Qualche
tempo fa, un po’ scherzando, ho spiegato a un amico nero inglese la probabile
origine del mio cognome.
Mauro è
uno di quei cognomi, assieme a Rossi, Bianchi e pochi altri, che sono
storicamente distribuiti in quasi tutta la penisola. La maggioranza dei cognomi
italiani invece ha una connotazione regionale e i loro possessori sono
localizzabili in specifiche aree. Fin da piccolo sono stato incuriosito
dall’origine semantica e geografica dei cognomi. Raccoglievo le figurine dei
calciatori presenti e passati, vedendo nomi come Zoff, Franzot, Bearzot,
Burgnich, Buffon e mi chiedevo: perché in Friuli ci sono tutti questi cognomi
che finiscono con una consonante? E perché il mio no? Questo “giochetto” mi
portò a ragionare sui significati dei cognomi e sulle traiettorie che hanno
portato alla loro formalizzazione, avvenuta in gran parte in epoca medievale.
Alla
voce “Mauro” il dizionario Treccani attribuisce due significati correlati:
1. a. In età romana, denominazione di una
parte degli indigeni dell’Africa settentrionale, in particolare di quelli che
costituirono l’antico regno di Mauritania, corrispondente all’odierno Marocco e
a una parte dell’Algeria. b. Nel medioevo il termine indicò,
genericamente, i musulmani; in seguito, i musulmani cacciati dalla Spagna e
rifugiatisi in Marocco, Algeria e Tunisia.
Dunque
“Mauro” era storicamente qualcuno con la pelle scura, come quella degli
abitanti della Mauritania, i mori; per di più musulmano. La cosa non può
sorprendere, perché la penisola è stata, anche grazie alla sua ampia
esposizione al mare, sempre terra di incontri, spostamenti, migrazioni. Fra i
miei antenati c’era qualcuno con la pelle più scura di altri e magari di
religione non-cristiana.
Questa
complessità, che con i concetti moderni definiremmo multietnica e
multiculturale, è tangibile particolarmente nelle cosiddette zone di confine
(ma confine da cosa? confine con chi?), non solo nei cognomi ma anche nei
toponimi. Per esempio, il villaggio del Medio Friuli in cui sono cresciuto
dall’età di 5 anni, il luogo d’origine di mio padre, si chiama Gradisca di
Sedegliano. In Friuli vi sono diversi toponimi simili e diverse località con
l’affisso “Grad”, e hanno tutti la stessa origine slava: “gradišče” (luogo
fortificato).
Come
molti altri paesi (inclusi i vari Gorizzo, Goricizza ecc nello stesso Medio
Friuli) il mio ha un’origine slava: erano località fondate da coloni slavi
invitati dai Patriarchi di Aquileia a ripopolare la fertile pianura friulana
dopo una delle varie distruttive discese verso l’Italia dei popoli nordici. C’è
di che riflettere considerando i sentimenti anti-slavi presenti in questa
regione, alimentati prima da Mussolini (il razzismo fascista si è manifestato
inizialmente come razzismo anti-slavo) e continuati nella nuova Repubblica,
nell’ambito della Guerra Fredda. Come si può avere in astio lo “slavo” se i
nostri stessi paesi sono stati fondati da slavi?
Seguendo
questo piccolo tour onomastico-geografico, le mie origini risultano nere e
slave (forse pure musulmane). Eppure io ho un passaporto italiano e la
pigmentazione della mia pelle mi rende agli occhi di molti (i più?)
passabilmente, credibilmente “italiano”, e quindi europeo. Perché? Perché
queste categorie appaiono essere – secondo la logica razzista che non ha più
pudore a paventarsi, da San Pietroburgo a Vienna passando per Londra e Roma –
esclusive? Non dovrebbe essere normale essere italiano e nero, musulmano e
italiano, italiano-sloveno, tedesco-italiano-albanese allo stesso tempo?
L’identità,
come ogni cultura, è un percorso fluido e assorbente anche quando non vogliamo
ammetterlo, anche quando facciamo di tutto per negarlo. Pur se isolati in mezzo
ai monti, la nostra realtà e la transculturalità, il divenire incompiuto e
incompiente di molteplici incontri. Dalla loro affermazione nel 19° secolo,
gli Stati-nazione hanno fatto di tutto per marginalizzare e cancellare questa
condizione, formando con mezzi autoritari popolazioni apparentemente omogenee
(“Fatta l’Italia, facciamo gli Italiani”) funzionali al progetto capitalista,
all’illusivo sogno capitalista.
Prima
di provare a chiudere il ragionamento, chiedo a chi legge ancora un attimo di
pazienza se rivolgo nuovamente l’attenzione alla mia biografia. Voglio fornire
ulteriori spunti di riflessione sull’insensatezza della “bianchezza” e della
“nerezza” come definizioni di culture, ma sulla persistenza della loro funzione
di ingranaggi sociali. In altre parole, si tratta di mettere a fuoco – in
termini un po’ semplificanti, lo ammetto – il razzismo culturale che dal
secondo dopoguerra ha soppiantato quello biologico nei discorsi pubblici e che
sta avendo crescente nuova diffusione in Europa, da nord a sud, da est a ovest.
Nel
2006 mi trovavo a Caracas, lavorando come giornalista. Ero nella zona del
centro storico della città e dovevo recarmi per un’intervista nelle zone ad
est, quelle dove risiede la parte ricca dei residenti, composta in stragrande
maggioranza da bianchi di origine europea, immigrati soprattutto dopo la
seconda guerra mondiale. Chiamai a gesti un taxi che si fermò in uno stridore
di gomme. Il tassista mi fece salire e, dopo avermi chiesto dove andare, partì
a grande velocità infilandosi nel vorticoso traffico urbano. Poco dopo,
voltandosi in corsa, mi fece una domanda che probabilmente sentiva urgente:
«Donde vienes? Eres judío?».
