Tra il 1970 e il 1980, il 42% delle
donne native americane fu sterilizzato contro il proprio consenso. Al piano
governativo statunitense diede il via, il 16 marzo 1970, la firma dell’allora
Presidente Richard Nixon.
Eugenetica e selezione della razza
dominante
Tra i diversi strumenti usati dal
Governo statunitense per risolvere il cosiddetto “problema indiano” abbiamo
visto, nei miei precedenti articoli, l’istituzione delle riserve e le scuole
residenziali indiane. Ma ce ne sono altri, recenti e malefici. Il più subdolo,
la sterilizzazione forzata, ci fa tornare subito in mente l’eugenetica e i
laboratori nazisti.
L’arrivo del darwinismo esaltò le
correnti razziste e sessiste che avevano preso piede all’inizio del XIX secolo.
Lo studioso statunitense E. D. Cope identificò quattro gruppi inferiori nella
scala evolutiva dell’uomo: i non-bianchi, le donne, i bianchi del sud Europa,
inclusi Italiani ed Ebrei, e le classi sociali inferiori. Queste correnti di
pensiero crearono il movimento eugenetico. Sir Francis Galton, un cugino di
Darwin, decretò che la riproduzione umana doveva essere regolamentata per
assicurare ai “migliori”, specialmente delle classi alte, la possibilità di
dominare. Nel 1912 a Londra si tenne il primo Congresso Internazionale sulla
eugenetica, cui parteciparono anche Winston Churchill e scienziati italiani
ispirati dalle teorie degenerazioniste di Lombroso.
Sebbene le tendenze di Churchill siano
state rimosse dalla sua biografia, oggi molte fonti citano i suoi discorsi:
“Non sono d’accordo che il cane nella mangiatoia abbia il diritto finale alla
mangiatoia, anche se vi è stato per un tempo molto lungo. Non ammetto quel
diritto. Non ammetto, ad esempio, che un grande male sia stato fatto ai Rossi
Indiani d’America o al popolo nero d’Australia. Non ammetto che un male sia
stato fatto a questa gente perché una razza più forte, una razza di più alto livello,
una razza più saggia nel mondo è arrivata e ha preso il loro posto” (Discorso
alla Peel Commission 1937). In gran parte dell'Europa occidentale e negli Stati
Uniti furono applicati provvedimenti di carattere eugenetico, a partire dalla
fine dell'Ottocento: sia con una legislazione volta a indirizzare le scelte
riproduttive, sia attraverso la sterilizzazione forzata e la rimozione degli
“elementi negativi” per la razza. In Italia la sterilizzazione forzata non fu
mai approvata, grazie all’opposizione della Chiesa Cattolica.
Nel movimento eugenetico americano, in
quegli anni, Carl Brigham faceva notare come l’immigrazione nel paese
“scendesse” di qualità: meno sangue superiore nordico, “ariano”, e più sangue
inferiore mediterraneo. Le razze inferiori furono additate come parassiti umani
e “schifosi, non-Americani e pericolosi”. Il movimento eugenetico promosse a
quel punto la sterilizzazione degli “inadatti” e Harry Laughlin disegnò una
proposta di legge per la sterilizzazione, che fu adottata in diversi stati
americani. Grazie a queste leggi, che erano espressamente rivolte a
“epilettici, disabili mentali, alcolizzati, drogati e criminali”, almeno 50.000
sterilizzazioni furono eseguite negli Stati Uniti entro il 1940. Ma il peggio
doveva ancora venire.
Anche se le azioni di Hitler avrebbero
dovuto far impallidire e vergognare qualunque simpatizzante dell’eugenetica. In
merito alla tempesta di sterilizzazioni che travolse migliaia di donne
americane e migliaia di donne native americane, così dichiarava nel 1978 il
Dipartimento della Salute americano: “La sterilizzazione volontaria è legale in
tutti gli stati. Pur se la maggior parte degli stati non ha uno statuto che
regola questa pratica, più della metà autorizza la procedura attraverso
l’opinione degli avvocati, o le decisioni dei giudici, o regole del
Dipartimento della Salute, o implicitamente attraverso il consenso degli
interessati”. Proprio l’IHS, Indian Health Service, che avrebbe dovuto
prendersi cura della salute dei Nativi Americani, ebbe una parte fondamentale
nella sterilizzazione delle donne native americane; solo le ripetute grida di
denuncia di genocidio poterono fermare questo abominio.
