L’arresto dei membri della cosiddetta “gang del peperoncino” (variamente
denominata nelle cronache giornalistiche) ha riportato in auge, tra cronaca,
editoriali e reportage, la
famigerata “questione giovanile” – un topos eterno e immutabile, che viene istantaneamente tirato fuori ogni
volta che un minorenne commette un atto criminale.
Lo schema, in queste settimane, ha trovato conferme e argomenti in
altri scellerati fatti di cronaca
che hanno avuto per protagonisti dei ragazzi – accoltellatori di carabinieri,
lanciatori di cassonetti, un circo di giovane umanità degenerata che ha
costretto psicologi ed editorialisti a fare gli straordinari agostani. La
“questione giovanile” è infatti un cantiere narrativo perennemente aperto, disponibile
ad ogni genere di incursione ideologica: che si parli di droga, violenze negli
stadi, sadismi sociali, tutti possono andare ad azzuppare dentro questa vasta
insenatura del nostro immaginario. E questo da sempre, nonostante i
cambi di stagioni, di contesti e di generazioni.
C’è un concetto, però, che più spesso è rimbalzato in questi giorni dalle
pagine dei giornali, imponendosi all’attenzione degli italiani spaparanzati
sotto l’ombrellone o sbattuti nei bar di periferia: il Vuoto.
I giovani ne combinano di ogni, perché sono “vuoti” – o, a seconda delle
versioni, crescono “nel vuoto”. Qui le variazioni sul tema sono infinite: il
vuoto valoriale delle famiglie, il vuoto dei quartieri, il vuoto delle
metropoli e quello della provincia, il vuoto della mancanza di luoghi di
aggregazione, il vuoto delle discoteche.
Il Buddha sarebbe molto soddisfatto di questa continua evocazione del
“vuoto” (anche se lui predicava la vacuità), come vera essenza di tutte le cose
– in particolare del nostro sbrindellato tessuto sociale.
Qualche anno fa – ricordo la stagione
dei sassi dal cavalcavia – andava
di moda il più raffinato “nichilismo”, nel quale imberbi Stavrogin di
provincia sguazzavano inconsapevoli, lungo i bordi bui delle autostrade. Era più o meno la stessa solfa semantica del
“vuoto” – ma oggi si vede che i direttori dei giornali hanno meno fiducia nelle
competenze linguistiche dei loro lettori e lasciano tranquillo Nietzsche.
Insomma, tutte le volte che ci
si occupa dei “giovani” (categoria, anche questa, di assai dubbia
pregnanza sociologica e statistica), è perché c’è scappato il morto e può partire la tiritera sull’assenza dei
valori.
Mi permetto di dire che stavolta,
al cospetto di questi rapinatori di collanine, non siamo davanti né a un vuoto
valoriale (cioè, un rifiuto o una impermeabilità rispetto alla
griglia dei valori condivisi) né
ad una violazione deliberata dell’ethos sociale. Anzi, questi
ragazzi, più che in una condizione di “vuoto”, sembrano piuttosto belli “pieni”:
pieni di valori che non solo hanno ormai acquisito libera
circolazione, ma sono diventati il combustibile di ogni ideologia e di ogni
immaginario del presente. Qualcuno
può definirli dis-valori, certo. Ma dipende dal campo di applicazione.
Dove sarebbe il “vuoto”, scusate? Nel fatto che
rubino? Gesù: quali sarebbero i sacri esempi di integerrima onestà che si
stagliano nel patrio empireo?
Non c’è un singolo pezzo di ceto politico che non
abbia le mani invischiate nella merda dei finanziamenti illeciti, del
riciclaggio, della corruzione, della concussione, del concorso esterno, del
lobbismo a favore di banche e gruppi.
Le disavventure giudiziarie della Lega – da Siri al Metropol – hanno fatto addirittura impennare il suo consenso nei sondaggi, tanto per capire che aria tira nel paese sul tema legalità. La capitale d’Italia è diventata, a detta di molti osservatori, una narcometropoli, crocevia di ogni traffico internazionale, oltre che grande mercato a cielo aperto dello stupefacente; la polizia sequestra locali a dozzine, intorno alle grandi sedi istituzionali del paese, in pieno centro, perché riconducibili a clan che hanno pienamente assunto un ruolo egemone nell’economia cosiddetta legale.In Lombardia pure peggio: appalti, discariche in fiamme e controllo del territorio messo in atto da due generazioni di ‘ndrangheta. In Emilia, le mani sul mercato del lavoro e l’intermediazione di mano d’opera. E il mezzogiorno – in cui la violazione sistematica della legge diventa imperativo di sopravvivenza per decine di migliaia di persone – corre verso lo sfascio sociale facendo da apripista alla progressiva “mezzogiornizzazione” del paese intero. Sembra che una parte d’Italia si svegli ogni mattina col sangue agli occhi, furiosamente famelica, per derubare, truffare e spremere, l’altra parte che più o meno subisce – per evidente incapacità di fare altrettanto.
