L’egoismo della “piccola patria” - Alberto Negri
L’irredentismo dei nostri giorni è venato da un forte sospetto di egoismo. Il ragionamento di fondo è questo: separati gestiamo i nostri soldi, non versiamo i fondi europei e le tasse allo stato centrale. insomma non paghiamo per gli “altri”, che poi sarebbero quelli che fino a ieri erano nostri concittadini, magari meno ricchi e fortunati. I referendum consultivi promossi in Veneto e Lombardia obbediscono a questa logica. Il separatismo catalano, come quello basco, lo conosco abbastanza bene. Ho vissuto per un po’ di tempo nel cuore della Barcellona franchista quando parlare catalano e ballare la sardana in piazza era una forma di opposizione. Lo facevo anch’io giovane adolescente. Nel febbraio ’92 terminai un lungo reportage nei Paesi baschi per volare subito dopo al referendum per l’indipendenza della Bosnia che aprì le porte all’assedio dei mille giorni di Sarajevo. Ci sono momenti della storia dove sembra che vivere insieme sia impossibile e che separarsi sia l’unica strada possibile. La repressione violenta di queste spinte separatiste rende ancora più difficile fare appello alla razionalità, alla convivenza pacifica e accelera la corsa verso il baratro. E’ anche giusto che oggi popoli come i curdi iracheni facciano questa esperienza, facendo appello a diversità anche vere e reali, basate sulla storia l’identità, la lingua, la tradizione, persino la religione. Ma si deve anche sapere a cosa si va incontro. Fare parte di una “piccola patria” a volte è confortante e riempie la vertigine del vuoto identitario e delle sfide della globalizzazione. Ma passerà il tempo è ci si accorgerà che la piccola patria è troppo piccola, che è fatta da piccoli uomini, che la torta da spartire non è così grande come si pensava e che l’egoismo identitario rende ancora più deboli, vulnerabili e persino tragicamente ridicoli. La piccola patria, così bella e attraente nella nostra immaginazione e nei nostri sogni, da cullare come un rifugio protettivo, può trasformarsi in un incubo. Ma ognuno, naturalmente, pensi e faccia come meglio crede.
La piccola patria che Madrid vuole spegnere - Massimo Fini
Nel 1975, a Helsinki, 35 Stati del mondo, fra cui la Spagna, sancirono il
diritto all’’autodeterminazione dei popoli’. Se questi accordi non sono solo
delle astratte enunciazioni di principio destinate a non avere alcuna
applicazione la Catalogna ha il pieno diritto di fare il suo referendum di
indipendenza dalla Spagna.
L’intervento di Madrid per impedire il referendum che dovrebbe svolgersi il
primo ottobre è brutale, violento e nella memoria dei catalani che hanno l’età
per averla ha ricordato i metodi del regime franchista. Arresti di funzionari
del governo catalano anche di altissimo livello come il braccio destro del vice
presidente catalano, Josep Maria Jové, minaccia di arrestare lo stesso
presidente della Catalogna, Carles Puigdemont, sequestro delle schede
elettorali, chiusura dei seggi. Ma i catalani non demordono: hanno fatto
stampare un milione di nuove schede, hanno aperto nuovi seggi che però la polizia
di Madrid ha circondato impedendone l’accesso. Molto dipende ora
dall’atteggiamento della polizia catalana (Mossos d’Esquadra) il cui comandante
Trapero si è rifiutato, almeno per ora, di sottomettersi alla Guardia Civil
spagnola. Nel momento in cui scriviamo le manifestazioni degli indipendentisti
sono state pacifiche, nella forma prevalentemente dei sit-in ma
se si dovesse arrivare a uno scontro fra le due polizie si aprirebbe la strada
in Spagna a una sanguinosa guerra civile, non diversa se non nelle proporzioni
da quella che attraversò il Paese alla fine degli anni Trenta e che contrappose
i nazionalisti di Francisco Franco ai repubblicani.
Nulla è immutabile nella vita degli uomini e delle loro organizzazioni. La
Storia, e il Tempo che scorre con essa, non si ferma checché ne abbiano pensato
tutti gli storicismi, da Hegel a Marx fino a quel epigono imbecille di
Fukuyama. Nuovi Stati si formano, altri si disgregano, altri ancora scompaiono.