La cosiddetta “pianificazione familiare”
degli Stati Uniti, il Family Planning
Il programma di sterilizzazione forzata,
presumibilmente, fu scoperto da membri dell'American Indian Movement durante
l’occupazione del Quartier Generale del Bureau of Indian Affairs nel 1972. Nel
1974 uno studio condotto dal WARN (Women of All Red Nations) concluse che fino
allora il 42% delle donne native americane in età fertile fosse stato
sterilizzato senza consenso.
Il 16 marzo 1970 Nixon firmò il Family
Planning Services and Population Research Act. Si intende con Family Planning
(pianificazione familiare) la progettazione del controllo delle nascite, nel
presupposto di aiutare una coppia ad avere bambini nel modo migliore, o a non
averli se così decidono. La legge fu richiesta dalla amministrazione del
governo nel luglio 1969, per siglare un impegno nazionale che provvedesse un
adeguato servizio di pianificazione familiare a tutti coloro che lo
richiedessero, ma non potessero permetterselo. Il Presidente Nixon dichiarò
pubblicamente che però era contrario all’aborto e in questo programma non ci
sarebbero stati fondi o servizi per l’aborto come soluzione al controllo delle
nascite.
Dal 1970, la sterilizzazione è divenuta
il più comune sistema di controllo delle nascite per donne oltre i 25 anni
negli Stati Uniti. Tra il 1970 e il 1980, le sterilizzazioni triplicarono. Nel
1982, il 15% delle donne bianche, il 24% delle afro-americane, il 35% delle
donne portoricane e, in vetta alla triste classifica, il 42% delle donne native
americane era stato sterilizzato. Nei primi anni '70, una stima di 100.000/
150.000 individui, inclusi uomini a basso reddito, venivano ogni anno
sterilizzati sotto i programmi finanziati dal governo statunitense. Come in
passato, i pregiudizi sociali e l’ideologia di una classe prevalentemente
razzista consentirono che ciò avvenisse.
Il National Women’s Law Center (NWLC)
denuncia in un report del 2022 che in oltre 30 stati americani è tuttora legale
la sterilizzazione forzata. Si autorizza la procedura sulla base dell’opinione
del giudice, o del Procuratore Generale, o leggi dell’Health and Welfare
Department, o attraverso il consenso dell’interessato. Negli anni '70 la
sterilizzazione fu praticata attraverso scappatoie: “consensi” strappati o
giocati su poca chiarezza, ricatti, bugie. Quindi sterilizzazione non
consensuale. Molte donne erano classificate come “cattive ragazze”, o
diagnosticate come “focose”, “maniache assatanate” o “sessualmente difficili”.
La sentenza del caso Buck vs. Bell deliberò che, se lo statuto di uno stato
permetteva la sterilizzazione obbligatoria sugli inabili, inclusi i “ritardati
mentali”, per la protezione e la salute dello Stato, non violava il
Quattordicesimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti in difesa dei
diritti civili. La “Eugenetica Negativa” intendeva migliorare la razza umana
eliminando “difetti” dal patrimonio genetico. E spalancò le voragini per
migliaia di persone che furono sterilizzate contro la propria volontà o
perseguitate come sub-umani.
Il “trapianto di utero”
Una giovane donna indiana di ventisei
anni entrò nello studio della dott.ssa Connie Pinkerton-Uri, a Los Angeles, in
un giorno di novembre del 1972. E chiese un “trapianto di utero”, per poter
avere dei bambini con suo marito. Un medico del Servizio Sanitario Indiano le
aveva praticato un’isterectomia completa sei anni prima, quando lei aveva avuto
problemi di alcolismo. E le aveva assicurato che l’isterectomia era
reversibile. La dottoressa Pinkerton dovette dire alla donna piangente la
verità: non esisteva nessun “trapianto di utero”.
Due giovani donne indiane entrarono
nell’ospedale del Servizio Sanitario Indiano del Montana per appendicite, in un
giorno di ottobre del 1970, e ricevettero un “servizio extra gratuito”: la
legatura delle tube. Bertha Medicine Bull, membro della tribù dei Northern
Cheyenne, riporta: “Le due ragazze sono state sterilizzate all’età di quindici
anni, senza consenso e senza dir loro nulla. Né avvisare i loro genitori”.
