lunedì 22 giugno 2020

La lotta per cambiare il mondo secondo Angela Davis - Lanre Bakare



È il 1972. Angela Davis sta rispondendo alle domande di un giornalista svedese che le ha chiesto cosa pensa del ricorso alla violenza da parte delle Pantere nere. Alle sue spalle c’è il muro della cella di una prigione statale della California. Davis indossa un dolcevita rosso e porta la sua classica pettinatura afro. Con una sigaretta accesa tra le dita, fissa il giornalista con uno sguardo penetrante, poi risponde: “Mi chiede se approvo la violenza? Per me è una domanda senza senso. Mi chiede se approvo l’uso delle armi? Sono cresciuta a Birmingham, in Alabama. Alcuni miei amici sono stati uccisi dalle bombe fatte esplodere dai razzisti. Del periodo in cui ero molto piccola ricordo il rumore delle bombe che esplodevano, la casa che tremava. Per questo motivo, quando qualcuno mi chiede di parlare della violenza, mi sembra incredibile. Significa che la persona che mi sta davanti non ha la minima idea di cosa abbiano subìto gli afroamericani in questo paese dal momento in cui il primo nero è stato rapito sulle coste dell’Africa”.
Osservando il breve filmato si capisce perché Angela Davis è diventata un’icona. L’immagine, la determinazione, l’intelligenza. Davis è stata immortalata nel documentario del 2011 The black power mixtape, e alcuni spezzoni dell’intervista sono stati diffusi sui social network dopo che George Floyd, un nero di 46 anni, è stato ucciso da un poliziotto a Minneapolis, scatenando proteste in tutto il mondo. Oggi il suo libro Donne, razza e classe (Alegre 2018), pubblicato nel 1981, è considerato una lettura essenziale per chiunque voglia capire cos’è l’attivismo antirazzista, insieme a La prossima volta il fuoco di James Baldwin (Fandango 2020) e all’autobiografia dell’abolizionista Frederick Douglass.