Se così non fosse tutto il ‘mondo nuovo’ che si aprì agli occhi degli europei
al tempo di Magellano sarebbe rimasto, per diktat del Papato, che allora aveva
una grande influenza, diviso in due zone, l’una spagnola, l’altra portoghese.
Ma così non è andata.
Fermiamoci però a tempi più vicini a noi. Dopo il collasso dell’Urss le ex
Repubbliche sovietiche sono diventate degli Stati a tutti gli effetti (Estonia,
Lituania, Lettonia, Georgia, Turkmenistan, Azerbaigian, Kazakistan, Tagikistan,
Uzbekistan, Armenia, Ucraina per nominarne solo alcuni), la Jugoslavia è scomparsa
dalle mappe geografiche dividendosi in Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia,
Montenegro, Kosovo, la Slovacchia si è staccata dalla Cechia, la Germania si è
riunificata. A parte la Bosnia e in particolare il Kosovo dove c’è stato un
pesante intervento militare degli americani per staccarlo, a loro uso e
consumo, dalla madre patria serba, tutte queste separazioni, o riunificazioni,
sono avvenute in modo sostanzialmente pacifico. A volte erano così naturali che
non c’è nemmeno stato il bisogno di ricorrere a un referendum.
Attualmente bollono in pentola, oltre a quello catalano, l’indipendentismo
basco, scozzese, corso e, se vogliamo, anche l’autonomismo Lombardo-Veneto.
Questi indipendentismi hanno raramente vere ragioni politiche ed
economiche. Nascono piuttosto da pulsioni esistenziali. Sono il tentativo di
recuperare le proprie radici, un’identità perduta, di sfuggire in qualche modo
a quella standardizzazione e a quella omologazione che la globalizzazione ha
esasperato. E più si stringe il cerchio della globalizzazione, più entreranno
in azione le controspinte indipendentiste.
E’ il sogno delle ‘piccole patrie’ che è venuto prepotentemente alla
ribalta, o perlomeno alla coscienza dell’opinione pubblica italiana, ai tempi
della prima Lega.
Alla luce degli accordi di Helsinki è un ‘sogno’, anzi un diritto, del
tutto legittimo e, a parte le violente resistenze di Madrid, non si capisce
perché l’Onu, l’Unione europea, Angela Merkel e altri soggetti politici si
oppongano all’indipendentismo catalano senza avere alcun diritto di mettervi il
becco.
Non facciamo altro che parlare di democrazia, del potere sovrano del popolo
ma quando la volontà popolare si manifesta nella sua forma più limpida che è
quella della democrazia diretta, e non della democrazia rappresentativa,
troviamo qualsiasi pretesto per aggirarla e annullarla. ‘Populismo’ è
l’aggettivo più usato per svilire e bollare qualsiasi tentativo che si opponga
al sistema e al dominio di ‘lorsignori’, politici, economici, finanziari, di
tutto il mondo. E allora diciamolo una volta per tutte: la democrazia non
esiste, è un imbroglio, una Fata Morgana che svanisce appena mette in pericolo
il dominio dei Signori della Terra.
Il continente
delle piccole patrie - Marco Bascetta
Nel più prossimo futuro dell’Unione europea, la questione delle autonomie,
o delle indipendenze, sembra destinata a occupare una posizione centrale e
decisamente complicata. Nel senso che non riguarderà più solamente il rapporto
tra le regioni che rivendicano l’autonomia e lo stato nazionale da cui aspirano
a separarsi, ma porrà problemi politici di carattere generale tali da investire
l’assetto stesso dell’Unione. La quale, nei suoi trattati e nelle sue
politiche, ha completamente eluso la questione, adottando implicitamente quella
posizione che nel diritto internazionale è raccomandata come principio di «non
ingerenza». Insomma, soprattutto dopo l’esito delle elezioni catalane e
spagnole, le indipendenze non potranno più restare affare esclusivo dei
catalani, dei baschi, degli scozzesi o dei corsi, ma lo diventano di tutti gli
europei e dell’idea di democrazia che vorranno affermare.
