La Grande Guerra in arrivo: non "se" ma "quando" - Konrad Nobile
Il 2024 ha visto un deciso “salto di qualità” nei toni guerreschi usati dalle istituzioni europee e, in genere, occidentali.
Minacce e dichiarazioni fino a poco fa inimmaginabili sono diventate via
via realtà, in un crescendo allarmante che pare confermare i peggiori
presentimenti sul nostro futuro.
Se infatti il presidente francese Macron ha iniziato a paventare l’invio
diretto di truppe in Ucraina, da oltremanica Patrick Sanders, capo
dell’esercito britannico, dichiara apertamente che il mondo è alle porte di una
nuova grande guerra e che, conseguentemente, vi è la necessità di addestrare i
cittadini e prepararli alla battaglia (1).
Dai palazzi di Bruxelles i vertici dell’UE rincarano e, invitando gli Stati
europei a prepararsi alla guerra, chiedono di mettere il turbo all’industria
bellica e “produrre armi come i vaccini” (2)(3).
Pare proprio che la direzione voluta dai vertici occidentali sia quella di
preparare i loro Paesi ad andare incontro a un nuovo conflitto su vasta scala
contro chi si oppone, volente o nolente, ai piani e all’egemonia
dell’imperialismo (4).
Questo scenario prebellico ha iniziato a prendere concretamente forma nel
fatidico febbraio 2022 quando la Russia, entrando direttamente sul suolo
ucraino (sul quale la NATO ha messo le sue grinfie dal 2014, anno del golpe
“Euromaidan”), ha sferzato un colpo storico all’Occidente minandone l’immagine
di assoluto padrone del mondo, immagine già indebolita da tutta una serie di
errori e insuccessi (5). Ora gli sviluppi mediorientali avviatisi dopo il 7
ottobre, in parte favoriti proprio dal riverberarsi dello scossone dato dalla
Russia e dai derivati entusiasmi delle nazioni oppresse, galvanizzate
“dall’Operazione Militare Speciale”, non hanno fatto che ampliare la portata
dello scontro e la gravità dei tempi.
I nodi, pian piano, iniziano a venire al pettine in tutta la loro
drammaticità. Gli scontri geopolitici, le tensioni sociali, le questioni
nazionali, l’ascesa del mondo multipolare e, soprattutto, la gravissima crisi
che è alla base del sistema economico globale si fondono in una miscela
esplosiva che non può più essere ignorata o dribblata come è stato invece
fatto, più o meno, sino a ora.
Già il Covid e le misure correlate (6) hanno rappresentato una prima forma
di guerra inedita, rivolta contro le popolazioni civili globali, volta a
contenere una situazione di crisi economica al limite dalla deflagrazione
(7)(8) e a gettare le basi per il nuovo mondo dell’agenda 2030, dell’industria
5.0 e del grande monopolio capitalistico globale. Tutto ciò mediante l’adozione
di misure emergenziali estreme, né giustificabili né controllabili in uno
scenario “normale”, applicate con la scusante “sanitaria” e sotto lo scudo
della narrazione pandemica.
Ebbene ora, apparentemente terminata questa prima fase di guerra atipica e
precariamente posticipato il collasso economico-finanziario, ecco che alcune
tensioni interne al sistema sono esplose. L’ambizione degli “esclusi” (dalla
ristretta cerchia imperialista) e degli oppressi di godere di autonomia
politica e di disporre liberamente delle proprie risorse, per poter sviluppare
appieno le loro economie e società, senza subire limitazione o furti, è entrata
in una nuova fase di vigoroso scontro con il giogo imposto dai briganti
dell’occidente collettivo. Un centro di potere questo che, a maggior ragione
dato il periodo di crisi, non intende rinunciare alle sue prerogative e venire
a patti con le istanze del resto del mondo, bensì mira a colpire le nazioni in
ascesa e a stringere ulteriormente la sua morsa.
Le rivendicazioni delle realtà emergenti, fautrici del nuovo ordine
multipolare, si scontrano dunque con il senile occidente reso ancor più
isterico dal nefasto clima economico, quest’ultimo saturo di beni in eccesso
(9) e in preda all’endemica difficoltà di generare nuovo valore, e perciò
incapace di cedere a compromessi e fare concessioni.
In questo frangente storico lo scoppio di una nuova grande guerra non è,
quindi, tanto una questione di se quanto una questione
di quando e come. Quando e come scoppierà
la guerra nel quale si giocheranno questioni enormi, dall’affermazione (o il
definitivo soggiogamento) dei popoli oppressi alla definizione del futuro
sistema monetario internazionale (10), dalla sussistenza e “riforma” (11) del
capitalismo in crisi (sistema che per ora nessuno mette in discussione) a,
naturalmente, l’intero ordine geopolitico mondiale.