L’idea
che potessi passare per ebreo (judío) non mi era mai
sovvenuta. In quella parte di città non si vedevano molti bianchi europei. A
piedi, poi, erano una rarità, da qui forse l’impeto dell’autista
nell’inquadrare la mia origine, che poteva per qualche ragione apparirgli
“esotica”. Per quanto spiazzante fosse per me in quel momento la
domanda-supposizione del tassista caraqueño, appena due anni più tardi,
nell’estate del 2008, mi venne posta più o negli stessi termini a Città del
Capo, Sud Africa, dove mi trovavo per una ricerca sugli immigrati di origine
italiana. A una fermata dell’autobus un uomo nero seduto in terra mi chiese dei
soldi e senza attendere la mia riposta alzò lo sguardo verso di me e disse in
modo interrogativo: «You Jew?» (sei ebreo?).
Cosa
sono quindi io? Cosa vuol dire attribuirsi una “identità nazionale”, al di là
della fortunosa sorte di essere in possesso di un passaporto del Nord del
mondo? Io sono quello che gli altri vogliono vedere. Quel che percepiscono ed
elaborano attraverso categorie e informazioni che hanno assimilato nel corso
delle loro vite. Sono quello che gli altri sono disponibili a
vedere di me.
Questa
semplice deduzione assume una dimensione più complessa, con implicazioni più
profonde e gravi, nel caso di chi venga percepito come “straniero” oggi in
Italia, o in Europa. Si tratta soprattutto di persone con la carnagione più
scura (ma di quanto? rispetto a quale supposto “standard”? Forse la pubblicità
della pasta Barilla o di una marca di birra regionale in Germania possono darcene
un’idea).
Si
tratta, in fondo, della linea del colore, di cui parlava l’intellettuale
afroamericano W. E. B. Du Bois nei primi decenni del novecento. Era quella
linea che aveva fatto sì che i popoli europei avessero creato per sé stessi un
mondo dove più di tre quarti della popolazione erano trattati da inferiori,
popoli da colonizzare, da sottomettere, sfruttare, e per diversi secoli, nel
caso degli africani, da comprare, vendere e da lasciar morire o uccidere quando
non servivano più. Era quella linea che definiva, nella visione dello
psichiatra Frantz Fanon – francese originario della Martinica – lo sguardo del
bianco che crea il nero, una supposta alterità, e creando il nero crea anche se
stesso.
Questo
percorso storico non è sepolto, non è passato, ma anzi continua a produrre
effetti, a ribollire e diffondere semi venefici nelle forme più diverse. «When
Brexit comes you will be gone» (Quando arriva Brexit te ne dovrai andare) si è
sentita dire, in mezzo a epiteti razzisti più violenti, una ragazza nera a
Londra, la città in cui è nata. E’ solo una piccola storia di razzismo
quotidiano, una come tante anche in Gran Bretagna, ma è finita sui giornali
perché avvenuta in un luogo pubblico, in un’agenzia per scommesse, di fronte a
testimoni. In questo caso l’autore è stato condannato a 12 mesi di lavori
sociali e una multa di 600 sterline.
Le
cronache italiane sono purtroppo ricolme di episodi simili, che spesso
rimangono impuniti. Si tratta non solo di abusi verbali, di insulti razzisti ma
di assalti fisici, come quelli avvenuti a lavoratori africani in provincia di
Foggia, colpiti da sassi lanciati da auto in corsa, all’alba, mentre in
bicicletta si recavano a lavorare nei campi. Si tratta anche di omicidi, come
quelli di Samb Modou e Diop Mor, a Firenze per mano di un “intellettuale”
neonazista (Gianluca Casseri) o tentati omicidi come quelli di Macerata, per
mano di un fervente sostenitore di Matteo Salvini, un militante della Lega ed
ex candidato alle elezioni comunali.
Nell’immaginario
dominante, il “nero” incarna il diverso, l’altro, lo straniero, ed è
irrilevante se si tratta di cittadini italiani o di altri paesi europei. La
razzializzazione dell’immigrato (il processo per cui le persone vengono
accumunate in base a delle categorie stabilite da altri, per tenerle in una
posizione subordinata) si somma alla razzializzazione della linea del colore.
E’ il presupposto del discorso razzista.
Il
clima creatosi in Italia, una vera macchina di desideri distruttivi, di odio
epidermico alimentato dalla destra populista e apertamente razzista («Prima gli
italiani!») ha spinto un giornalista di Avvenire, Matteo Fraschini
Koffi, a scrivere un articolo dal titolo emblematico: Io, italiano
disorientato, denuncio. Ho la pelle nera e ho paura.
E’ in
questo clima, che ha un profilo transnazionale, soprattutto in occidente – pur
con distinzioni e diverse espressioni a seconda dei Paesi – è necessario
individuare narrazioni alternative, contronarrazioni da opporre al discorso
sovranista, che non è altro che un goffo travestimento dei fascismi di sempre.
Una di queste è lo smontare dialetticamente l’idea dello stato-nazione,
dell’identità nazionale esclusiva ed escludente. Fare questo in ogni occasione,
con chiunque, di persona o sulle reti digitali (i tanto popolari e potenti
“social”).
E’ un
compito di tutti, per cercare di liberare il genere umano da quella che James
Baldwin definì nel suo ultimo libro (The evidence of things not seen,
1985) «la soffocante idea dell’identità nazionale e la tirannia delle dispute
territoriali». Credere nell’umanità, oggi più di sempre, è credere
nell’identità fluida e transculturale, al di là degli Stati nazionali e dei
nazionalismi vecchi e nuovi.
Nessun commento:
Posta un commento