Oligarchie regionali
Converrà, tuttavia, definire chiaramente una premessa. Chi non ama, come
chi scrive, gli stati nazionali, non può certo vedere di buon occhio la loro
moltiplicazione. Ciò che è accaduto dopo il 1989 non ha fatto che confermare
questa decisa avversione. Dalla ex Jugoslavia allo sfaldamento dell’Unione
sovietica abbiamo assistito al proliferare di piccole patrie a vocazione
ultranazionalista, al dilagare di conflitti sanguinosi su base etnica o
identitaria con frequente ricorso a quella che Hobsbawm e Range chiamarono
«l’invenzione della tradizione». Gli interessi egemonici occidentali e quelli
delle oligarchie regionali hanno in larga misura governato e manipolato questi
processi sotto la bandiera, da sempre equivoca, dell’«autodeterminazione dei
popoli». Un’espressione che ha sovente sovrapposto alla realtà sociale e
culturale dei territori, alle aspirazioni delle classi subalterne, il
tornaconto di un ceto dominante alla ricerca della maggiore espansione
possibile della propria sfera di potere. Per fare un esempio d’attualità,
Arturo Mas, già contestatissimo presidente della Catalogna, è una delle
espressioni più evidenti di questa forma di usurpazione da parte delle
oligarchie regionali. L’aspirazione all’indipendenza ha sempre cercato di
occultare, di neutralizzare, il conflitto di classe che la attraversa
annegandolo nella palude indistinta del nascente «interesse nazionale». È la
ragione per cui è sempre saggio diffidarne. Seppure non si deve dimenticare che
per i catalani o per i baschi la controparte è stata, per lunghi e dolorosi
anni, il centralismo fascista della Spagna di Franco. Insomma, la
rivendicazione di indipendenza non può essere mai valutata in termini astratti,
ma deve sempre essere misurata con il suo contenuto reale di democrazia, con la
qualità sociale che la sostanzia.
Se ai nostri confini orientali si è consumata una tragedia, e in Spagna si
prepara una difficile partita politica, in Italia è stata messa in scena una
farsa per babbei, quella dell’indipendenza dell’inesistente Padania. Falsa come
gli spadoni e gli elmi cornuti, le cerimonie celtiche e la moneta padana di cui
i leghisti straparlavano intorno al 2011 e che qualche amministratore locale si
mise addirittura a stampare. Il razzismo no, quello era vero, e pronto a
transitare armi e bagagli in una destra ultranazionalista che stravede per il
Front National di Marine Le Pen e la sua demagogia antieuropeista. Come sempre
gli esiti chiariscono le premesse, l’anatomia dell’uomo spiega quella della
scimmia. E l’antieuropeismo della Lega rivela la virulenta vocazione
nazionalista che ne attraversa tutta la storia accompagnandola infine dalle
parti di Casa Pound.
Narrazioni identitarie
Il rapporto con l’Europa, questo è dunque il primo punto sul quale misurare
la qualità politica delle autonomie. Gli indipendentisti catalani, baschi,
galiziani, corsi o scozzesi non sono antieuropei. Semmai guardano all’Unione
come a una chance. Il partito nazionale scozzese ha esplicitamente dichiarato
che l’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, il cosiddetto
Brexit, rappresenterebbe un motivo in più per separarsi non dall’Europa ma dal
Regno Unito. Per molti il commiato dallo stato nazionale si accompagna dunque a
un desiderio di piena integrazione nell’Unione europea. Ma anche su questo
punto bisogna fare attenzione: il filoeuropeismo può avere un carattere del
tutto strumentale. Il riconoscimento da parte di una Europa sostanzialmente
fondata sugli stati nazionali e sulla salvaguardia delle loro prerogative può
funzionare da puro e semplice principio di legittimazione di nuove sovranità
nazionali tracotanti e pronte a puntare i piedi come l’Ungheria di Victor
Orban. Un certificato in bianco di nuova sovranità.