Magari questa guerra potrà prendere delle forme inedite (come lo è stato
nel caso della pandemia Covid-19), ma che essa debba esserci e che debba
scaricare la sua furia omicida e distruttiva, tanto sugli esseri umani quanto
sui beni materiali e non, è l’antiumano sistema in essere a richiederlo ed
esigerlo, per poter tornare a produrre, ricostruire, lucrare e guadagnare.
Tuttavia dato il clima, le dichiarazioni e i fatti recenti, non appare così
inverosimile (nonostante l’esistenza degli arsenali nucleari) il ricorso a una
“canonica” guerra combattuta a suon di artiglierie, cacciabombardieri, missili
e uomini da mandare al macello.
Tutti i fronti attualmente aperti possono potenzialmente dare il La all’avvio
della grande escalation militare, ed è proprio a questo
scenario che tutti gli attori si stanno preparando, come dimostra la lunga
serie di dichiarazioni rilasciate da vari elementi ai vertici di varie
istituzioni, statali e sovranazionali, nonché come ci conferma la stampa di
regime nostrana, ormai intenta sempre di più a propagandare il clima di guerra.
Se il grande conflitto possa veramente partire dagli attuali principali
fronti militari aperti, ovvero quello ucraino e quello mediorientale, lo
vedremo prossimamente. Sta di fatto che entrambi questi fronti dispongono di
una sufficiente carica esplosiva potenzialmente in grado di far detonare il mondo.
Per quanto riguarda l’Ucraina, tutto dipende dalle mosse che faranno NATO,
UE e Stati Uniti e quanto questi saranno disposti a giocarsi pur di non perdere
il braccio di ferro, disputato sulla pelle della popolazione ucraina e del
Donbass, contro la Russia. Se è chiaro che in questa partita la Russia non può
permettersi di perdere, pena il crollo del suo sistema Paese, il rischio di
rottura dell’unità nazionale e la sua definitiva spogliazione economica, anche
l’occidente dichiara di non voler perdere e di non potersi permettere il
successo russo.
Come dice Macron, borioso campione di bellicismo, “La Russia non può e non
deve vincere” (12).
Tutto ciò non fa ben sperare e rende il settore est-europeo una potenziale
miccia per la terza guerra mondiale, scenario che pure il presidente bielorusso
Lukashenko ammette essere ormai probabile (13).
Nel Medio Oriente, invece, i più importanti sviluppi dipenderanno dalla
reazione israeliana all’attacco iraniano condotto nella notte tra il 13 e il 14
aprile.
Osservando il comportamento recente di Israele pare che la volontà dello
Stato ebraico sia proprio quella di ricercare un’estensione del conflitto, il
che apre alla possibilità di scenari infuocati e imprevedibili. Già nel
novembre 2023 David Wurmser (ricercatore americano sul Medio Oriente, ex
consulente per il Medio Oriente dell’ex vicepresidente Dick Cheney ed ex
assistente speciale di John Bolton presso il Dipartimento di Stato USA) e Yair
Ansbacher (esperto israeliano di sicurezza e antiterrorismo, fondatore di una
scuola di formazione premilitare e membro del think thank “Misgav Institute for
National Security & Zionist Strategy”) proponevano la tesi che Israele
mancasse di iniziativa strategica e che, per ottenere una vera superiorità
regionale non solo tattica ma pure strategica, lo Stato sionista dovesse
necessariamente compiere un attacco diretto contro l’Iran (14).
L’attacco sionista al consolato iraniano di Damasco sembra inserirsi
proprio in questo tipo di visione, che evidentemente è stata fatta propria
dall’establishment israeliano.
Se Israele vorrà seguire fino in fondo in questa azzardata strategia allora
la sua risposta all’attacco telefonato iraniano (sferrato dai persiani come
ritorsione per il bombardamento alla loro struttura diplomatica di Damasco),
promessa da Netanyahu e Co., potrebbe veramente degenerare in una guerra su
vasta scala.
Ufficialmente gli USA e le cancellerie occidentali stanno invitando Israele
o a non rispondere o, perlomeno, a farlo in maniera prudente, affinché si possa
evitare l’escalation. Tuttavia dietro alla cortina ufficiale va detto
che un attacco all’Iran (e un blocco alla sua temuta capacità, che pare vicina,
di sviluppare armi nucleari), oltre a grandissimi rischi, presenta pure, se
realizzato con successo, grandissime opportunità per l’imperialismo americano.
