(Intervista a Parwana
Amiri di Valerio Evangelista)
Ad aprile il coronavirus ha raggiunto il campo di Ritsona, dove vivi. Come
è stata gestita l’emergenza?
Dopo la
scoperta dei primi contagi nel campo, le autorità hanno dichiarato la
quarantena e ostacolato ogni contatto con l’esterno. Siamo stati lasciati a noi
stessi per quasi due settimane, senza alcuna assistenza medica. Mancavano
mascherine e guanti, ma sembra che non importasse a nessuno. Se avessimo almeno
ricevuto istruzioni pratiche su come comportarci sotto un profilo igienico e
sanitario, forse l’emergenza sarebbe rientrata rapidamente. Ma eravamo come
invisibili. Nessuno ci ha chiesto se avessimo bisogno di qualcosa. Malati,
disabili e donne incinte lasciati soli, senza assistenza. La risposta era
sempre la stessa: potete chiamare un’ambulanza, se avete bisogno. Siamo però a
quasi trenta minuti dall’ospedale più vicino, se ci fosse stata un’urgenza la
situazione sarebbe stata drammatica. E infatti così è stato. Abbiamo vissuto
nel terrore.
Com’è ora la situazione?
Ora nel
campo c’è un presidio medico. Ogni due settimane vengono effettuati dei tamponi
su un gruppo di persone selezionate in modo arbitrario; se ci sono nuovi
contagiati, le autorità estendono la quarantena di 14 giorni. Lo stato di
emergenza viene quindi rinnovato su base regolare. E questo è un problema.
Quante persone vivono nel campo di Ritsona?
Al momento
ci sono più di tremila rifugiati, la maggior parte dei quali viene dall’Afghanistan
e dalla Siria. Ci sono anche molti curdi che sono qui da quattro o cinque anni.
Viviamo stipati, è quasi impossibile seguire le norme di distanziamento
sociale. Le condizioni igienico-sanitarie sono talmente scarse che
favoriscono la diffusione del virus; nello stesso tempo, ogni nuovo contagio
comporta il rinnovo di quelle stesse condizioni che permettono al virus di
proliferare. È un circolo vizioso. Potenzialmente, il nostro lockdown
potrebbe durare all’infinito. A “proteggerci” è il fatto che siamo sotto
Ramadan.
Cosa intendi?
Il digiuno
rituale non è fine a se stesso ma serve, per chi crede, a un’elevazione
interiore e spirituale. La privazione del cibo porta a voler uscire di meno,
durante la giornata. Può sembrare un paradosso, ma credo che questo sia il
momento “migliore” per il distanziamento fisico. Voglio vedere il lato
positivo: se la diffusione del virus non fosse esplosa durante il Ramadan,
probabilmente i casi sarebbero molti di più. Inoltre, in un certo senso il
digiuno ci porta a superare, psicologicamente, le difficoltà derivanti dalla
mancanza di cibo.
Non c’è abbastanza cibo?
Riceviamo
soltanto delle buste di frutta secca. Mancano molte cose necessarie per
preparare un pasto adeguato. Come cipolle, farina, patate o pomodori. C’è
un’altra cosa. Come è noto, l’Unione europea ci riconosce una
somma attraverso le istituzioni incaricate di gestire i rifugiati. Quasi
un mese fa, questo cosiddetto pocket money è stato ridotto
senza spiegazioni né dichiarazioni ufficiali. Addirittura, alcune persone non
hanno ricevuto nulla. Non solo non riceviamo cibo adeguato, ma non possiamo
nemmeno comprare qualcosa dai negozi all’interno del campo.
Come sta reagendo la società civile greca?
La maggior
parte della popolazione locale con cui ho un contatto è solidale con rifugiati
e migranti. I greci ci hanno aiutato molto. Quando il campo era sprovvisto di
un dipartimento medico, è stata la gente del posto a portare le medicine che
chiedevamo loro. Nei giorni in cui le istituzioni erano assenti hanno anche
provveduto pannolini e altro materiale per bambini. La realtà però non è mai
univoca. Ci sono anche molti greci che pensano che siano i rifugiati ad aver
portato il virus. Quando potevamo ancora uscire dal campo, è successo più volte
che i locali cambiassero strada nel vedere un rifugiato, per paura di contrarre
il virus. In generale, l’emergenza sanitaria ha amplificato le fake news sui
profughi, che purtroppo sono spesso percepiti come degli untori. A volte siamo
stati maltrattati persino in ospedale.
Parlaci di un esempio concreto, per favore.
I rifugiati
in Grecia sono isolati anche dal punto di vista linguistico. Non ci sono
interpreti professionisti, perciò spesso i residenti del campo di Ritsona
chiedono che sia io ad accompagnarli in ospedale. Recentemente sono andata in
ospedale con una donna incinta. I dottori ci hanno trattate molto male. Loro
non sapevano una parola di inglese e si aspettavano che parlassimo greco. Io
vengo da un paese in guerra, ma nonostante ciò sono riuscita a imparare molte
lingue, tra cui l’inglese; loro vivono in pace e non hanno imparato nessuna
lingua internazionale. Che colpa ho io se non riusciamo a comunicare? Perché
trattare male una ragazzina? Inoltre, la donna incinta che accompagnavo era in
una situazione estrema; mi sarei aspettata che il personale sanitario mostrasse
conforto, umanità, desiderio di aiutare. Faccio fatica a credere che il vero
problema fosse la lingua. Sentivo di non essere accettate perché rifugiati.