Angela Davis ha 76 anni. È collegata via Zoom dal suo ufficio, in California. Le chiedo se dopo tutti questi anni ha la sensazione che un cambiamento concreto sia possibile. “Certo, la situazione oggi potrebbe essere diversa”, risponde. “Ma non è scontato”. Davis, comprensibilmente, si mostra prudente. D’altronde nella sua vita ha visto di tutto, dalle rivolte del 1965 a Watts, un quartiere di Los Angeles, alla guerra in Vietnam fino all’invasione dell’Iraq e ai disordini di Ferguson. “Dopo tutti i momenti segnati da una grande consapevolezza e dalla volontà di cambiamento, le riforme che sono state introdotte hanno cancellato qualsiasi possibilità di un cambiamento radicale”.
Davis, nel complesso, trova incoraggianti le proteste innescate dalla morte di Floyd. Non è la prima volta che gli Stati Uniti assistono alla nascita di movimenti su larga scala – l’ultima volta nel 2014, dopo la morte di Michael Brown, Tamir Rice ed Eric Garner – ma Davis pensa che oggi qualcosa sia cambiato: i bianchi stanno cominciando a capire.
“Non avevamo mai visto manifestazioni così prolungate, partecipate e diversificate”, sottolinea. “Penso che questo stia dando molta speranza alla gente. In passato, quando dicevamo Black lives matter (le vite dei neri sono importanti), c’era sempre qualcuno che diceva: ‘Ma non sarebbe meglio dire che tutte le vite sono importanti?’. Ora finalmente hanno capito. Si sono resi conto del fatto che fino a quando i neri verranno trattati in questo modo, fino a quando la violenza del razzismo resterà inalterata, nessuno sarà al sicuro”.
Se c’è una persona adatta a valutare la situazione attuale è sicuramente Angela Davis. Per cinquant’anni è stata una delle intellettuali più importanti della campagna per la giustizia razziale, anche se le cause che ha difeso – riforma carceraria, riduzione dei fondi della polizia, riorganizzazione del sistema di rilascio su cauzione – sono state sempre considerate troppo radicali. A un certo punto è sembrato che Davis fosse rimasta congelata nel passato, vincolata allo stile “radical chic” degli anni sessanta e sostenitrice di idee ormai fuori moda. Nel 2016 un giornalista del Wall Street Journal scrisse un ritratto dell’attivista in cui chiedeva ai suoi colleghi se conoscessero Davis. Tra quelli che non avevano ancora compiuto 35 anni nessuno sapeva chi fosse.
Oggi, a cinquant’anni dall’inizio della sua lotta, Davis sembra improvvisamente diventata il simbolo della giustizia sociale, ma ci tiene a riconoscere i meriti della nuova generazione di attivisti e pensatori politici. “Osservo questi ragazzi, così intelligenti e capaci di apprendere dal passato per creare nuove idee. Imparo molto anche da persone che hanno cinquant’anni meno di me. È emozionante, mi spinge a continuare la lotta”.
“Anche se la portata della reazione è sicuramente nuova, la causa non lo è, e penso sia importante sottolinearlo”. Davis non vuole che si dimentichi l’impatto dell’impegno sociale delle Pantere nere negli anni sessanta, in particolare dell’attivismo di comunità, dei laboratori formativi e dei banchi alimentari. “La causa va avanti da molto tempo. Ciò che osserviamo oggi nasce da un lavoro che è stato fatto per anni e che non ha ricevuto la giusta attenzione da parte dei mezzi d’informazione”.
Davis parla della militarizzazione della polizia statunitense dopo il Vietnam e dell’apertura per una riforma carceraria dopo la rivolta nel penitenziario di Attica del 1971, che però non è mai arrivata, almeno non nella forma che lei aveva immaginato. All’epoca della rivolta la popolazione carceraria degli Stati Uniti era di 200mila detenuti. Alla fine degli anni novanta è arrivata a più di un milione. “Ripensando a quel periodo ci siamo accorti che le riforme non hanno fatto altro che consolidare il sistema. Oggi abbiamo il timore che succeda di nuovo”.
Quale consiglio ha dato al movimento Black lives matter? “Dal mio punto di vista la cosa più importante è cominciare a esprimere idee su come far evolvere il movimento”. Naturalmente si tratta di un aspetto difficile da analizzare nel fervore di una protesta che si sta diffondendo in tutto il mondo. Tuttavia, per Davis è importante capire che l’incendio di un commissariato a Minneapolis o la rimozione della statua di Edward Colston a Bristol non sono la risposta definitiva. “A prescindere da quello che pensano le persone, questi gesti non porteranno un cambiamento reale”, spiega riferendosi alla rimozione della statua. “Ciò che conta è l’organizzazione, il lavoro. Bisogna continuare a lavorare, a organizzarsi per combattere il razzismo, a trovare nuovi modi per trasformare le nostre società. Solo così si può fare la differenza”.
Angela Yvonne Davis è nata a Birmingham, in Alabama, nel 1944. All’epoca uno dei politici più potenti della città e dello stato era il suprematista bianco Bull Connor. Conosceva alcune delle quattro ragazze che morirono nell’attentato realizzato dal Ku Klux Klan nel 1963 contro una chiesa battista, un crimine per cui le prime incriminazioni arrivarono solo nel 1977. “Sapevamo che il ruolo della polizia era quello di proteggere i bianchi”, ricorda Davis.
A 15 anni si trasferì a New York per frequentare le scuole superiori, per poi spostarsi in Germania Ovest e studiare filosofia e marxismo seguendo Herbert Marcuse e la scuola di Francoforte. Tornata negli Stati Uniti alla fine degli anni sessanta, entrò nel partito delle Pantere nere e nel Partito comunista. A causa dei suoi legami con il comunismo, il governatore della California dell’epoca, Ronald Reagan, la fece licenziare dall’incarico di assistente di filosofia all’università della California (Ucla).
