti con
le violenze, i soprusi ed il razzismo del nostro passato coloniale; e poiché
non siamo qui a redimere le persone né i popoli, ciò che si è fatto nella vita
e i segni che si sono lasciati nella storia, nel bene e nel male, rimangono.
Non si può cancellare i capitoli del nostro passato che ci piacciono meno.
Ognuno di noi, come individuo e come parte di un collettivo, si porta dietro
un’eredità, un lascito del passato che non è possibile abbandonare per strada.
Come uno zaino o, a volte, un fardello.
Se dobbiamo parlare dell’uomo Montanelli,
è indispensabile precisare che non possiamo semplicemente perdonare tutto o,
peggio ancora, inserire tutto in un contesto storico per trovare una scusante.
Nella vita esistono i crimini ed esistono gli errori. Abusare di una bambina di
dodici anni (a dodici anni si è ancora bambini) dopo averla comprata per “two
cents” (e il riferimento non è assolutamente casuale) e chiamata “animaletto
docile”, non è un errore, ma un crimine. Perché basato su un presupposto
preciso, quello relativo alla superiorità razziale e di genere. D’altronde lo
stesso Montanelli diceva: “non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la
coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si
fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una
civiltà”.
Tre uomini bianchi e una donna nera. Un
sorriso beffardo sulla bocca di uno di loro mentre la vittima urla e si dibatte
tra le mani dei suoi carnefici, invano. È il famoso dipinto «Le viol de la
négresse» dell’artista fiammingo Christiaen van Couwenbergh (XVII secolo),
che descrive gli orrori del sistema colonialista e schiavista. Ci dimentichiamo
o ci conviene dimenticare la violenza coloniale espressa tramite gli stupri.
Gli inglesi, i francesi, gli italiani facevano spesso ricorso a queste pratiche
sugli africani e, se allora non scioccava perché “si usava così”, giustificarlo
oggi è inaccettabile. Contestualizzarlo significa giustificarlo e significa
anche esserne complici o, semplicemente, girare lo sguardo da un’altra parte.
Nelle colonie in Africa in generale e nel
Corno d’Africa in particolare, i popoli sono stati vittime di atrocità come
deportazioni, incendi di villaggi, stupri e torture. Le donne “indigene” sono
state particolarmente colpite perché considerate inferiori sia per la razza che
per il genere e c’è poco da definire “animaletto docile” una bambina perché la
superiorità del maschio bianco la si dimostrava con la forza e con la violenza
ma nascosta dietro un piccolo compenso per scaricarsi la coscienza pensando di
“aiutare i famigliari”.
Le differenti forme di violenza contro le
donne africane si sommavano insidiosamente in un contesto nazionalista,
razzista e maschilista che non è estraneo all’influenza di immagini
stereotipate del colonialismo dei secoli passati come descrivere le colonie
come territori esotici ed erotici che ha caratterizzato il colonialismo
fascista in Africa. La colonia dipinta come spazio vergine da scoprire e da
conquistare, un nuovo mondo da penetrare. Il discorso coloniale italiano,
impregnato di queste immagini, faceva ricorso spesso a delle espressioni
suggerite dall’associazione della colonia al corpo delle donne. L’erotizzazione
delle colonie è stata inculcata nella mente del colonizzatore fino al XX secolo
ed è stata, consciamente o inconsciamente, assimilata dai coloni. Schiavizzare
le popolazioni, toglierne l’identità, seviziare, umiliare, stuprare e
distruggere.
Le diverse forme di violenza perpetrata
sulle ragazzine e le donne africane rivelano comportamenti tipici dei
colonizzatori bianchi. Fin dall’inizio della politica coloniale mussoliniana,
l’Italia si è inspirata al principio legato al ruolo del Paese portatore di
civiltà come lo sono state le altre potenze imperialiste in Africa,
sottolineando la sua volontà di impegnarsi in un processo di liberazione dalla
schiavitù dei popoli. La schiavitù non fu mai abolita e i popoli mai liberati.
Fu solo un passaggio di proprietà da un imperialista ad un altro.
“Faccetta nera, bell’abissina, aspetta e
spera che già l’ora si avvicina. Quando staremo vicino a te, noi te daremo
un’altra legge e un altro Re. La legge nostra è schiavitù d’amore, ma è libertà
de vita e de pensiere.”