Le disavventure giudiziarie della Lega – da Siri al Metropol – hanno fatto addirittura impennare il suo consenso nei sondaggi, tanto per capire che aria tira nel paese sul tema legalità. La capitale d’Italia è diventata, a detta di molti osservatori, una narcometropoli, crocevia di ogni traffico internazionale, oltre che grande mercato a cielo aperto dello stupefacente; la polizia sequestra locali a dozzine, intorno alle grandi sedi istituzionali del paese, in pieno centro, perché riconducibili a clan che hanno pienamente assunto un ruolo egemone nell’economia cosiddetta legale.In Lombardia pure peggio: appalti, discariche in fiamme e controllo del territorio messo in atto da due generazioni di ‘ndrangheta. In Emilia, le mani sul mercato del lavoro e l’intermediazione di mano d’opera. E il mezzogiorno – in cui la violazione sistematica della legge diventa imperativo di sopravvivenza per decine di migliaia di persone – corre verso lo sfascio sociale facendo da apripista alla progressiva “mezzogiornizzazione” del paese intero. Sembra che una parte d’Italia si svegli ogni mattina col sangue agli occhi, furiosamente famelica, per derubare, truffare e spremere, l’altra parte che più o meno subisce – per evidente incapacità di fare altrettanto.
Volevamo diventare l’America (nei sogni di
Berlusconi) o la Germania (nei sogni di Prodi) ma cominciamo ad assomigliare ad
un paese dell’Est Europa: una piccola, insignificante Repubblichetta che si
arrangia come può tra grande crimine, piccola illegalità e continua ricerca
internazionale del protettore giusto. Questo è il paese reale, oggi. Non altro.
In che cosa i rapinatori di collanine sarebbero
“fuori sincrono”?Rispetto a quali “valori” essi farebbero registrare un
preoccupante vuoto? Rispetto ai valori borghesi ufficiali, formali – la buona educazione, il
rispetto delle leggi? Ma quella è la scorza esteriore delle nostre comunità.
Basta grattare un po’ col dito e la patina superficiale di consuetudini civili
viene via: basta un pugno di profughi, un furto in casa, o anche solo la macchina
rigata, che la brava gente perde la sua maschera di rispettabilità civica e
invoca la pena di morte, il supplizio, l’affondamento militare dei barconi,
l’ostracismo, i muri non alle frontiere nazionali ma a quelle del quartiere o
del condominio.
Perché il rispetto della polis, del vivere civile, del tasso minimo di solidarietà umana che la nostra specie ha faticosamente conquistato in diecimila anni, non possono essere pannelli attaccati con lo scotch: o quelle cose ce le hai dentro per davvero – e fanno parte di un patrimonio valoriale reale (non importa se laico, civile o religioso), cioè di una mobilitazione permanente delle coscienze, di una storia che si tramanda di generazione in generazione – oppure non reggono, come le facciate di scena di Cinecittà: un soffio di vento e crollano.
Perché il rispetto della polis, del vivere civile, del tasso minimo di solidarietà umana che la nostra specie ha faticosamente conquistato in diecimila anni, non possono essere pannelli attaccati con lo scotch: o quelle cose ce le hai dentro per davvero – e fanno parte di un patrimonio valoriale reale (non importa se laico, civile o religioso), cioè di una mobilitazione permanente delle coscienze, di una storia che si tramanda di generazione in generazione – oppure non reggono, come le facciate di scena di Cinecittà: un soffio di vento e crollano.