Poi, nel 1970, la vita di Davis cambiò radicalmente. Un fucile che aveva comprato legalmente fu usato in un tentativo di fuga da un tribunale. La vicenda si concluse con la morte di un giudice che era stato rapito, oltre che di Jonathan Jackson (lo studente che aveva tentato la fuga) e altri due imputati. Davis fu accusata di “rapimento aggravato e omicidio di primo grado” perché aveva comprato il fucile, e dopo una breve latitanza fu arrestata a New York. Aretha Franklin contribuì a pubblicizzare il suo caso offrendosi di pagare la cauzione, mentre i Rolling Stones e John Lennon scrissero canzoni su di lei. La causa di Davis diventò famosa in tutto il mondo, fino a quando fu assolta dopo 18 mesi di carcere. Quell’episodio la trasformò nel simbolo internazionale dell’attivismo politico di ogni genere. “Sono felice di essere ancora viva. Sono testimone di tutto ciò che sta accadendo, anche per conto di quelli che non ce l’hanno fatta”.
Davis sa che ha rischiato di essere tra quelli che non ce l’hanno fatta. All’epoca dell’intervista con il giornalista svedese, nel 1972, era ancora in carcere con l’accusa di omicidio e rischiava la pena di morte. Molti esponenti delle Pantere nere sono morti in modo violento: Fred Hampton fu ucciso durante una retata della polizia a Chicago, mentre Bobby Hutton fu assassinato a Oakland anche se si era arreso agli agenti (Marlon Brando pronunciò il suo elogio funebre). Altri sono ancora in carcere (Mumia Abu-Jamal) o in esilio (Assata Shakur). “So che avrei potuto fare la stessa fine”, ammette Davis. “Potrei essere in prigione, avrei potuto essere condannata all’ergastolo. A salvarmi la vita è stato l’impegno di molte persone in tutto il mondo. In un certo senso il mio lavoro si è sempre basato sulla consapevolezza che sono qui solo perché molte persone hanno fatto lo stesso lavoro per difendermi. Continuerò a fare quello che faccio, fino al giorno in cui morirò”.
Come avviene il cambiamento
Dopo essere uscita dal carcere, Davis ha fatto di tutto per evitare che il contributo delle donne alla causa per i diritti civili fosse ignorato. Oggi vede lo stesso impegno da parte degli attivisti che combattono per fare in modo che le donne vittime della violenza della polizia – come Breonna Taylor, uccisa a Louisville, in Kentucky, da agenti che avevano fatto irruzione nel suo appartamento – abbiano la stessa visibilità dei maschi. “La maschilizzazione della storia va avanti da decenni, da secoli”, sottolinea Davis. “I racconti dei linciaggi, per esempio, tralasciano spesso il fatto che molte vittime erano donne nere, così come donne e nere erano molte persone che si sono battute contro i linciaggi, come Ida B Wells”.
“È importante cogliere la tendenza alla maschilizzazione della lotta e chiedersi perché non riusciamo a riconoscere che le donne sono sempre state al centro della causa, sia come vittime sia come attiviste”.
In questo momento ad affermarsi non sono solo le idee di Davis sulla riforma della polizia e la giustizia sociale, ma anche le sue riflessioni su come realizzare il cambiamento. Per decenni Davis ha promosso un pensiero femminista che si oppone alla leadership e alle forme di resistenza iper-maschiliste. Secondo Davis, i movimenti Occupy e Black lives matter hanno portato una grande novità con il loro rifiuto di darsi una leadership riconoscibile.
“In questo paese molti si chiedono dove siano i nuovi Martin Luther King, Malcolm X e Marcus Garvey. Naturalmente quando pensano ai leader immaginano uomini neri e carismatici. Ma i movimenti radicali più recenti creati dai giovani hanno avuto un’impronta femminista e hanno privilegiato la leadership collettiva”.
Le chiedo se non esiste un conflitto tra il suo approccio al cambiamento – comunitario e senza leader – e il suo status personale. “Non posso prendermi troppo sul serio”, risponde. “Lo ripeto continuamente. Da sola non avrei potuto ottenere niente di tutto questo. Il merito è del movimento e del suo impatto”.
Già in passato Davis ha cercato di portare il movimento antirazzista al centro del dibattito pubblico. Nel 1980 si candidò alla vicepresidenza degli Stati Uniti con il Partito comunista statunitense. In un intervento del 2006 ha attaccato l’amministrazione di George W. Bush. Oggi non vuole nemmeno pronunciare il nome di Donald Trump e preferisce definirlo come “l’attuale inquilino della Casa Bianca”. Le chiedo se la democrazia statunitense, allo stato attuale, lasci spazio a idee radicali sul cambiamento sociale. “Non credo che possa accadere”, risponde. “Almeno non con gli attuali dirigenti dei due partiti politici principali”.
Cosa pensa Davis del fatto che alcuni democratici si siano inginocchiati per esprimere solidarietà ai manifestanti? Di recente Nancy Pelosi, presidente della camera dei deputati, e alcuni suoi importanti colleghi di partito hanno indossato indumenti di kente, un tessuto tipico ghaneano che gli era stato regalato dai rappresentanti afroamericani del congresso. Il loro obiettivo era mandare un messaggio ai cittadini neri, una base elettorale decisiva su cui il candidato democratico alla presidenza Joe Biden non riesce a far presa. “Lo hanno fatto solo perché vogliono stare dalla parte giusta della storia, ma non è detto che vogliano anche fare la cosa giusta”, risponde Davis con un certo distacco.
Durante le sue conferenze Davis racconta spesso di quando, da bambina, chiedeva alla madre perché non potesse andare al parco giochi o alle librerie di Birmingham. La madre, che era un’attivista, le spiegava come funzionava la segregazione, ma non si fermava lì. “Ci ripeteva continuamente che le cose sarebbero cambiate e che noi avremmo fatto parte del cambiamento. Così ho imparato fin da piccola a vivere in un contesto di segregazione razziale, ma anche, contemporaneamente, a immaginare un nuovo mondo, con la certezza che la situazione non sarebbe rimasta la stessa per sempre. Mia madre ce lo diceva sempre: ‘Non è così che dovrebbero andare le cose, non è così che dovrebbe essere il mondo.’”

(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.


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