La sposa bambina di Montanelli assume il
profilo della Faccetta Nera di Micheli, canzone che era invisa
al governo fascista, perché inneggiava alla mescolanza tra razze ma adorata dai
coloni italiani perché, in essa, vedevano riconosciuto il proprio ruolo di
civilizzatori e ci nascondevano i loro crimini. Non basta prendere le distanze
da Mussolini e dal fascismo. Siamo stati un popolo razzista, suprematista e
fautore della retorica del dominatore bianco. Soltanto elaborando gli errori
del passato potremo eliminare definitivamente il nazionalismo ed il sovranismo
dal nostro patrimonio sociale. È facile dire semplicemente che Mussolini era
cattivo. È più complesso riconoscere dei tratti culturali che ci hanno definiti
come popolo. Non esistono soltanto le colpe individuali, ma anche le
responsabilità collettive. Montanelli e Mussolini sono stati chiamati a
rispondere dei propri atti di violenza la cui colpa è ricaduta solo e soltanto
su di loro. La responsabilità collettiva dello zeitgeist italiano di inizio
900, invece, ricade su tutti noi, che abbiamo il dovere di riconoscere e porre
rimedio agli errori del nostro passato, come popolo e come civiltà.
Montanelli non sì è mai pentito e non ha
nemmeno messo in discussione il proprio passato razzista, non ha fatto
autocritica, non ha riconosciuto i propri crimini. In breve, aveva sfogato sul
corpicino di una bambina i suoi istinti più primitivi e ne parlava con una
sconcertante facilità. Guardando con condiscendenza al proprio passato ha
riferito al pubblico e ai suoi lettori di essere stato un dominatore buono,
amato ed adorato a tal punto dal suo animaletto, da aver condizionato la scelta
del nome del figlio di quest’ultimo.
Come può un uomo istruito, un
intellettuale, trovare qualcosa di attraente nel corpicino di una bambina
ancora priva di forme? Come può, un uomo occidentale ed evoluto, parlare di lei
come fosse priva di anima, di paure e di sentimenti? A quelle bambine lasciate
pure incinte, hanno annientato ed annullato tutto. Per il semplice motivo che
per secoli, il continente africano è stato considerato, ed è tutt’ora
considerato, una sorgente di materie prime e schiavi da sfruttare e gettare
nell’indifferenziata del mar mediterraneo.
Indro Montanelli era in Africa ai tempi
del fascismo ma questi metodi sono stati usati fino a sessanta anni fa quando i
coloni erano ancora padroni in terre indigene e durante le guerre di liberazione.
Lo stupro come tortura e come tentativo di dimostrare la propria dominazione
sul corpo di quelle donne che hanno osato sfidare il bianco per
l’autodeterminazione del proprio paese. Lo stupro come punizione per dimostrare
la propria superiorità come uomini bianchi. Lo stupro per dimostrare
l’ancestrale convinzione della superiorità dell’uomo sulla donna. Lo stupro
delle bambine invece è da relegare ad un’altra sfera. È pedofilia e non ci
sarebbe nemmeno da discuterne.
A coloro che giustificano Montanelli con
la scusa che negli anni trenta si faceva così, bisognerebbe ricordare che negli
anni sessanta, scriveva, commentando le rivolte per l’iscrizione di un
afroamericano all’università di Oxford: “Per quanto la sollevazione
segregazionista fosse un errore, tuttavia questo errore e questo sopruso sono
stati un eccesso di difesa ispirato da una preoccupazione che purtroppo è
legittima: quella della salvaguardia biologica della razza bianca”. E sempre
negli anni sessanta, quando un popolo nordafricano era in guerra contro il
colonialismo francese per la propria indipendenza e per cancellare gli abusi,
soprusi e stupri che i coloni perpetravano, Montanelli rilasciava un’intervista
a Le Figaro Littéraire in cui diceva: “Ah! La Sicilia! Voi
avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia. Ma voi non siete obbligati a dire agli
algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravante, siamo obbligati ad
accordare ai siciliani la qualità di italiani.”
La statua di porta Venezia è dedicata al
Montanelli giornalista o al Montanelli razzista? Siamo disposti a perdonare i
crimini e le violenze di un uomo per il suo talento e la sua libertà di
pensiero?
Parlare della statua sì o no è
anacronistico. La statua fu una decisione del Sindaco Albertini e, allora, non
ci furono tutte queste polemiche. Non a questo livello. Parlarne oggi ha avuto
il clamoroso effetto di spostare lo sguardo da un fatto grave come l’uccisione
di Floyd e del razzismo in generale su una questione poco rilevante come una
statua. Ma ha avuto l’effetto di fare uscire allo scoperto coloro che, pur di
attaccare l’asino dove dice il padrone e nel grottesco tentativo di difendere
la figura del giornalista, di giustificare lo stupro, l’acquisto delle spose e
la pedofilia.
E questo è inaccettabile.
