È il 1972.
Angela Davis sta rispondendo alle domande di un giornalista svedese che le ha
chiesto cosa pensa del ricorso alla violenza da parte delle Pantere nere. Alle
sue spalle c’è il muro della cella di una prigione statale della California. Davis
indossa un dolcevita rosso e porta la sua classica pettinatura afro. Con una
sigaretta accesa tra le dita, fissa il giornalista con uno sguardo penetrante,
poi risponde: “Mi chiede se approvo la violenza? Per me è una domanda senza
senso. Mi chiede se approvo l’uso delle armi? Sono cresciuta a Birmingham, in
Alabama. Alcuni miei amici sono stati uccisi dalle bombe fatte esplodere dai
razzisti. Del periodo in cui ero molto piccola ricordo il rumore delle bombe
che esplodevano, la casa che tremava. Per questo motivo, quando qualcuno mi
chiede di parlare della violenza, mi sembra incredibile. Significa che la
persona che mi sta davanti non ha la minima idea di cosa abbiano subìto gli
afroamericani in questo paese dal momento in cui il primo nero è stato rapito
sulle coste dell’Africa”.
Osservando
il breve filmato si capisce perché Angela Davis è diventata un’icona.
L’immagine, la determinazione, l’intelligenza. Davis è stata immortalata nel
documentario del 2011 The black power mixtape,
e alcuni spezzoni dell’intervista sono stati diffusi sui social network dopo
che George Floyd, un nero di 46 anni, è stato ucciso da un poliziotto a
Minneapolis, scatenando proteste in tutto il mondo. Oggi il suo libro Donne, razza e classe (Alegre 2018), pubblicato
nel 1981, è considerato una lettura essenziale per chiunque voglia capire cos’è
l’attivismo antirazzista, insieme a La prossima volta il fuoco di
James Baldwin (Fandango 2020) e all’autobiografia dell’abolizionista Frederick
Douglass.
Angela Davis
ha 76 anni. È collegata via Zoom dal suo ufficio, in California. Le chiedo se
dopo tutti questi anni ha la sensazione che un cambiamento concreto sia
possibile. “Certo, la situazione oggi potrebbe essere diversa”, risponde. “Ma
non è scontato”. Davis, comprensibilmente, si mostra prudente. D’altronde nella
sua vita ha visto di tutto, dalle rivolte del 1965 a Watts, un quartiere di Los
Angeles, alla guerra in Vietnam fino all’invasione dell’Iraq e ai disordini di
Ferguson. “Dopo tutti i momenti segnati da una grande consapevolezza e dalla
volontà di cambiamento, le riforme che sono state introdotte hanno cancellato
qualsiasi possibilità di un cambiamento radicale”.
Davis, nel
complesso, trova incoraggianti le proteste innescate dalla morte di Floyd. Non
è la prima volta che gli Stati Uniti assistono alla nascita di movimenti su
larga scala – l’ultima volta nel 2014, dopo la morte di Michael Brown, Tamir
Rice ed Eric Garner – ma Davis pensa che oggi qualcosa sia cambiato: i bianchi
stanno cominciando a capire.
“Non avevamo
mai visto manifestazioni così prolungate, partecipate e diversificate”,
sottolinea. “Penso che questo stia dando molta speranza alla gente. In passato,
quando dicevamo Black lives matter (le vite dei neri sono importanti), c’era
sempre qualcuno che diceva: ‘Ma non sarebbe meglio dire che tutte le vite sono
importanti?’. Ora finalmente hanno capito. Si sono resi conto del fatto che
fino a quando i neri verranno trattati in questo modo, fino a quando la
violenza del razzismo resterà inalterata, nessuno sarà al sicuro”.
Se c’è una
persona adatta a valutare la situazione attuale è sicuramente Angela Davis. Per
cinquant’anni è stata una delle intellettuali più importanti della campagna per
la giustizia razziale, anche se le cause che ha difeso – riforma carceraria,
riduzione dei fondi della polizia, riorganizzazione del sistema di rilascio su
cauzione – sono state sempre considerate troppo radicali. A un certo punto è
sembrato che Davis fosse rimasta congelata nel passato, vincolata allo stile
“radical chic” degli anni sessanta e sostenitrice di idee ormai fuori moda. Nel
2016 un giornalista del Wall Street Journal scrisse un ritratto dell’attivista
in cui chiedeva ai suoi colleghi se conoscessero Davis. Tra quelli che non
avevano ancora compiuto 35 anni nessuno sapeva chi fosse.
Oggi, a
cinquant’anni dall’inizio della sua lotta, Davis sembra improvvisamente
diventata il simbolo della giustizia sociale, ma ci tiene a riconoscere i
meriti della nuova generazione di attivisti e pensatori politici. “Osservo
questi ragazzi, così intelligenti e capaci di apprendere dal passato per creare
nuove idee. Imparo molto anche da persone che hanno cinquant’anni meno di me. È
emozionante, mi spinge a continuare la lotta”.
