C’è un’immensa dose di cinismo, di ignoranza e di incompetenza nel governo
messicano e in quello di Trump. Ma non si tratta solo di questo. Si sta
attuando anche una manovra perversa.
La polarizzazione sociale negli Stati Uniti c’è sempre
stata. Ma nei mezzi di comunicazione appariva come qualcosa di isolato e
marginale; non sembrava che esistesse una violenza esercitata continuamente
contro quelli che stanno in basso, con una linea di demarcazione di colore e di
genere molto accentuata. Quello che oggi vediamo è un confronto aperto fra
settori diversi della società, che diventa sempre più radicale e violento. Non
è una cosa sorta per caso. È un clima sociale creato dal signor Trump, che accentua
la visibilità pubblica di ciò che abitualmente non appariva e rende evidente la
grande estensione del sostrato razzista e sessista che da sempre ha
caratterizzato la società statunitense.
In Messico, il repertorio della polarizzazione è
vastissimo. È in continua crescita l’irritazione dei cittadini di fronte ai
blocchi stradali e alle innumerevoli marce e manifestazioni. Ogni settimana si
verifica un linciaggio. La violenza domestica si accentua, così
come le risse per la strada. In molte parti del paese è già in atto il peggior
tipo di guerra civile, quella in cui non si sa chi combatte contro chi. Dilagano le forme di
autodifesa, parallelamente all’interminabile proliferazione di comportamenti
criminali di ogni genere, che spesso raggiungono atroci livelli di degradazione
umana. Tutti i giorni si scoprono fosse clandestine, per le quali autorità e
criminali si contendono il primato per numero e orrori.
Nulla di tutto ciò è accettabile; non è uno stato di
cose con cui dobbiamo convivere. Ma neppure dobbiamo vederlo come un fatto
contingente o patologico. Quello che oggi sta succedendo rende più che mai
evidente la natura del regime dominante e il modo in cui ci divide e ci
combatte.
La società greca, che coniò il termine democrazia, era misogina, sessista
ed escludente. Concesse una qualche partecipazione alle decisioni pubbliche a
un certo numero di cittadini maschi. Oltre alle donne e agli schiavi, apertamente
subordinati, escluse innumerevoli ‘barbari’, che considerava balbuzienti perché
non parlavano la lingua greca.
La società statunitense, che diede forma moderna alla democrazia, aveva le
stesse caratteristiche. Le demarcazioni di colore e di genere erano molto
marcate. Misogini e padroni di schiavi erano coloro che diedero forma alla
costituzione e al sistema politico, concedendo la partecipazione politica a
uomini con determinate caratteristiche ed escludendo ampie fasce della società,
in particolar modo coloro che non fossero né bianchi né maschi.
Niente di tutto questo appartiene ormai al passato. Il fatto che le donne,
i neri e altri settori abbiano conquistato il diritto di voto e che alcune ed
alcuni di loro occupino posizioni di rilievo non ha eliminato i lineamenti di
questo regime politico che si continua a chiamare democrazia, ma che è
irrimediabilmente un dispositivo di oppressione e di asservimento per la
maggior parte della popolazione.
Attualmente, nella misura in cui dilaga lo scontento, e non solo i partiti
politici ma anche lo stesso regime dominante perdono legittimità e credibilità,
i suoi manovratori ricorrono a un meccanismo perverso: incentivano o provocano
artificialmente scontri fra settori diversi della popolazione. È l’altra faccia della
guerra di oggi. Siamo indotti a vedere il nemico fra di noi, in modo che non ci
occupiamo della spoliazione a cui siamo sottoposti. La guerra attuale uccide,
fa scomparire o mette in carcere un numero crescente di persone e sottrae a
settori sempre più ampi quello che possiedono ancora: terre e territori, mezzi
di sussistenza, capacità produttive… o diritti di ogni genere, pensioni,
sussidi, condizioni di lavoro. Per evitare che affrontiamo gli autori e i
responsabili della rapina, si fa in modo che ci scontriamo fra di noi, ad
esempio nel confronto non sempre pacifico fra partiti e candidati che dividono
popolazioni e comunità in forme che arrivano ad essere molto intense.
Tuttavia nessuna esperienza, nessuna evidenza del carattere reale di questo
regime riesce a convincere tutte e tutti della necessità di abbandonarlo.
Persiste un immaginario molto radicato che permette di esprimere un profondo
malcontento per come vanno le cose e di avere consapevolezza delle
insormontabili deficienze del regime… ma senza andare oltre. Si direbbe che
spingendo all’estremo la critica si produce un’angosciante sensazione di vuoto,
che induce a tornare alla zona delle consuete sicurezze.
Un passo dopo l’altro, tutti i giorni, stiamo smantellando questo
immaginario. Stiamo facendo vedere che gli estremi a cui stanno arrivando i
governi non sono anomalie contingenti o provvisorie. Sveliamo che non sono
soltanto cinici, ignoranti o incompetenti, né semplicemente corrotti e
irresponsabili. Sono tutto questo, ma sono anche la fonte di buona parte dei
nostri scontri e delle nostre divisioni. È sempre più evidente che nessun candidato
o partito può correggere questo regime o metterlo al nostro servizio.
Smantellarlo diventa sempre più una questione di sopravvivenza. Soltanto noi
possiamo fermare la sua spinta devastatrice. Ed è proprio questo ciò che comincia a
profilarsi come una possibilità reale, nella misura in cui si estende a livello
di base, nei villaggi e nei quartieri, la spinta organizzativa innescata dalla
proposta del Congresso Nazionale Indigeno degli zapatisti. Ogni giorno ci
uniamo di più, ci organizziamo.
(Fonte: la Jornada - Traduzione a cura di Camminardomandando)
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