Ma padre qui c’era un
popolo piantato nella terra
E la terra non può
darla Dio, ma la fame e l’amore di averla [1]
Uccidere un poeta è un crimine tremendo. Chi uccide un poeta non uccide
solo un uomo, ma anche la Musa che quell’uomo si portava dentro e che poteva
parlare solo per bocca sua. Si tratta in qualche modo di un duplice omicidio.
Come in ogni guerra, anche a Gaza vengono uccisi artisti e poeti in quanto
tali. Soprattutto a Gaza. Refaat Alareer era uno di questi. Aveva
quarantaquattro anni, insegnava alla Islamic University of Gaza ed era un
letterato, un poeta[2]. Il 6 dicembre 2023
Alareer rimane ucciso in un bombardamento dell’esercito israeliano, in casa
sua. Sembrerebbe che l’obiettivo dell’attacco fosse proprio il pericoloso
intellettuale, il cui edificio sarebbe stato colpito “chirurgicamente”[3]. Come poi spesso
accade in questi casi, grazie alla precisione delle nostre “bombe
intelligenti”, per colpire lui è stato demolito tutto il palazzo. Un condominio
intero ridotto in macerie perché bisognava uccidere un poeta. L’obiettivo è
annientare l’arte e la cultura costi quel che costi, il genocidio del popolo
palestinese richiede questo e molto altro.
Tra migliaia di foto e reportage strazianti provenienti da Gaza il video
della demolizione della Islamic University è passato relativamente in sordina[4]. Io invece credo che
non lo dimenticherò mai. Quella che poteva essere una delle poche, importanti
alternative alla radicalizzazione disperata per i giovani gazawi, un preziosissimo
presidio di dialogo ed umanità polverizzato in pochi secondi. Quella stessa
università in cui Alareer studiava Shakespeare con i suoi studenti palestinesi,
mostrando come fosse più naturale per loro empatizzare, ancor più che con il
moro Otello, con l’ebreo usuraio Shylock, proprio in quanto emarginato ed
odiato da una società ghettizzante[5]. Probabilmente Refaat
avrebbe pubblicato questi studi e molto altro se il governo israeliano non
avesse deciso che l’Università, la letteratura e la poesia costituiscono una
minaccia per uno degli eserciti meglio armati al mondo. Una minaccia da
combattere con tonnellate e tonnellate di esplosivo. Qualche settimana prima di
essere ucciso, mentre Gaza precipitava verso l’inferno Refaat ripubblicava sul
suo profilo Twitter una poesia che dopo la sua morte è stata letta in tutto il
mondo. Gli ultimi versi mi hanno spinto a scrivere queste righe: If I
must die, let it be a tale[6].
Ebbene, dubito che io, comodamente seduto in camera mia a Roma, possa
avere qualche storia interessante da raccontarvi a proposito di una faccenda
così importante e drammatica. Tuttavia non potrei accettare che l’ultimo
desiderio di un uomo, morto da poeta e quindi da partigiano, restasse
incompiuto. Vorrei dunque riportare poche frasi tratte da una delle storie più
belle e struggenti che abbia mai letto, Ogni mattina a Jenin, di
Susan Abulhawa. Il brano racconta la raccolta delle olive nel piccolo villaggio
palestinese di ‘Aid Hod, pochi anni prima della Nakba.
“In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e
annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un
angolo e le scrollasse via nome e identità, un paesino a est di Haifa viveva
tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole. […] Quel giorno si
pregava all’aperto e con particolare riverenza perché iniziava la raccolta
delle olive. Per un’occasione tanto importante, era meglio salire sulle colline
rocciose con la coscienza purificata. […] I colpi dei bastoni dei contadini
contro i rami, il fruscio delle foglie, il tonfo dei frutti che cadevano sulle
tele incerate e sulle coperte stese sotto gli alberi. Mentre gli uomini
faticavano, le donne cantavano ballate dei tempi andati, i bambini giocavano e
venivano ripresi dalle madri quando intralciavano il lavoro.”[7]
L’ulivo, che pianta meravigliosa. Alcuni ulivi, se curati con sapienza,
possono vivere millenni. E quando una pianta è vecchia il suo corpo si separa
da sé stesso, si divide e nascono quindi due alberi, poi quattro e poi otto, ma
che sono in realtà uno. Poco fuori Gerusalemme, nell’orto del Getsemani dove
secondo i Vangeli sarebbe iniziata la passione di Cristo, otto ulivi risalenti
al XII secolo fruttano tutt’oggi. Queste otto piante presentano un profilo
genetico del tutto simile, tanto da far pensare che in origine fossero un unico
albero. Lui sì che ne avrebbe di storie da raccontare. Affinché un ulivo possa
vivere così tanto servono però uomini e donne che per secoli e secoli lo
sappiano amare ininterrottamente, e che insegnino ai loro figli come amarlo. È
ciò che accade da millenni sulle coste del Mediterraneo. Questo amore forgia da
tempo immemore la cultura palestinese, di cui l’ulivo è il simbolo. Torniamo
per un momento alle parole di Vecchioni in esergo: “Ma padre qui c’era un
popolo piantato nella terra”. Sì, perché se molti palestinesi oggi
vivono dei frutti di un ulivo è perché questo è stato piantato e curato dai
loro avi, perché il loro sudore ha innaffiato d’amore il suolo nel quale si
sono fortificate le radici. Questo i palestinesi lo sanno bene. Nel villaggio
di ‘Ain Hod ringraziare Dio significava venerare l’eterna ciclicità del
raccolto, la natura tutta si univa festante al coro della preghiera. