L’ultima volta che sono andata a Londra è
stato alla fine di settembre. Solo cinque mesi fa. Cinque mesi che sembrano
cent’anni.
Cent’anni di genitori palestinesi che
piangono straziati i propri figli uccisi e mutilati. Cent’anni di scuole
bombardate, ospedali assaltati e moschee profanate. Cent’anni di soldati
israeliani che filmano i loro crimini di guerra e li pubblicano su TikTok.
Cent’anni di adolescenti addestrati al fascismo che bloccano camion carichi di
provviste. Cent’anni di appelli all’annientamento di oltre due milioni di
persone imprigionate e ghettizzate. Cent’anni di euforici progetti per
trasformare Gaza in un grande parcheggio. In una città di mare israeliana. In
un museo. In un mattatoio. In una zona cuscinetto. Cent’anni di giornalisti
onesti licenziati e cent’anni di commentatori deliberatamente ottusi. Cent’anni
di università che non possono pronunciare la parola Palestina e cent’anni di
ong che non vogliono dire genocidio. Cent’anni di risoluzioni per un cessate il
fuoco bloccate dai veti.
Dall’estrema destra al centrosinistra,
siamo di fronte a potenti che abbandonano le loro differenze per unirsi nel
sostegno attivo ai crimini contro l’umanità commessi da Israele
Tutto questo rende difficile usare parole
di speranza. Quello che riesco a trovare dentro di me è la determinazione. La
volontà d’impegnarmi. Impegnarmi nei movimenti per una vera uguaglianza, per la
giustizia sociale, antirazzista, di genere, economica e ambientalista.
Movimenti che esistono in ogni paese. Movimenti che sono cresciuti con una
rapidità pazzesca in questi mesi. Non solo nelle dimensioni dei loro cortei, ma
anche nella profondità delle analisi. Cresciuti nella loro propensione a
stabilire connessioni e nella volontà di chiamare per nome le strutture
fondanti del sistema economico e sociale.
Gli ultimi mesi forse ci hanno insegnato
proprio che questi movimenti sono tutto quello che abbiamo. Nel Regno Unito,
come nel mio paese, il Canada, non c’è una leadership morale se non questa che
sta emergendo dal basso. Possiamo solo contare gli uni sugli altri.
Dovremmo soffermarci su questo aspetto,
perché è parte della sensazione di orrore e del senso di vertigine di questo
momento storico. La campagna di annientamento israeliana a Gaza non è il primo
genocidio della storia moderna. Non è la prima volta che delle forze
apertamente fasciste fondono un’ideologia violenta e suprematista con una
determinazione senza limiti a cancellare un popolo che considerano una minaccia
demografica.
La cosa eccezionale, almeno dall’epoca del
colonialismo, è la coesione che questa carneficina ha suscitato tra le élite
politiche del nord del mondo, e in una certa misura anche al di là di queste.
Quando il fascismo fece la sua ascesa in Europa negli anni trenta aveva dei
sostenitori all’interno delle nostre classi politiche, ma anche degli
oppositori.
Oggi non è così. In tutti gli
schieramenti, dall’estrema destra rabbiosa al centrosinistra ipocrita, siamo di
fronte a potenti che abbandonano le loro differenze per unirsi nell’appoggio a
questi crimini contro l’umanità. Invece di frammentare la nostra classe
dirigente, questa nuova versione del fascismo l’ha compattata: così Donald
Trump è d’accordo con Joe Biden, Rishi Sunak con Keir Starmer, Emmanuel Macron
con Marine Le Pen, Justin Trudeau con Giorgia Meloni, e Viktor Orbán con
Narendra Modi.
A questo punto dobbiamo chiederci: su cosa
sono d’accordo? Cosa li unisce? Cosa vogliono proteggere quando parlano del
“diritto d’Israele a difendersi”?
Che ne sarà di tutti gli altri Iron
dome? Di fronte alla migrazione di massa provocata da guerre senza fine, dal
riscaldamento globale e dalla povertà, cederanno anche loro?
È troppo semplice dire che sono uniti a
difesa di uno stato. Ovviamente è così, ma lo sono anche a difesa di un sistema
di valori condiviso. In una realtà caratterizzata dall’apartheid economico
globale e dal collasso climatico sempre più rapido, hanno la stessa visione
suprematista d’inviolabilità e sicurezza per pochi. È il rovescio della
medaglia del loro ostinato rifiuto ad affrontare i fattori alla base di queste
crisi: il capitalismo, la crescita senza limiti, il militarismo, la supremazia
bianca e il patriarcato.
Come dice la storica Sherene Seikaly,
siamo “nell’era della catastrofe” e “la Palestina è un paradigma”. E se la
Palestina è un paradigma, Israele è una sorta di pioniere. Da decenni ormai,
dopo aver abbandonato qualunque negoziato sul processo di pace, lo stato
ebraico ha perseguito la sua sicurezza e la sua fame di terra attraverso un
elaborato sistema di barriere, muri ipertecnologici e il suo cosiddetto scudo
Iron dome, la Cupola di ferro. Gli ideatori dell’Iron dome vanno molto fieri
della sua capacità d’intercettare razzi e missili e di respingere qualsiasi
minaccia. Questo sistema di sorveglianza di ultima generazione è un modo di
vivere per gli israeliani, ed era un modo di morire lentamente per i
palestinesi già molto prima del 7 ottobre.