Perdonami se ti interrompo. Quante lingue parli?
Pashto,
dari, inglese, turco e tedesco.
A soli sedici anni, già parli fluentemente cinque lingue. Molte più di
quanto l’europeo medio impari in una vita intera.
Questo non
lo so e non sta a me dirlo. So però che è merito della mia famiglia se ho
seguito la mia indole curiosa. Mi hanno incoraggiato molto. Avevo 12 anni
quando ho iniziato a studiare inglese, poi mi sono concentrato su altre lingue.
Cosa ti manca di più dell’Afghanistan?
Qui a
Ritsona ho i miei genitori, ma mi manca davvero il resto della mia famiglia. Si
possono trovare nuovi amici in qualunque luogo, ma la famiglia è una sola. Mi
manca moltissimo mia sorella, rimasta in Afghanistan con il marito. Avevamo un
rapporto unico. È così assurdo che abbiamo dovuto lasciare il nostro paese. È
ancora più assurdo sapere che potremmo non tornarvi mai più.
Qual è il motivo principale per cui siete scappati dall’Afghanistan?
In un paese
dove i terroristi insanguinano regolarmente città e villaggi, sono molti i
motivi per cui ci si possa sentire minacciati. Noi avevamo anche ragioni
politiche per lasciare la nostra terra. Sapevamo per certo di essere in
pericolo. E ci siamo messi in cammino. Siamo andati prima in Pakistan,
attraversando poi Iran e Turchia per giungere finalmente nell’Isola di Lesbo,
in Grecia. Dopo alcuni mesi nel campo profughi di Moria, siamo stati trasferiti
qui a Ritsona.
Verso quale paese europeo eravate diretti?
Cercavamo
solo rifugio. E ci sarebbe andato bene qualsiasi luogo nel quale potessimo
sentirci al sicuro. Pensavamo di poter vivere in pace qui in Grecia. Ma se
veniamo maltrattati proprio nella terra in cui è nata la democrazia, quale sarà
mai il luogo dove noi rifugiati potremo finalmente sentirci al sicuro?
Se avessi una sola possibilità di dare un messaggio all’Europa, quale
sarebbe?
Le direttive
delle Nazioni Unite insegnano a trattare gli esseri umani con uguaglianza e
dignità. Allora perché sembra che non sia affatto così? Il Covid-19 colpisce
persone indipendentemente dalla loro condizione sociale o paese d’origine.
Tuttavia, anche in questa situazione, la società tratta le persone in modo
diverso. Non dovreste aspettare una tragedia prima di mostrare amore al
prossimo. Pensate agli altri. Vi siete trovati in una situazione simile
durante le guerre che hanno colpito l’Europa nel secolo scorso. Siate
compassionevoli. Pensate agli altri e aiutiamoci a vicenda. La pandemia ci ha
insegnato una lezione morale molto profonda: possiamo superare i nostri
problemi soltando mostrando solidarietà e umanità. L’egoismo fa del male prima
di tutto all’egoista. Siamo tutti connessi. Noi siamo uno.
Cosa stai facendo per sensibilizzare il mondo esterno riguardo ciò che
accade tra i rifugiati a Ritsona?
In questo
campo profughi non ci sono giornalisti e siamo noi rifugiati a dover farci
sentire. Ecco perché sono molto attiva nei social media e su vari blog. Voglio
rompere il silenzio su noi rifugiati. È finito il tempo di nascondere i
problemi, ma è persino finito il tempo di accettarli come inevitabili. Dobbiamo
denunciare ciò che non funziona e reclamare i nostri diritti di essere umani.
Se un diritto non è universale, questo non è un diritto. È un privilegio, una
concessione. Se i miei occhi vedono una stortura, lotto per raddrizzarla. Se
non ci riesco, provo almeno a raccontare ciò che non va. Questo è ciò in cui
credo. E continuerò a farlo fino a quando non raggiungeremo libertà e
uguaglianza. Perché è quello che meritiamo, come esseri umani prima che come
rifugiati.
Come immagini la tua vita in Europa?
Vorrei
studiare tutto ciò che ha a che fare con la politica. La gestione di molti
problemi quotidiani è nelle mani dei politici, ma a volte dimentichiamo che è
la società civile a conferire autorità a chi governa. Ci disinteressiamo della
cosa pubblica, mettiamo da parte i nostri diritti e trascuriamo il nostro vero
valore di essere umani. Vorrei lottare, ovunque dovessi trovarmi in
futuro, per e con i cittadini di quel luogo.
Sogno di studiare scienze politiche perché la conoscenza e l’istruzione sono la
migliore arma per difendere i diritti degli oppressi. Sono grata alle riviste
indipendenti come Frontiere News che danno voce agli ultimi. Voi rivestite un
ruolo doppiamente cruciale: mostrate realtà che probabilmente molti europei non
conoscono, ma allo stesso tempo incoraggiate gli stessi rifugiati a far sentire
la propria voce e difendere i propri diritti. E se la storia personale che
condivido con voi riuscisse a smuovere anche la coscienza di una sola persona,
per me sarebbe la conferma che lottare per ciò in cui si crede è l’unica cosa
che possa fare la differenza nella società.
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