Era già
partito il tam-tam
mediatico che doveva fare da supporto all’approvazione del decreto sicurezza
bis alla Camera. Secondo il Corriere
della Sera, che ha inviato un suo giornalista a bordo di una
motovedetta tripolina, la sedicente Guardia costiera “libica” svolgerebbe i
suoi compiti con interventi efficaci: “Libia, sulla Guardia Costiera alla
ricerca di migranti: intercettato un gommone con trentotto persone a bordo“.
Sono in tanti del resto che, per avallare le politiche di Salvini, sostengono
che la guardia costiera libica “sta lavorando bene” e
che le Ong sarebbero “complici dei
trafficanti”. Una tesi che suona come una menzogna
ripetuta mille volte, che vale più della verità. Una tesi sulla quale sembra
ancora impegnata una parte della magistratura, malgrado anni
di indagini che non hanno dimostrato alcun legame tra le Ong e i trafficanti.
Da Tripoli
il capo della Guardia costiera libica annunciava che i naufraghi, presumibilmente
le trentotto persone intercettate dalla motovedetta che imbarcava il
giornalista italiano, sarebbero stati riportati nel famigerato centro di
detenzione di Tajoura, dopo avere affermato che i
migranti continuavano a partire perché sapevano che al largo avrebbero
incontrato una nave delle ONG che li avrebbe soccorsi. Una
fake-news confezionata ad arte, in un momento in cui le
navi umanitarie sono sotto sequestro o lontane dalle coste libiche, ma sempre
buona per convincere il “popolo sovrano” degli effetti positivi della politica
dei porti “chiusi” e della fondatezza delle misure di blocco e delle sanzioni
contenute negli articoli 1 e 2 del decreto
legge 53/2019 che sarà presto convertito in legge. Dopo
un iter parlamentare in cui la maggioranza di governo ha cancellato i diritti
della minoranza a colpi di fiducia, arrivando a imporre la cancellazione dell’audizione di una Ong,
già programmata nel
calendario dei lavori delle Commissioni affari costituzionali e
giustizia. Se il parlamento italiano non ha voluto
ascoltare i rappresentanti di Sea Watch, adesso Carola
Rackete potrà prendere parola al parlamento europeo.
Nello stesso
giorno in cui la Camera ha approvato con un voto di fiducia il decreto
sicurezza bis, che
permette al ministro dell’interno di impedire l’ingresso nelle acque
territoriali e dunque nei porti, delle navi umanitarie con naufraghi a bordo,
navi che potranno essere confiscate, alienate e distrutte solo sulla base di
scelte discrezionali delle autorità amministrative, una strage,
forse la più grave di tutto l’anno, rende evidente,
senza possibilità di smentita, il
costo delle politiche di blocco delle acque territoriali, di criminalizzazione
delle Ong e di “chiusura” dei porti. Secondo Medici senza Frontiere che è presente con una missione
in Libia, “i nostri
team in Libia stanno assistendo 135 sopravvissuti del naufragio avvenuto oggi
al largo di Homs, a est di Tripoli. Sono stati salvati da pescherecci e i
testimoni oculari parlano di almeno 70 corpi in acqua”.
Secondo le
ultime notizie arrivate oggi, più di cento migranti diretti in Europa sono dati
per dispersi e si teme che siano annegati dopo che le due barche su cui si trovavano si
sono capovolte al largo della costa di Al Khoms.
Ayoub
Gassim, portavoce della guardia costiera libica, ha affermato che le due
imbarcazioni che trasportavano circa 300 persone si sono capovolte a 75 miglia
a est di Tripoli. L’UNHCR ha
confermato la notizia secondo cui i dispersi potrebbero
essere 150, precisando che 147 migranti sarebbero stati salvati da pescatori e
quindi riportati in Libia dalla guardia costiera “libica” che avrebbe
recuperato soltanto un cadavere. Come al solito, il portavoce della sedicente guardia costiera “libica”, sempre pronto ad
attaccare le Ong su mandato del governo italiano, che lo finanzia, non ha
fornito alcun dettaglio sulle modalità dei soccorsi e sulla loro
esatta localizzazione. Come rimane
nell’ombra chi svolge il ruolo di coordinamento effettivo dei soccorsi operati
dalle motovedette libiche con l’assistenza dei militari italiani imbarcati
a bordo della nave Caprera della missione Nauras, ormeggiata nel porto militare
di Abu Sittah a Tripoli.