In un caso di molestie sessuali in
Oklahoma, nella struttura di Claremont, a una donna nativa fu detto da
assistenti sociali e da altro personale dell’ospedale che era una cattiva
madre, e che le avrebbero portato via i suoi bambini. Avrebbero dato in
affidamento i suoi bambini se non avesse accettato di sottoporsi alla
sterilizzazione. Ho avuto modo pochi anni fa di raccogliere dal vivo
testimonianze di native vittime della sterilizzazione forzata, giovanissime
negli anni Ottanta (per approfondire: “La mia Tribù. Storie autentiche di
Indiani d’America”, Raffaella Milandri, Mauna Kea Edizioni).
Mentre, sull'onda dei movimenti
pacifisti del '68 e post-vietnam degli anni '70, il cinema americano iniziava a
"riscattare” gli indiani con pellicole come Soldato Blu e Un uomo chiamato
cavallo, rendendo finalmente giustizia laddove i ”pellirosse” erano sempre
stati “i cattivi”, veniva attuato il Family Planning Act del 1970. Un piano di
efferata sterilizzazione forzata e contro la volontà delle donne native
americane, e non solo, tra i 15 e i 44 anni. Dopo ripetute proteste e
segnalazioni, nel 1976 il Government Accounting Office condusse un’inchiesta
che sfociò nel GAO Report. Il GAO Report non verificò se fossero state
praticate sterilizzazioni forzate, ma attestò che vi erano stati difetti
procedurali, che i moduli di consenso non erano a norma, e che i medici non
avevano “compreso” le disposizioni. Diversi moduli di consenso, inoltre, erano
stati firmati il giorno dopo la sterilizzazione. Nessuna nativa americana fu
chiamata a testimoniare.
Perché avvennero queste sterilizzazioni
in tempi non sospetti, a cavallo tra gli anni ‘60 e gli anni ‘80? Non solo su
donne indiane, ma in gran misura anche su afro-americane e di razza ispanica.
Le ragioni del Governo degli Stati Uniti furono sociali ed economiche. Limitare
le nascite in famiglie povere e appartenenti alle minoranze razziali era un
“bene” per la società e un aiuto per le famiglie povere, che potevano
sopravvivere meglio senza troppi bambini. E si limitavano le spese del
Medicaid, il programma di assistenza sanitaria statunitense per i meno
abbienti. Vari studi, tra cui quello della dott.ssa Choctaw-Cherokee Connie
Pinkerton-Uri rivelano che l’Indian Health Service tra il 1970 e il 1976
sterilizzò dal 25 al 50% di donne native americane, di età compresa fra i 15 e
i 44 anni. Prediligendo le donne di puro sangue indiano. E usando spesso
minacce e ricatti, o facendo firmare moduli durante il dolore del travaglio. Il
giudice tribale Marie Sanchez interrogò 50 donne Cheyenne e scoprì che 26 di
esse erano state sottoposte a sterilizzazione forzata dai medici dell’IHS.
L’abuso di sterilizzazioni non consensuali afflisse l’intera comunità degli
Indiani d’America: un’epidemia di divorzi, alcolismo, abuso di droghe,
depressione mise i Nativi Americani per l’ennesima volta in ginocchio, oltre a
metterne a rischio la sopravvivenza.
Emily Moore nei suoi studi mette in
risalto come, tra i Nativi Americani, i figli siano vitali per la famiglia, ma
anche per la sopravvivenza del gruppo e dell’identità tribale. La politica di
“controllo delle nascite” dell’IHS produsse una serie di effetti che non sono
certo secondari: le comunità tribali, diminuendo di popolazione, ebbero
assistenza e servizi ridotti, numero di votanti per le elezioni limitato e un
numero minore di rappresentanti che potessero tutelarli. Quindi potere politico
minore sia ai consigli tribali e sia al governo. Torna sempre, di fronte a
tutto ciò, lo spettro della prima ragione per gli stermini di Nativi Americani:
la terra e il denaro. Farli fuori una volta per tutte, tagliare i costi
assistenziali e prendere le risorse naturali delle riserve. Un crimine
perpetrato con lucidità e determinazione, per “stemperare” il sangue indiano in
una tonalità sempre più “bianca.”
*Scrittrice e giornalista, attivista per
i diritti umani dei Popoli Indigeni, è esperta studiosa dei Nativi Americani e
laureata in Antropologia.
Membro onorario della Four Winds
Cherokee Tribe in Louisiana e della tribù Crow in Montana. Ha pubblicato oltre
dieci libri, tutti sui Nativi Americani e sui Popoli Indigeni, con particolare
attenzione ai diritti umani, in un contesto sia storico che contemporaneo. Si
occupa della divulgazione della cultura e letteratura nativa americana in
Italia e attualmente si sta dedicando alla cura e traduzione di opere di autori
nativi.
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