(**) pubblicato il 22 giugno su “La voce
metropolitana” e ripreso da “R-esistiamo” – del gruppo “DEPORTATI MAI PIU’ –
dove continua a svilupparsi un dibattito estremamente interessante (e
documentato) sulla questione Montanelli e sulle molte connessioni storiche.
Eurodeputata Fofana denuncia al Parlamento europeo la
violenza della polizia (con video) - Doriana
Goracci (***)
"La Vita dei Neri Conta", ha proclamato al Parlamento europeo l’ eurodeputata tedesca dei Verdi Europei, Pierrette Herzberger-Fofana nata a Bamako,capitale del Mali,71enne: “Quando ho detto al poliziotto che ero un membro del Parlamento europeo, non mi ha creduta”.
Questo e altro -da ascoltare e vedere
nel video,- ha dichiarato Pierrette Herzberger-Fofana, mercoledì 17 giugno nella sessione plenaria del
Parlamento europeo, dopo aver presentato una denuncia come “vittima della
violenza della polizia” il giorno dopo l’umiliante trattamento avuto.
Lei, eurodeputata tedesca dei Verdi,
davanti al Parlamento europeo ha dichiarato di essere stata vittima della
violenza della polizia a Bruxelles mentre stava fotografando con il suo
smartphone,un intervento che considerava un abuso.Ha desiderato condannare
l’ “atto discriminatorio con tendenza razzista” che ha subito la non più
giovane signora quando ha lasciato la Gare du Nord a Bruxelles: “Ho visto
nove agenti di polizia che molestavano due giovani neri.”L’eurodeputata ha
spiegato che aveva il telefono in mano, ha scattato una foto della scena,e che
farlo era legale: “La polizia mi ha preso il telefono dalle mani. Quattro
dei nove poliziotti armati mi hanno spinto brutalmente contro il muro. Hanno
preso violentemente la mia borsa. Mi hanno messo al muro a gambe
divaricate ” e secondo la sua versione, contestata dalla polizia belga,
quest’ultima non ha creduto alla sua funzione di deputato al Parlamento europeo
e ha richiesto la sua carta di soggiorno in Belgio malgrado abbia prodotto
il passaporto tedesco con il pass del Parlamento europeo.
Il presidente del parlamento David Sassoli le ha assicurato il sostegno delle istituzioni e l’ha
invitata a chiarire le circostanze al fine di chiedere una spiegazione alle
autorità belghe e ha inviato una lettera al primo ministro
belga Sophie Wilmès chiedendole di adottare “misure immediate e
necessarie” e condannando la violenza della polizia:
“Come presidente di questa istituzione e in nome di tutti i parlamentari europei, condanno fermamente tutti gli usi eccessivi della violenza, in particolare da parte della polizia”.
“Come presidente di questa istituzione e in nome di tutti i parlamentari europei, condanno fermamente tutti gli usi eccessivi della violenza, in particolare da parte della polizia”.
“Il colore della pelle della nostra
collega non è estraneo al fatto stesso che è stata arrestata e alla brutalità e
alla mancanza di rispetto che ha sofferto” ha dichiarato Philippe
Lamberts, copresidente del gruppo politico (Verts-ALE)
a cui appartiene Pierrette Herzberger-Fofana.
La polizia di Bruxelles ha negato di aver
usato la violenza e ha riferito di comportamenti “aggressivi” della stessa che
hanno portato alla stesura di un rapporto per “disprezzo” nei loro confronti : ”Voleva
interferire nell’intervento, stava girando la scena e inizialmente si è
rifiutata di identificarsi ha dichiarato Audrey Dereymaeker, portavoce della zona di polizia di Bruxelles-Nord.
“È vero anche che c’è stata una ricerca di sicurezza con una breve privazione
della libertà, nel tempo di verificare la sua identità, e seguire la solita
procedura da una poliziotta.”
Ha spiegato che il deputato in realtà
aveva “il diritto di filmare l’intervento”: “Ma lì, è stata coinvolta
nell’intervento perché la polizia interviene e interferisce per effettuare
un controllo di identità. “Ha aggiunto che è stato redatto un documento per “le
parole pronunciate dal membro dell’ Europarlamento e il modo in cui si è rivolta
alla polizia che hanno portato il magistrato a chiedere alla polizia stessa di
redigere una risposta”.
Descrive questa esperienza come
“traumatica e umiliante”. E ritiene che abbia un’eco particolare per ciò
che sta accadendo nel mondo dalla morte di George Floyd negli Stati Uniti. Pierrette Herzberger-Fofana
invita il Parlamento europeo ad adottare “misure concrete per un buon numero di
persone che non sono qui e che non sono state in grado di sfuggire alla
violenza della polizia”.