“Anche se la
portata della reazione è sicuramente nuova, la causa non lo è, e penso sia
importante sottolinearlo”. Davis non vuole che si dimentichi l’impatto
dell’impegno sociale delle Pantere nere negli anni sessanta, in particolare
dell’attivismo di comunità, dei laboratori formativi e dei banchi alimentari.
“La causa va avanti da molto tempo. Ciò che osserviamo oggi nasce da un lavoro
che è stato fatto per anni e che non ha ricevuto la giusta attenzione da parte
dei mezzi d’informazione”.
Davis parla
della militarizzazione della polizia statunitense dopo il Vietnam e
dell’apertura per una riforma carceraria dopo la rivolta nel penitenziario di
Attica del 1971, che però non è mai arrivata, almeno non nella forma che lei
aveva immaginato. All’epoca della rivolta la popolazione carceraria degli Stati
Uniti era di 200mila detenuti. Alla fine degli anni novanta è arrivata a più di
un milione. “Ripensando a quel periodo ci siamo accorti che le riforme non
hanno fatto altro che consolidare il sistema. Oggi abbiamo il timore che
succeda di nuovo”.
Quale
consiglio ha dato al movimento Black lives matter? “Dal mio punto di vista la
cosa più importante è cominciare a esprimere idee su come far evolvere il
movimento”. Naturalmente si tratta di un aspetto difficile da analizzare nel
fervore di una protesta che si sta diffondendo in tutto il mondo. Tuttavia, per
Davis è importante capire che l’incendio di un commissariato a Minneapolis o
la rimozione della statua di Edward Colston a Bristol non
sono la risposta definitiva. “A prescindere da quello che pensano le persone,
questi gesti non porteranno un cambiamento reale”, spiega riferendosi alla
rimozione della statua. “Ciò che conta è l’organizzazione, il lavoro. Bisogna
continuare a lavorare, a organizzarsi per combattere il razzismo, a trovare
nuovi modi per trasformare le nostre società. Solo così si può fare la
differenza”.
Angela
Yvonne Davis è nata a Birmingham, in Alabama, nel 1944. All’epoca uno dei
politici più potenti della città e dello stato era il suprematista bianco Bull
Connor. Conosceva alcune delle quattro ragazze che morirono nell’attentato
realizzato dal Ku Klux Klan nel 1963 contro una chiesa battista, un crimine per
cui le prime incriminazioni arrivarono solo nel 1977. “Sapevamo che il ruolo
della polizia era quello di proteggere i bianchi”, ricorda Davis.
A 15 anni si
trasferì a New York per frequentare le scuole superiori, per poi spostarsi in
Germania Ovest e studiare filosofia e marxismo seguendo Herbert Marcuse e la
scuola di Francoforte. Tornata negli Stati Uniti
alla fine degli anni sessanta, entrò nel partito delle Pantere nere e nel
Partito comunista. A causa dei suoi legami con il comunismo, il governatore
della California dell’epoca, Ronald Reagan, la fece licenziare dall’incarico di
assistente di filosofia all’università della California (Ucla).
Poi, nel
1970, la vita di Davis cambiò radicalmente. Un fucile che aveva comprato
legalmente fu usato in un tentativo di fuga da un tribunale. La vicenda si
concluse con la morte di un giudice che era stato rapito, oltre che di Jonathan
Jackson (lo studente che aveva tentato la fuga) e altri due imputati. Davis fu
accusata di “rapimento aggravato e omicidio di primo grado” perché aveva
comprato il fucile, e dopo una breve latitanza fu arrestata a New York. Aretha
Franklin contribuì a pubblicizzare il suo caso offrendosi di pagare la cauzione,
mentre i Rolling Stones e John Lennon scrissero canzoni su di lei. La causa di
Davis diventò famosa in tutto il mondo, fino a quando fu assolta dopo 18 mesi
di carcere. Quell’episodio la trasformò nel simbolo internazionale
dell’attivismo politico di ogni genere. “Sono felice di essere ancora viva.
Sono testimone di tutto ciò che sta accadendo, anche per conto di quelli che
non ce l’hanno fatta”.
Davis sa che
ha rischiato di essere tra quelli che non ce l’hanno fatta. All’epoca
dell’intervista con il giornalista svedese, nel 1972, era ancora in carcere con
l’accusa di omicidio e rischiava la pena di morte. Molti esponenti delle
Pantere nere sono morti in modo violento: Fred Hampton fu ucciso durante una
retata della polizia a Chicago, mentre Bobby Hutton fu assassinato a Oakland
anche se si era arreso agli agenti (Marlon Brando pronunciò il suo elogio
funebre). Altri sono ancora in carcere (Mumia Abu-Jamal) o in esilio (Assata
Shakur). “So che avrei potuto fare la stessa fine”, ammette Davis. “Potrei
essere in prigione, avrei potuto essere condannata all’ergastolo. A salvarmi la
vita è stato l’impegno di molte persone in tutto il mondo. In un certo senso il
mio lavoro si è sempre basato sulla consapevolezza che sono qui solo perché
molte persone hanno fatto lo stesso lavoro per difendermi. Continuerò a fare
quello che faccio, fino al giorno in cui morirò”.