Di certo
continuano a rimanere inascoltati gli appelli delle Nazioni Unite. “The UNHCR
and other U.N. agencies have repeatedly called for survivors not to be returned
to Libya, a conflict zone where rescued migrants and refugees are routinely
jailed in inhumane conditions and are vulnerable to being caught up in
fighting. “
La cruda
realtà raccontata dai superstiti ha immediatamente dimostrato quale è il costo del
ritiro delle navi militari che fino al 30 marzo operavano soccorsi nelle acque
ricadenti nella cosiddetta zona SAR “libica”, e del blocco
delle navi private delle Ong, oggetto di una vile
campagna di odio che non ha risparmiato neppure i cittadini solidali che ne
sostenevano l’attività. Quest’ultima strage, nella quale sarebbero stati
coinvolti anche numerosi migranti provenienti dal Corno d’Africa, in particolare dall’Eritrea, è soltanto l’ultima
di un lunga serie. E purtroppo altre seguiranno, se i paesi
europei, e soprattutto l’Italia, manterranno le loro
politiche di guerra ai soccorsi umanitari e di collusione con la guardia
costiera “libica”.
Dal mese di
giugno dello scorso anno, quando le partenze dalla Libia erano già
diminuite in modo sostanziale, con la creazione di una “zona SAR
libica”, si è
verificato un costante aumento delle vittime, conseguenza della criminalizzazione dei soccorsi umanitari e
dall’allontanamento delle navi delle Ong e poi anche di quelle della missione
europea Eunavfor
Med, che dal 30 marzo di quest’anno ha
sospeso qualunque attività in mare ritirando gli assetti navali già operativi
nel Mediterraneo centrale.
Secondo
Thomas Garofalo, direttore di IRC Libia, “rifugiati e migranti in Libia
sono immensamente vulnerabili e hanno diritto alla protezione umanitaria ai
sensi del diritto internazionale umanitario. Gli impegni della comunità
internazionale devono essere notevolmente ampliati: l’Europa deve intensificare
e aumentare le evacuazioni per consentire alle persone di cercare sicurezza e
coloro che vengono intercettati in mare non devono essere restituiti in Libia.
Il primo, e forse il più urgente, passo che può essere fatto è la depenalizzazione delle missioni di
ricerca e salvataggio da parte delle Ong e il ripristino
dell’operazione Sophia e la capacità di ricerca e salvataggio. Solo allora sarà
in grado di evitare tragedie come quella che abbiamo visto oggi”.
Malgrado le
ferme denunce dell’UNHCR e dell’OIM che pure in Libia garantiscono una minima
presenza nei luoghi di sbarco, i migranti che cercano di attraversare il Mar
Mediterraneo, in fuga dall’orrore dei centri di detenzione, controllati dalle
milizie colluse con i trafficanti, continuano a essere intercettati dalla
Guardia costiera ”libica”, assistita dalle autorità italiane, e restituiti alle
stesse milizie dalle quali sono fuggiti. I numeri sono
raddoppiati dall’inizio del conflitto in aprile, con circa 4.000 persone
intercettate in mare, e riportate in Libia nel solo mese di luglio.
Uno Stato che
tiene sotto sequestro la Mare Jonio e la Alex di Mediterranea e la Sea Watch
3, navi che
erano state messe in mare con il contributo di tanti cittadini solidali,
impedisce il salvataggio di vite umane in mare, nega lo sbarco dei naufraghi in
un porto sicuro, ne facilita il ritorno in centri
di detenzione nei quali si può essere esposti a trattamenti disumani, è
dunque uno Stato criminale. I
responsabili dovranno rispondere per i crimini contro l’umanità che stanno
commettendo.