Dunque, in che cosa i Di Puorto o i Cavallari sarebbero “devianti”, dentro
il disastrato quadro antropologico dei nostri tempi? Nessun vuoto. Hanno
pienamente assorbito l’imperativo consumista: “spendevano tutto quello che guadagnavano in abiti firmati”, ci informano
scandalizzati i cronisti – come se i loro figli non fossero sottoposti alla
medesima pressione morbosa. E hanno rapidamente introiettato l’ideologia
competitiva che è l’essenza della nostra epoca: competere a scuola,
col vicino di banco, con il vicino di casa, con il collega sul posto di lavoro,
con i paesi, i popoli, le macroaree geopolitiche. Poi, è chiaro, ognuno la
competizione la fa con gli strumenti che si ritrova: il furto con destrezza non
deve essere poi sembrato un così grave crimine, nel quadro generale. E se
qualcuno ci lascia la pelle, nella calca di un discoteca, che vuoi mai? È solo
il risultato della dura legge della sopravvivenza, in cui tutti siamo tenuti a
sfidarci, ad alzare la posta, a “sentirci veramente liberi di essere noi
stessi”, a “superare i limiti”, a “non rimanere nel branco” (queste, ad
esempio, sono solo alcune delle mediocri stronzate che i pubblicitari associano
all’acquisto di mediocri vetturette che dovrebbero conferire al mediocrissimo
acquirente una identità vincente).
Possono le etiche quietiste, sobrie, rassegnate di impotenza, competere con
l’epica gomorroide di prima serata? Possono i richiami al buon
senso, avere presa sul fuoco acido degli adolescenti?
E non dimentichiamo che questi
meschini delinquentelli di provincia, hanno dalla loro una formidabile
attenuante storica: appartengono alla prima generazione repubblicana che non ha
mai, proprio mai, sentito parlare, della possibilità di vivere in un altro modo,
in un altro mondo, in una società in cui il brand, il mercato, le
gerarchie di classe, i destini di casta, non fossero l’unico terreno di gioco. Prima
di rubare, quei ragazzotti sono stati derubati: di una narrazione alternativa,
di una visione, di una possibilità, anche germinale o utopistica, di immaginare
un altro modo di vivere. Una scommessa, una potenzialità, con cui da cento anni
a questa parte, i giovani figli delle classi lavoratrici avevano avuto la
possibilità comunque di misurarsi. In questo, i ragazzi del peperoncino sono stati allievi diligenti: hanno assimilato
subito la lezione del There is no alternative, e si sono dati da
fare – un po’ di spirito imprenditoriale ce l’hanno messo anche
loro, per Dio – per attrezzarsi ad un degno ingresso in società.
Niente. Ad una attenta analisi
non troverete nulla nel comportamento dei ragazzi della “gang” che rappresenti
una reale defezione dalle leggi non scritte della moderna polis tardocapitalista.
Il sindaco di uno dei paesi modenesi in cui
alcuni ragazzi del gruppo abitavano, ha tenuto a precisare che “si tratta solo
di residenti, gente sradicata, estranea alla comunità”. Metà hanno cognomi
meridionali (in gergo: marucchein), gli altri genuinamente
maghrebini. Quindi le parole del sindaco hanno evocato una qualche differenza
etnica: il male viene da fuori, noi lo abbiamo solo incolpevolmente
ospitato, come fa un corpo sano con un virus. Non sono figli nostri –
voleva dire. E in questo riflesso purista, si nascondeva proprio la
terribile consapevolezza che SONO figli nostri, figli legittimi,
prodotti di tutte le nostre passive accettazioni dello spirito dei tempi,
contro cui è sempre sconveniente porsi, da amministratore, da intellettuale, da
persona qualunque. Quella voce perbenista è la stessa di quei sindaci che
difendono ad oltranza le aziende del “nuovo triangolo industriale” – che
proprio nel modenese ha uno dei suoi vertici –, in cui quegli stessi
cognomi marocchini/marucchein, figurano arruolati nella nuova
classe operaia 4.0, in condizioni di sfruttamento e precarietà (vedi il
comparto carni o la mitica Italpizza) un tempo sconosciuti.
Ecco: probabilmente i Di Puorto, gli Amoruso, i Mormone, gli Haddada, li
avrebbero visti bene lì dentro, negli stabilimenti e nei cantieri, che stessero
al loro posto naturale, a sei euro lordi l’ora – o a consegnare cibo in
bicicletta. Ma ricordiamoci che oggi
tutti – industriali e proletari, con la medesima pervasiva intensità – sono
accecati dallo stesso peperoncino maligno; e tutti, ognuno con i mezzi che si
trova a disposizione, cerca di partecipare alla medesima democraticissima Grande
Festa: chi sbocciando champagne nel privèe, chi
imbucandosi e strappando collanine.
La musica che ballano è comunque quella.
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