Oltre all’eliminare uno scomodo avversario che si avvia a dotarsi
dell’atomica, fare guerra al Paese che nel 1979 cacciò, con una rivoluzione, il
loro fantoccio dal trono potrebbe essere infatti per gli Stati Uniti una
potenziale occasione per rilanciare la loro immagine di gendarmi e padroni del
mondo, mai stata così in crisi come oggi.
Un’ipotetica guerra americano-sionista all’Iran, se coronata da successo,
dimostrerebbe al mondo intero la forza della macchina imperialista
statunitense, che ritroverebbe così vigore e credibilità e potrebbe tornare a
giocare il suo vecchio e dirompente ruolo intimidatorio sul globo terraqueo.
Al tempo stesso lo scenario bellico potrebbe essere sfruttato dagli USA,
mediante un armistizio interno tra l’ala Dem e l’ala repubblicana e con un
appello urgente all’unità nazionale di fronte al nemico persiano, per ricucire
una spaccatura interna che pare diventare sempre più insanabile e, forse,
ingestibile.
Ovviamente, pur offrendo in palio questi ghiotti vantaggi,
un’operazione-scommessa di questo tipo sarebbe per gli yankee comunque
rischiosissima. Ad essi non mancano infatti criticità e fattori di debolezza
che possono frenare il governo americano, almeno nell’immediato, nel prendere la
decisione più radicale.
Se Washington sceglierà (o ha già scelto) di giocare d’azzardo allora
vedremo Israele contrattaccare duramente e dare avvio, così, a un
pericolosissimo vortice bellico. Altrimenti la resa dei conti, almeno con la
Repubblica Islamica, verrà rinviata a data da destinarsi…
È bene comunque ricordare che, tra le altre cose, una guerra all’Iran
comporterebbe la chiusura dello stretto di Hormuz e, quindi, un aumento
vertiginoso del prezzo del greggio e diffuse carenze di vario tipo. Ciò, in
questo folle periodo, più che essere un effetto collaterale indesiderato
potrebbe arrivare a essere una subdola opportunità per i governi occidentali.
Con una nuova emergenza energetico-bellica si potrebbe infatti procedere con
l’opera di “distruzione creativa” già avviata in epoca pandemica e si avrebbe
un valido motivo per imporre nuovi congelamenti dell’economia, utili a
raffreddare un sistema in perenne surriscaldamento e a coprire ulteriori
manovre monetarie e finanziarie. Nuove forme di lockdown, opportunamente
adattate, potrebbero farsi strada (ricordo qui il precedente dei divieti di
circolazione domenicali della vecchia crisi petrolifera del 1973), accompagnate
da un nuovo giro di vite sulle libertà civili e politiche dei cittadini.
Queste mie spinte considerazioni sono mere ipotesi dal sapore dietrologico,
tuttavia in questo clima impazzito e, soprattutto, visti i precedenti, credo
non sia sbagliato considerare il peso di certe spinte e la portata ad ampio
spettro degli eventi…
Comunque vada a finire è chiaro che ci troviamo in un periodo incandescente
e nel quale la minaccia di una grande guerra non è mai stata, almeno prendendo
in considerazione gli ultimi decenni, così concreta.
Nonostante questo l’inconsapevolezza e l’apatia regnano ancora sovrane in
una buona parte della popolazione, che vive serena la sua quotidianità e stenta
a comprendere la reale gravità dei fatti e l’enorme portata degli eventi di cui
siamo spettatori.
È quindi assolutamente necessario informare e diffondere la consapevolezza
nella popolazione, questo non per seminare il panico bensì per prepararsi
collettivamente ad affrontare, in maniera opportuna e matura, gli scenari a cui
stiamo andando incontro.
Alla guerra rivoltaci contro nel periodo pandemico molti uomini e donne
hanno reagito spontaneamente, riversandosi giustamente nelle strade e nelle
piazze, ma con molti limiti e tanta confusione.
Ora è bene dare avvio a una nuova seria e informata campagna di
mobilitazione che non solo richieda la pace ma anche che, più radicalmente, sia
combattivamente nemica di chi ci vuole in guerra. Una mobilitazione più
organizzata, lucida, unita e risoluta.
Forti dell’esperienza vissuta dobbiamo attivarci in prima persona e,
evitando di commettere gli errori passati, fare tutto il possibile per fermare
il mostro della guerra.