Non si può
confondere la condizione giuridica dei naufraghi con quella dei migranti
“clandestini”, non si può
continuare e criminalizzare e a penalizzare gli interventi di ricerca e
soccorso operati in acque internazionali dalle navi private delle ONG, non
si può continuare a ritenere che le attività di intercettazione delegate alla
guardia costiera libica,assistita
dalla missione Nauras della marina militare italiana, possano
garantire il rispetto dei diritti umani dei migranti riportati in Libia. Non si
può continuare a vietare l’ingresso nei porti italiani, perché le Ong avrebbero
dovuto consegnare i naufraghi ai guardiacosteri libici.
In diverse recenti occasioni, la guardia costiera libica ha intercettato
in mare diverse decine di migranti e li ha deportati a Tripoli nel centro di detenzione
di Tajoura che si trova sulla linea di fuoco del
conflitto tra il generale Haftar di Bengasi e il governo Serraj riconosciuto
dalla comunità internazionale, proprio in quel centro dove erano rimasti
uccisi più di 50 detenuti, per effetto di un bombardamento
aereo effettuato di notte dalla LNA del
generale Haftar. Oggi a Tajoura gli internati sarebbero
più di duecento, anche se il governo Serraj aveva promesso la chiusura del
centro e il trasferimento o la rimessione in libertà dei migranti che vi erano
trattenuti.
Almeno 2.500 migranti sono detenuti nei centri di Tripoli e dintorni, dove si combatte con il ricorso
all’aviazione ed alle armi pesanti, persone che dovrebbero essere
immediatamente evacuate, come hanno richiesto da mesiil papa e l’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ma che
nessuno finora è riuscito a mettere in salvo, lasciando così campo libero ai
trafficanti che costituiscono l’unica possibilità di fuga. Fino a quando non
intervengono le motovedette libiche finanziate e assistite dalle autorità
italiane. Sulle ripetute violazioni del diritto internazionale perpetrate dalle
autorità libiche in concorso con le autorità italiane non ci devono essere
testimoni indipendenti e per questo occorreva eliminare la scomoda presenza
delle Ong. Che comunque
non si tireranno indietro di fronte alle rinnovate minacce del governo
italiano.
Dopo la
conversione in legge del decreto sicurezza bis, notevolmente peggiorato
rispetto al suo testo originario, oltre che alla Corte Costituzionale, ci si
dovrà rivolgere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea che potrebbe
aprire, anche nei confronti dell’Italia, una procedura di infrazione, come quella
aperta nei confronti dell’Ungheria, soprattutto per
quelle norme, contenute nei due decreti sicurezza, che impediscono l’ingresso
nel territorio per richiedere asilo e un rapido soccorso dei naufraghi soccorsi
dalle Ong in acque internazionali, in quella zona SAR “libica” che si vorrebbe
affidare esclusivamente alle motovedette della sedicente Guardia costiera
“libica”. Con i risultati che vediamo anche oggi.
La politica
della delega alle autorità libiche, attuata prima contro le navi
umanitarie, e poi contro
le missioni di Frontex e di Eunavfor Med, presenta il
conto, un costo umano sempre più elevato. Una attività
di dissuasione imposta dal ministero dell’interno alle autorità militari con
conseguenze mortali, una politica di morte che adesso si pratica anche nei
confronti dei pescherecci battenti bandiera italiana che soccorrono migranti
nelle acque internazionali, in quella che si ritiene una zona SAR sovrapposta,
tra Malta e l’Italia. Una
zona nella quale da anni le autorità maltesi e italiane si rimbalzano le
responsabilità di soccorso, con conseguenze qualificabili come omissione di
soccorso e ritardo negli interventi SAR, che sono già costate centinaia di
vittime.