È quello che è accaduto nelle cosiddette «democrazie postcomuniste». Da
quelle parti l’affiliazione europea è servita a coprire le peggiori nefandezze
nazionaliste, le più bieche narrazioni identitarie delle piccole e grandi
patrie. Funzionando, inoltre, da freno permanente ai processi di integrazione
politica nel vecchio continente. Il modo in cui questi governi hanno reagito
alla crisi dell’immigrazione indica un secondo, decisivo criterio sulla base
del quale valutare la qualità delle autonomie: l’apertura o la chiusura nei
confronti dei migranti. Quanto, insomma, l’orrendo principio del «padroni a
casa nostra» venga assunto come bandiera dell’indipendenza. Vi sono, a questo
proposito, realtà territoriali assai migliori degli stati nazionali, come ve ne
sono di ben peggiori.
Una scommessa rischiosa
Abbiamo un serio problema. Non possiamo respingere le istanze autonomiste
in difesa dello stato nazionale e del suo monopolio sovrano, ma non possiamo
appoggiare le indipendenze in quanto fondazione di nuove sovranità nazionali
che riproducano su scala minore, e possibilmente ancor peggiore, lo stato da
cui si sono separate. Dobbiamo guardare, dunque, alla natura del processo
democratico che si sviluppa nei territori, ai suoi contenuti sociali alla
capacità di innovazione politica e di apertura che esprime. La domanda è allora
da che cosa ci si vuole rendere indipendenti e per fare che cosa.
La posizione assunta da Podemos, e che le ha assicurato uno straordinario
successo elettorale (in coalizione con altre forze regionali) in Catalogna, nel
Paese basco, in Galizia, si fa carico appunto di questo problema. Pur contrario
alla frammentazione dell’unità della Spagna il partito di Iglesias intende
rispettare l’autodeterminazione democratica delle regioni separatiste. Se non
si tratta di puro tatticismo, si apre così un processo che, in virtù del suo
programma sociale, potrebbe modificare in senso antinazionalista l’una e le
altre. Scommessa rischiosa, dall’esito assai incerto, ma che ha comunque il
merito di indicare una strada, di aprire uno spazio politico nuovo. Che per
l’Europa significherebbe ripensare il rapporto con quanto è sempre meno
rappresentato dagli stati nazionali che, malgrado le apparenze, la tengono in
ostaggio in uno stabile compromesso con le oligarchie finanziarie: il rapporto
con i movimenti sociali, le realtà territoriali, i cittadini europei
insoddisfatti dei rispettivi governi, i soggetti e le forze produttive sospinti
ai margini del patto sociale.
Il nodo da sciogliere
Insomma quell’«Altra Europa» costruita dal basso di cui si continua a
sognare ad occhi neanche troppo aperti. La domanda che il nuovo scenario ci
propone è se non sia necessario, a questo punto, demolire il feticcio
dell’integrità, anche territoriale, degli stati nazionali per mettere
effettivamente in movimento un processo d’integrazione europea di questa natura.
E se le «indipendenze» conseguite in un simile contesto non possano riuscire a
configurare realtà politiche diverse dagli stati nazionali e ad alta capacità
di reciproca integrazione. Siamo, ovviamente, nel campo dell’azzardo e sul
confine di terre sconosciute. Ma nel laboratorio spagnolo questa materia si
accinge a diventare estremamente concreta.
All’indomani delle elezioni in Spagna Lanfranco Caminiti interveniva nel
suo blog, «La camera dello scirocco», assumendo proprio questo orizzonte.
Ricordava, in quel testo, quanto la questione delle autonomie fosse collegata a
quella del welfare e della distribuzione delle risorse. È noto come
l’indipendentismo venga generalmente accusato di rappresentare l’interesse
egoistico delle aree più ricche e produttive, restie a farsi carico dei
problemi di quelle più svantaggiate. Accusa irricevibile da parte di Stati
nazionali patentemente incapaci di rimediare ai loro squilibri interni, quando
non cinicamente dediti a servirsene, sordi alle potenzialità dei diversi
territori e sempre orientati a soddisfare gli imperativi del mercato. E ancor
più priva di fondamento se si guarda alla cittadinanza europea come a una
realtà effettiva e sostanziale. Del resto le sovranità nazionali si sono
dimostrate pessime mediatrici tra la governance europea e le realtà locali.