L’avvocato di Pierrette
Herzberger-Fofanan, Alexis
Deswaef, ha confermato che è stata
presentata una regolare denuncia.
In questo modo la deputata ha
voluto anche stabilire un collegamento con la mobilitazione contro la
violenza della polizia in seguito alla morte di George Floyd negli Stati Uniti, anche durante un dibattito
sull’argomento che stava per aprirsi nell’emiciclo. Michel Wieviorka,
sociologo, si augura che “Questa mobilitazione planetaria contro la violenza
della polizia e il razzismo, possa spostare le sue linee di azione se riesce a
mantenere il suo carattere universalista”.
Il Parlamento europeo è stato coinvolto
nel movimento globale contro il razzismo quando venerdì sera adottando una
risoluzione che dichiara il traffico di schiavi “un crimine contro l’umanità” e
viene usato usa lo slogan “Black Lives
Matter La vita dei neri contaLa vita dei
neri conta “, riprendendo lo slogan “Black Lives Matter” del movimento mondiale partito dagli Stati Uniti
contro il razzismo e la violenza della polizia.
Anche i deputati europei dichiarano in
questa risoluzione, adottata con 493 voti a favore, 104 contrari e 67
astensioni, che il traffico di schiavi è “un crimine contro l’umanità”. Questa
risoluzione è una risposta diretta alle proteste che si sono moltiplicate dopo
la morte di George Floyd, morto asfissiato durante il suo arresto da parte
della polizia a Minneapolis, negli Stati Uniti.Nel suo testo, il Parlamento
“condanna fermamente la morte spaventosa di George Floyd negli Stati Uniti,
così come altri omicidi simili in altre parti del mondo”. Mostra il suo
sostegno alle recenti manifestazioni contro il razzismo e la discriminazione e
condanna il “suprematismo bianco in tutte le sue forme”.
Nota bene: Gli eurodeputati della Lega e di Fratelli d’Italia
hanno votato contro la risoluzione al Parlamento europeo che condanna ogni
forma di razzismo dopo la morte di George Floyd. A favore della risoluzione gli
europarlamentari del Pd, del M5S, Forza Italia e Italia Viva.
Ringrazio l’amica Marcelline
Bangoura, cittadina italiana nata in Guinea che mi ha
inviato il video che allego e per il quale ho scritto questo post. La
stessa eurodeputata il 13 febbraio 2020 aveva portato a Strasburgo, un documento sulle violenze eseguite sui manifestanti proprio
in Guinea, nel quale concludeva così: “È importante che l’Unione europea
sviluppi bene il nostro partenariato con l’Africa, qualifichi e moltiplichi le
nostre relazioni con attori diversificati, per sostenere lo stato di diritto, i
diritti umani e il cosiddetto processo democratico e inclusivo in patria. e con
i nostri partner in Africa.”
Su Facebook la signora Pierrette
Herzberger-Fofana scrive: “A
tutti coloro che hanno inviato un messaggio di sostegno e solidarietà; Grazie!
Insieme combatteremo contro la violenza della polizia. – abbiamo bisogno di
giustizia per tutti!”
Ringrazio anche io e l’abbraccio – Doriana
Goracci
N.B. Pierrette
Herzberger-Fofana, nata a Bamako il 20 marzo del 1949, cresciuta in Senegal,
ottenne una laurea a Parigi in sociolinguistica tedesca e presso l’università
di Treviri in letteratura, presso l’università Friedrich-Alexander di
Erlangen-Norimberga un dottorato in scienze politiche; svolse la professione di
lettrice presso le scuole superiori di Erlangen e in alcune università. Dagli
anni 90 promuove varie campagne per tutelare i diritti umani in Germania e in
altre nazioni, tra cui il Senegal. In particolar modo, ha avviato campagne
contro le mutilazioni genitali femminili, il razzismo, per la tutela dei
diritti delle donne e degli immigrati. E’ madre di tre figli. Alle elezioni
europee del 2019, viene eletta europarlamentare con il partito Alleanza 90/I
Verdi. Ricopre l’incarico di vicepresidente della delegazione per le relazioni
con il parlamento panafricano e della commissione per lo sviluppo. Durante la
sua attività parlamentare, ha chiesto l’intervento dell’UE a sostegno della
Nigeria, per garantire la sicurezza nel paese, colpito dagli attacchi di Boko
Haram a danno delle comunità locali per motivi religiosi, e per il problema
della malnutrizione infantile. Ha, inoltre, preso posizione contro gli atti di
violenza perpetrati in Guinea nel febbraio del 2020.
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