La pacchia è finita e, prima che sia troppo tardi (sempre che non sia già
tardi …, ma in tal caso meglio tardi che mai), se non vogliamo vedere morire
altri fratelli o essere protagonisti di nuovi macelli, dobbiamo rompere
quest’ordine criminale che si nutre di sopraffazione, morte e distruzione.
Diffondiamo coscienza e uniamoci dunque in lotta contro i nostri regimi e
le loro mortifere istituzioni come la NATO. Il clima ci impone sì di richiedere
la pace, ma anche di essere disposti, per essa, di ergerci e combattere.
Combattere per ottenere la fine della nostra belligeranza in Ucraina,
combattere per richiedere il rientro dei militari italiani dispiegati
all’estero, combattere per sabotare il riarmo nazionale ed europeo, combattere
per esprimere concreta solidarietà a Gaza così come a tutti gli oppressi
dall’imperialismo dell’occidente. Combattere, insomma, contro il sistema che ci
opprime e che ci sta mandando alla guerra!
Facciamolo già da ora perché, come scritto, una forma di grande guerra non
è una questione di se ma di quando e come. Il nostro, come riportava un
articolo de “La Repubblica” del 24 gennaio, è ormai un mondo preguerra e, se
non si tratterà di una nostra guerra di liberazione contro i nostri aguzzini e
i loro piani, si tratterà allora di una guerra micidiale e fratricida fatta
sulla nostra pelle, contro di noi e a nostre spese. E noi, avvenga questo
domani, tra un mese piuttosto che tra qualche anno, non possiamo permetterlo.
Konrad Nobile è un giovane studente
lavoratore, al tempo attivo nel movimento Contro Il Green Pass e membro della
rete Studenti Contro Il Green Pass. Ora continua la sua militanza in alcune
delle realtà giovanili reduci del movimento.
NOTE
(1) https://www.repubblica.it/esteri/2024/01/24/news/gran_bretagna_esercito_allarme_guerra-421970570/
(4) Per comprendere il significato
profondo di imperialismo è bene ricordare la definizione
(fatta nel lontano 1917 ma quanto mai attuale) che di esso, come sistema
globale, ne diede in cinque punti Vladimir Lenin:
– “1) la concentrazione della produzione
e del capitale che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i
monopoli con funzione decisiva nella vita economica;”
– “2) la fusione del capitale bancario
con il capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo capitale
finanziario, di una oligarchia finanziaria;”
– “3) la grande importanza acquistata
dall’esportazione di capitali in confronto all’esportazione di merci;”
– “4) il sorgere di associazioni
monopolistiche internazionali di capitalisti che si spartiscono il mondo;”
– “5) la compiuta ripartizione della
terra tra le più grandi potenze capitalistiche.”
(5) Insuccessi come il mancato
rovesciamento di Assad in Siria o la disastrosa ritirata dall’Afghanistan, solo
per citare due esempi emblematici
(6) misure come lockdown, iniezioni
mastodontiche di liquidità monetaria nei mercati finanziari, distruzione di
piccole imprese e “imprese zombie”, decimazione di anziani e fragili,
militarizzazione della società, riduzione degli spazi di “libertà”, divisione
popolare, ricatto sociale ecc. (la lista non è certamente esaustiva)
(7) https://www.lafionda.org/2021/06/22/paradigma-covid-collasso-sistemico-e-fantasma-pandemico/
(8) Sulla questione rimando alla lettura
di tutti i recenti articoli scritti dal Prof. Fabio Vighi, che trovo alquanto
lucidi ed interessanti: https://www.lafionda.org/author/vighi/
(9) Il problema della sovrapproduzione
globale è stato recentemente posto pubblicamente, durante un’importante
missione diplomatica in Cina, dal segretario al Tesoro USA, nonché ex presidente
della FED, Janet Yellen.
(10) Una delle grandi partite aperte è
se la divisa internazionale continuerà ad essere il dollaro oppure una sua
controparte (verosimilmente il renminbi cinese).
(11) “Riforma” proiettata verso la
definitiva realizzazione dell’inclusive capitalism, dell’industria
5.0, del grande monopolio globale e, dunque, dell’attacco alla piccola
proprietà e, ancor più nel profondo, all’umano e alla vita tutta.
(13) Tra i tanti si è esposto anche il
presidente bielorusso Lukashenko, che da tempo tiene in allerta il suo Paese, e
che ha dichiarato possibile l’eventualità di una terza guerra mondiale.