Oscillando tra la parte dello sbirro di Bruxelles, con le sue assurde
normative, e quella dell’ azienda nazionale, il cosiddetto «sistema paese», in
competizione con i suoi simili a colpi di precarietà, bassi salari e tagli
dello stato sociale. Cosicché non si può che convenire con Caminiti quando
scrive che non è lo stato nazionale a non potersi più permettere i costi del
welfare, ma il welfare a non sopportare più il peso dello stato nazionale.
Il discorso dell’indipendenza è un modo vecchio (e piuttosto screditato
dall’esperienza storica) di porre il tema dell’autogoverno e della sua cornice
politica, ma è pur sempre un modo di proporlo. Podemos sembra avere
riconosciuto la necessità di disporsi ad affrontare questo nodo. Né Partito
dell’ Indipendenza, né partito della Nazione. Ma cosa vi sia fuori da questa
alternativa è ancora tutto da immaginare.
L’estaca (Il palo) – Lluis Llach (Versione italiana di Lorenzo
Masetti)
Il vecchio Siset mi parlava
di buon'ora sul portone
mentre aspettavamo il sole
e vedevamo passare i carri
Siset, non vedi il palo
al quale siamo tutti legati?
Se non riusciamo a liberarcene
non potremo mai camminare
Se tiriamo tutti insieme cadrà
e non può durare a lungo
di sicuro cade, cade cade
già dev'essere ben marcito
Se io tiro forte di qui
e tu tiri forte di là,
sicuro che cade, cade, cade
e potremo liberarci
Però, Siset, è già passato molto tempo
e le mani mi si stanno scorticando
e quando mi manca la forza
diventa più spesso e più grande.
Lo so bene che è marcio
ma il fatto, Siset, è che pesa tanto
che a volte le forze mi abbandonano
Tornami a ripetere la tua canzone
Se tiriamo tutti insieme, cadrà
e non può durare a lungo
di sicuro cade, cade cade
già dev'essere ben marcito
Se io tiro forte di qui
e tu tiri forte di là,
sicuro che cade, cade, cade
e potremo liberarci
Il vecchio Siset ormai non dice niente
se l'è portato via un vento cattivo
lui sa bene in che direzione
ed io sono ancora sotto il portone
E quando passano i nuovi ragazzi
Alzo la voce per cantare
L'ultimo canto di Siset,
l'ultimo che mi insegnò
Se tiriamo tutti insieme, cadrà
e non può durare a lungo
di sicuro cade, cade cade
già dev'essere ben marcito
Se io tiro forte di qui
e tu tiri forte di là,
sicuro che cade, cade, cade
e potremo liberarci.
Il vecchio Siset mi parlava
di buon'ora sul portone
mentre aspettavamo il sole
e vedevamo passare i carri
Siset, non vedi il palo
al quale siamo tutti legati?
Se non riusciamo a liberarcene
non potremo mai camminare
Se tiriamo tutti insieme cadrà
e non può durare a lungo
di sicuro cade, cade cade
già dev'essere ben marcito
Se io tiro forte di qui
e tu tiri forte di là,
sicuro che cade, cade, cade
e potremo liberarci
Però, Siset, è già passato molto tempo
e le mani mi si stanno scorticando
e quando mi manca la forza
diventa più spesso e più grande.
Lo so bene che è marcio
ma il fatto, Siset, è che pesa tanto
che a volte le forze mi abbandonano
Tornami a ripetere la tua canzone
Se tiriamo tutti insieme, cadrà
e non può durare a lungo
di sicuro cade, cade cade
già dev'essere ben marcito
Se io tiro forte di qui
e tu tiri forte di là,
sicuro che cade, cade, cade
e potremo liberarci
Il vecchio Siset ormai non dice niente
se l'è portato via un vento cattivo
lui sa bene in che direzione
ed io sono ancora sotto il portone
E quando passano i nuovi ragazzi
Alzo la voce per cantare
L'ultimo canto di Siset,
l'ultimo che mi insegnò
Se tiriamo tutti insieme, cadrà
e non può durare a lungo
di sicuro cade, cade cade
già dev'essere ben marcito
Se io tiro forte di qui
e tu tiri forte di là,
sicuro che cade, cade, cade
e potremo liberarci.
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