Intanto altre
centinaia di persone comunque continuano a raggiungere le coste siciliane, malgrado
i provvedimenti sempre più drastici, fuori dal quadro costituzionale e
internazionale, adottati dal governo giallo-verde. Se nella cosiddetta zona SAR
“libica” si impediscono i soccorsi delle navi delle Ong, e si continua a
morire, rimane incerta la sorte di chi riesce a essere soccorso nella zona SAR
maltese o italiana.
Nella stessa
giornata della strage davanti alle coste libiche di Al Khoms è rimasto
bloccato in mare aperto, tra Lampedusa e Malta, un peschereccio di Sciacca,
l’“Accursio Giarratano”, dopo avere soccorso un gommone con una cinquantina di
migranti a bordo. Si è profilato così l’ennesimo conflitto di
competenza tra stati, in violazione del diritto internazionale che impone lo
sbarco immediato dei naufraghi nel porto sicuro più vicino e la collaborazione,
a tal fine, tra le autorità statali delle zone SAR (ricerca e salvataggio)
confinanti.
Le autorità
maltesi hanno negato l’autorizzazione allo sbarco. Per oltre dodici ore nessuno
ha ascoltato la richiesta
del comandante dell’Accursio Giarratano che chiedeva un
porto sicuro per le persone che aveva soccorso: “Non conosciamo la loro
nazionalità, non possiamo lasciarle alla deriva, vorremmo poterle consegnare a
una autorità marittima disponibile, sia italiana che maltese”. Alla
fine, come
riferisce Angela Caponnetto, i 50 naufraghi soccorsi dal
peschereccio siciliano sono stati trasferiti a bordo dall’unità veloce CP 302
della Guardia Costiera, di base a Lampedusa, e quindi trasbordati sulla più grande nave Gregoretti che ha
preso un altro numero imprecisato di persone dal pattugliatore della Guardia di
finanza Monte Sperone che li aveva poco prima soccorsi. La nave Gregoretti si è
poi diretta verso la Sicilia per sbarco. A Lampedusa in 24 ore sono sbarcate
118 persone. I porti italiani non
sono stati affatto “chiusi” dagli editti del ministro dell’interno, si sono
soltanto penalizzate le ONG, con norme che violano la Costituzione
e le Convenzioni internazionali, e si è fatto il vuoto proprio nella zona di
mare, contigua alle acque territoriali libiche, nella quale si registra il
maggior numero di naufragi.
Italia e Malta, finora, sono
state solo capaci di accordi sulla pelle dei naufraghi e si sono opposte a tutte le ipotesi
di condivisione degli oneri e di trasferimento dei naufraghi, fin qui emerse a
livello europeo. Italia e Malta infatti si sono dissociate dall’intesa
raggiunta a Parigi tra quattordici paesi UE “volenterosi”, disponibili ad
accogliere naufraghi soccorsi sulle rotte del Mediterraneo centrale, a
condizione però che fossero immediatamente sbarcati nel porto sicuro più
vicino, dunque a Malta o in Italia, come è imposto dalle
Convenzioni internazionali. Una posizione di isolamento internazionale che
contraddice il tentativo europeo di individuare prassi omogenee e condivise da
seguire dopo lo svolgimento delle attività di ricerca e salvataggio, già
disciplinate dai Regolamenti europei n.656 del 2014 e 1624 del 2016, in modo da
evitare quelle contrattazioni, se non veri e propri ricatti, ai quali ci ha
abituato il governo italiano, fin dal mese di giugno dello scorso anno
(caso Aquarius), ogni volta che una nave privata salvava vite
umane. Adesso, se l’Italia dovesse insistere su queste posizioni, come tutto
lascia prevedere dopo l’approvazione del decreto sicurezza bis, si potrebbe
aprire la possibilità di denunce a livello europeo per l’apertura di una
procedura di infrazione davanti alla Corte di Giustizia.
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