Ma oltre a essere queste cose, la cupola
di ferro è anche un simbolo: una versione concentrata e claustrofobica dello
stesso modello di sicurezza a cui aderiscono i governi del nord globale, gli
stessi schierati a sostegno del genocidio commesso da Israele. È un modello nel
quale i confini degli stati ricchi, diventati ricchi grazie ai crimini
coloniali, sono protetti da una loro versione dell’Iron dome.
Perché, in realtà, la cupola di ferro è
globale. Si snoda lungo i nostri confini fortificati, con le loro recinzioni, i
loro muri letali e i loro centri di detenzione, estendendosi in un grande gulag
transnazionale fatto di campi per migranti esternalizzati, prigioni
galleggianti, barriere di boe chiodate nel Rio Grande, e guardacoste che osservano
indifferenti le navi affondare nel Mediterraneo. La cupola arriva fin dentro i
nostri paesi e le nostre città disuguali e proibitive. Si manifesta nelle forze
di polizia che sgomberano i parchi dagli accampamenti di persone senza casa e
reprimono i picchetti indigeni che si oppongono all’estrazione di combustibili
fossili. Quelle stesse forze sono pronte a reprimere le prossime e inevitabili
rivolte per la giustizia razziale. La cupola di ferro globale è anche nelle
reti di sorveglianza contro i giornalisti che osano dire la verità sulle nostre
guerre e i nostri sistemi di spionaggio, di cui Julian Assange è solo il
simbolo più noto.
Come nel caso d’Israele, questa cupola
globale si fonda sulla convinzione che i paesi debbano rispondere all’esigenza
umana di diritti e bisogni primari con la violenza di stato. Ed è determinata a
far sparire chi non rientra nella cerchia della protezione, rinchiudendo,
respingendo, lasciando affogare. Fronteggia con la forza la resistenza degli
oppressi.
L’Iron dome israeliano è estremo, perché
il suo etnonazionalismo e la sua ideologia suprematista sono espliciti.
Tuttavia dobbiamo avere ben chiaro che lo stato ebraico si è modellato sulle
leggi, le logiche e le pratiche coloniali razziste prese in prestito dalle
precedenti epoche del colonialismo (forgiato dalle nostre nazioni). A sua
volta, Israele è un modello: fin dall’inizio, l’Iron dome è stato costruito in
modo tale da essere esportabile. È cruciale comprendere questo aspetto, perché
il 7 ottobre quel modello è franato sotto gli occhi del mondo. L’attacco di
Hamas, feroce e raccapricciante, ha mandato in frantumi l’illusione di
sicurezza e inviolabilità per pochi. E questo non ha terrorizzato solo
l’esecutivo di Benjamin Netanyahu. Ha scosso i nostri governi nel profondo.
Se quella cupola di ferro ha ceduto, che
ne sarà di tutte le altre? Di fronte alla migrazione di massa provocata da
guerre senza fine, dal riscaldamento globale e da politiche economiche
d’impoverimento, cederanno anche loro?
Io credo che questa paura abbia spinto i
nostri governi a raggiungere la loro unità senza precedenti per affermare
l’essenza del loro sistema di valori: e cioè che la ragione è sempre dalla
parte del più forte. Chi ha gli armamenti più avanzati e i muri più alti
controllerà miliardi di persone impoverite e senza speranza.
Questo sistema di valori, più di ogni
altra cosa, aiuta a spiegare perché i governi del mondo ricco hanno abbracciato
la furia vendicativa dello stato ebraico con entusiasmo incrollabile, e perché
dopo mesi di massacri molti rifiutano di chiedere il minimo sindacale: un
cessate il fuoco permanente. Sanno che il messaggio della campagna israeliana è
rivolto anche a tutti quelli che hanno benedetto l’aggressione. Il significato
è semplice: le bolle dorate di sicurezza e lusso disseminate qua e là nel mondo
saranno protette a ogni costo. Se necessario, anche con un genocidio.
Nelle tante parti saccheggiate del nostro
pianeta questo osceno messaggio è stato afferrato bene. A ottobre, pochi giorni
dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza, il presidente della Colombia Gustavo
Petro ha dichiarato: “La barbarie del consumo basato sulla morte di altri ci
porta a un aumento senza precedenti del fascismo, e dunque alla morte della
democrazia e della libertà. Questa è barbarie, un 1933 globale”. Nell’attacco
d’Israele, e nel sostegno che questo ha ricevuto dai governi del nord e dalle
forze conservatrici del sud, Petro ha riconosciuto anche un’anticipazione di un
futuro condiviso. Vale la pena di leggere per intero le sue dichiarazioni, ma
qui salto direttamente alla conclusione: “Se non cambieremo il potere andremo
verso la barbarie. La vita dell’umanità e soprattutto dei popoli del sud
dipende dal modo in cui l’umanità sceglierà la strada per superare la crisi
climatica. Gaza è solo il primo esperimento per considerarci tutti e tutte
sacrificabili”.
Cos’altro dire? Forse solo questo: la
guerra alla povertà è l’unica che vale la pena di combattere. O trasformeremo
questa macchina della morte attraverso una ridistribuzione giusta della
ricchezza, riportandola dentro limiti sostenibili dal pianeta, oppure questo
incubo c’inghiottirà tutti.
Possiamo contare solo gli uni sugli altri.
Possiamo fare affidamento solo sui nostri movimenti e sul potere che costruiamo
insieme. Possiamo contare solo sulla nostra solidarietà, la nostra
determinazione, la nostra volontà. E sull’impegno comune nei confronti del
valore della vita. Con queste cose potremo costruire un mondo senza Iron dome.
E conquistare la speranza. ◆ fdl
Questo articolo è uscito sul numero 1558 di Internazionale, a pagina
39.
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