Lunedì
scorso, come tutti i 12 agosto, ero a Sant’Anna di Stazzema, ma stavolta la
commemorazione dell’eccidio, per me e una ventina di altre persone, è stata
diversa dalle altre. Se ne sono accorti anche i partecipanti alla cerimonia
ufficiale, quando in cima alla Via crucis, la salita lastricata che unisce la chiesa
di Sant’Anna al monumento ossario, si sono trovati di fronte alcune persone che
esibivano cartelli scritti a mano in italiano e in tedesco: letti in fila,
componevano quasi un discorso, un’affermazione.
1944/2019;
Restiamo umani; Mai più Sant’Anne; Porti aperti; Corridoi umanitari. Ogni
cartello aveva lo stesso hashtag, a riassumere il senso della manifestazione:
#BastaStragi. Quelle persone avevano anche alcune bandiere. Quelle canoniche:
il tricolore italiano, il blu stellato europeo, l’arcobaleno pacifista; e altre
bandiere-non bandiere: le coperte termiche usate per avvolgere i naufraghi
salvati dal mare.
Quelle persone eravamo noi, una ventina di giovani e meno giovani, dai 16 agli 82 anni, arrivati a Sant’Anna a piedi dopo una settimana di Cammino per la pace da Monte Sole, luogo di un altro gravissimo eccidio nell’autunno del ’44.
Quelle persone eravamo noi, una ventina di giovani e meno giovani, dai 16 agli 82 anni, arrivati a Sant’Anna a piedi dopo una settimana di Cammino per la pace da Monte Sole, luogo di un altro gravissimo eccidio nell’autunno del ’44.
Abbiamo
esibito quei cartelli, quelle bandiere e quelle non-bandiere perché crediamo
che la memoria storica e in particolare la memoria delle stragi nazifasciste
siano strumenti decisivi per capire il presente e agire di conseguenza. Abbiamo
scritto quei cartelli, la sera dell’11 agosto, perché sapevamo che durante i
discorsi ufficiali non si sarebbe parlato, se non marginalmente e in modo poco
esplicito, dello scandalo in corso nel Mediterraneo, il genocidio dei migranti.
Lo chiamiamo così, genocidio, perché siamo persuasi che tale sia, con 30 o
forse 40mila persone inghiottite dal mare negli ultimi anni, e perché la
“lezione” delle stragi naziste ci impone di guardare il mondo pensando a chi è
sepolto, spesso senza nome e senza bara, sotto la terra di Sant’Anna. Pensando
all’invocazione di umanità che arriva da quei corpi.
Abbiamo
capito, così facendo, che c’è un nesso profondo fra le stragi di allora e
quelle di oggi: in entrambi i casi le persone sono state annientate senza
riguardo e senza rimorso, con l’indifferenza che si riserva alle vite di
scarto, le vite che non contano, esistenze esposte alla morte perché meno
importanti di altre vite. Le vicende della seconda guerra mondiale ci
scandalizzano ancora perché ci trovammo noi italiani, popolo europeo e
colonizzatore, dalla parte di chi può essere eliminato. Non eravamo preparati,
non ce lo aspettavamo. Oltre 400 persone a Sant’Anna di Stazzema furono
trucidate in modo sbrigativo e lasciate insepolte, abbandonate con noncuranza
dentro le case, nelle aie, davanti alla chiesa e lungo i sentieri. Sono passati
decenni e oggi assistiamo da lontano a quel che avviene nel Mediterraneo,
diventato un cimitero senza bare né lapidi, quindi invisibile e lontano dalle
nostre coscienze.
La fine del
nazismo e del fascismo, l’avvento delle democrazie in Europa, la coscienza
storica maturata nei decenni non ci hanno preservato da una nuova caduta di
civiltà. Di questo dovremmo rendere conto ai morti che ci guardano e ci
osservano ogni volta che calpestiamo la terra in luoghi come Sant’Anna di
Stazzema. Sono luoghi speciali, capitali morali del nostro tempo, e non possono
diventare luoghi della retorica e della consolazione, dove si arriva con la
speranza di sentirsi a posto con la coscienza, riconciliati con la storia
nell’omaggio ai morti e nel rigetto del nazifascismo.
Lunedì
mattina la commemorazione dell’eccidio per noi camminatori è cominciata
all’alba (come 75 anni prima all’alba era cominciata la strage), in un luogo
insolito, la Vaccareccia, frazione di Sant’Anna dove decine di persone furono
massacrate nelle case e all’interno di una stalla. Ci siamo dati appuntamento
lì al levare del sole con Carlo Molinero, l’artista che ha concepito
un’installazione mobile e l’ha collocata proprio all’interno della stalla
diroccata dove persero la vita più di cinquanta persone. L’opera si intitola
“Help. Hommage aux frères mort dans la mer” e tratta il tema dei genocidi.
Carlo, nel testo che introduce l’opera, scrive che occorre chiamare le cose con
il loro nome e che il potere nei genocidi cerca sempre di occultare i corpi
affinché tutti si sentano meno responsabili. Non dobbiamo cedere a
quest’inganno.
L’opera di
Carlo è costruita con le doghe di una vecchia botte, ognuna dipinta con simboli
e volti stilizzati in espressioni d’angoscia e d’orrore. Ogni assicella evoca
uno dei genocidi avvenuti nella storia, dagli indiani d’America alla Shoah, dal
Ruanda alla Bosnia alla tragedia degli armeni. “Help”, specie se collocato in
luoghi come la Vaccareccia, è un’opera che invita alla riflessione e alla
meditazione. Il testo scritto a mano e posto dall’artista davanti alla stalla
diroccata si conclude così: “Contano, tutti i carnefici, di annegare i corpi in
quel mare immateriale che corrode moralmente e rende impotenti: il mare
dell’indifferenza. Il mare Mediterraneo e non Mediterraneo
dell’indifferenza”…
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