(14) https://www.jns.org/israel-needs-a-doolittle-raid/
La guerra, gli uccisi e l’uccidere - Alberto Olivetti
Da che le guerre dilagano, e sono più di
due anni, né sembra deflettere nei belligeranti e nei loro sostenitori di ogni
parte la determinazione a proseguirle, tento di dare un corso ordinato ai miei
ragionamenti quando rifletto sulla drammatica situazione in atto convinto che
su ogni fronte debbano deporsi le armi.
Un corso ordinato che metta capo non
solo a circostanziate valutazioni sulle ragioni e i torti di questo o di quel
contendente, ma capace di formulare indicazioni sul piano operativo, cioè a
dire efficaci, ovvero tali da poter incidere sul piano dei fatti e obbligare i
belligeranti ha cessare il fuoco.
E il discorso cade allora su quale possa
essere il soggetto in grado di imporre una tale decisione e, se non lo si
identifica, come, e questo è il punto, costruirlo quel soggetto, come suscitare
dal basso e con chi coordinare il movimento più ampio che sia possibile schierare
contro la guerra. Come rendere operanti questi convincimenti? Questo è il
grande, l’enorme problema attuale, stanti le modalità che alimentano e
determinano le forme della politica organizzata oggi.
Mi è capitato negli ultimi due mesi di
intervenire pubblicamente sulla questione della guerra. Ho scelto di fissare la
mia meditazione sui morti, e considerare che quando si parla dei morti in
guerra (quelli che l’ipocrita eufemismo definisce «caduti») si parla di uccisi:
non «caduti», ma uomini morti ammazzati.
Sconsolatamente, un filosofo ha scritto
che la prima parola che dovrebbe aprire l’animo dell’uomo occidentale è un
comandamento dei dieci mosaici che recita «non uccidere». Noi, i bianchi
occidentali, ne sappiamo assai in tema di uccidere e di guerra! Ci dissero che
elaborammo un tempo, noi europei, un codice di comportamento militare in cui il
gioco della guerra fu formalizzato in termini che vollero esser definiti
cavallereschi, quasi i tornei dei «cavallieri antiqui».
Non coinvolgevano, pertanto, le
popolazioni civili, a differenza di quanto avviene in questi giorni ogni giorno
e da cent’anni in qua. E da cinquecent’anni noi, cristiani bianchi occidentali,
sontuosi tornei abbiamo organizzato a beneficio delle popolazioni (civili) di
interi continenti, nelle Americhe, in Africa, nel Pacifico.
La «soluzione finale» è una specialità
al perfezionamento della quale gli europei si sono dedicati con notevole
successo nel corso di cinque secoli. Non è uno sconvolgente episodio esclusivo
del Novecento, quando di quella modalità dell’uccidere è stato toccato un
vertice orrendo. Nella lunga durata, è stato giustamente detto, matura uno dei
tempi della storia, forse il più certo nei suoi svolgimenti quali giungono a un
loro compimento implacabili: nulla si perde, un caso si presenta alcune volte
tal quale; le conseguenze di un altro, sotto mutate spoglie, riaffiorano con
rinnovata energia.
Muovo così argomenti che forse toccano
da vicino (e forse no: forse si allontanano?) il mio proposito di concentrare
la riflessione sugli uccisi e sull’uccidere che si esalta oggi dal Baltico al
Mar Rosso. Chi uccide compie una violenza irreversibile che insieme spegne una
vita e fa nascere in chi uccide un legame indissolubile con l’ucciso: rimorsi,
fantasmi, terrori, vendette, cieche crudeltà. Essi si aggirano in Ucraina e
nell’oriente mediterraneo oggi, tra le migliaia degli uccisi e tra i loro
uccisori.
Grandi argomenti che conoscevano bene
gli antichi, intesi a illuminare l’oscura umanità degli uomini e che ci hanno
rappresentato nella loro mitologia e nella loro poesia. Il nostro tempo sembra
poco interessato a quel lascito, si sente capace di poterne fare a meno. Ne
fecero particolarmente tesoro, tra Cinque e Seicento, i drammaturghi dell’epoca
elisabettiana, in Inghilterra, consegnandoci un patrimonio che si vorrebbe
fosse ai nostri giorni coltivato.
Stare col pensiero agli uccisi e
all’uccidere consente una angolatura preziosa per quanto concerne un ragionare
sulla guerra. Come poi una crescita di consapevolezza e di umanità che ne
possiamo acquisire si declinino in termini politici, in termini di presa di
posizione politica questa è la estrema difficoltà da affrontare.
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