Come avviene il cambiamento
Dopo essere uscita dal carcere, Davis ha fatto di tutto per evitare che il contributo delle donne alla causa per i diritti civili fosse ignorato. Oggi vede lo stesso impegno da parte degli attivisti che combattono per fare in modo che le donne vittime della violenza della polizia – come Breonna Taylor, uccisa a Louisville, in Kentucky, da agenti che avevano fatto irruzione nel suo appartamento – abbiano la stessa visibilità dei maschi. “La maschilizzazione della storia va avanti da decenni, da secoli”, sottolinea Davis. “I racconti dei linciaggi, per esempio, tralasciano spesso il fatto che molte vittime erano donne nere, così come donne e nere erano molte persone che si sono battute contro i linciaggi, come Ida B Wells”.
Dopo essere uscita dal carcere, Davis ha fatto di tutto per evitare che il contributo delle donne alla causa per i diritti civili fosse ignorato. Oggi vede lo stesso impegno da parte degli attivisti che combattono per fare in modo che le donne vittime della violenza della polizia – come Breonna Taylor, uccisa a Louisville, in Kentucky, da agenti che avevano fatto irruzione nel suo appartamento – abbiano la stessa visibilità dei maschi. “La maschilizzazione della storia va avanti da decenni, da secoli”, sottolinea Davis. “I racconti dei linciaggi, per esempio, tralasciano spesso il fatto che molte vittime erano donne nere, così come donne e nere erano molte persone che si sono battute contro i linciaggi, come Ida B Wells”.
“È importante
cogliere la tendenza alla maschilizzazione della lotta e chiedersi perché non
riusciamo a riconoscere che le donne sono sempre state al centro della causa,
sia come vittime sia come attiviste”.
In questo
momento ad affermarsi non sono solo le idee di Davis sulla riforma della
polizia e la giustizia sociale, ma anche le sue riflessioni su come realizzare
il cambiamento. Per decenni Davis ha promosso un pensiero femminista che si
oppone alla leadership e alle forme di resistenza iper-maschiliste. Secondo
Davis, i movimenti Occupy e Black lives matter hanno portato una grande novità
con il loro rifiuto di darsi una leadership riconoscibile.
“In questo
paese molti si chiedono dove siano i nuovi Martin Luther King, Malcolm X e
Marcus Garvey. Naturalmente quando pensano ai leader immaginano uomini neri e
carismatici. Ma i movimenti radicali più recenti creati dai giovani hanno avuto
un’impronta femminista e hanno privilegiato la leadership collettiva”.
Le chiedo se
non esiste un conflitto tra il suo approccio al cambiamento – comunitario e
senza leader – e il suo status personale. “Non posso prendermi troppo sul
serio”, risponde. “Lo ripeto continuamente. Da sola non avrei potuto ottenere
niente di tutto questo. Il merito è del movimento e del suo impatto”.
Già in
passato Davis ha cercato di portare il movimento antirazzista al centro del
dibattito pubblico. Nel 1980 si candidò alla vicepresidenza degli Stati Uniti
con il Partito comunista statunitense. In un intervento del 2006 ha
attaccato l’amministrazione di George W. Bush. Oggi non vuole nemmeno
pronunciare il nome di Donald Trump e preferisce definirlo come “l’attuale
inquilino della Casa Bianca”. Le chiedo se la democrazia statunitense, allo
stato attuale, lasci spazio a idee radicali sul cambiamento sociale. “Non credo
che possa accadere”, risponde. “Almeno non con gli attuali dirigenti dei due
partiti politici principali”.
Cosa pensa
Davis del fatto che alcuni democratici si siano inginocchiati per esprimere
solidarietà ai manifestanti? Di recente Nancy Pelosi, presidente della camera
dei deputati, e alcuni suoi importanti colleghi di partito hanno indossato
indumenti di kente, un tessuto tipico ghaneano
che gli era stato regalato dai rappresentanti afroamericani del congresso. Il
loro obiettivo era mandare un messaggio ai cittadini neri, una base elettorale
decisiva su cui il candidato democratico alla presidenza Joe Biden non riesce a
far presa. “Lo hanno fatto solo perché vogliono stare dalla parte giusta della
storia, ma non è detto che vogliano anche fare la cosa giusta”, risponde Davis
con un certo distacco.
Durante le
sue conferenze Davis racconta spesso di quando, da bambina, chiedeva alla madre
perché non potesse andare al parco giochi o alle librerie di Birmingham. La
madre, che era un’attivista, le spiegava come funzionava la segregazione, ma
non si fermava lì. “Ci ripeteva continuamente che le cose sarebbero cambiate e
che noi avremmo fatto parte del cambiamento. Così ho imparato fin da piccola a
vivere in un contesto di segregazione razziale, ma anche, contemporaneamente, a
immaginare un nuovo mondo, con la certezza che la situazione non sarebbe
rimasta la stessa per sempre. Mia madre ce lo diceva sempre: ‘Non è così che
dovrebbero andare le cose, non è così che dovrebbe essere il mondo.’”
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.
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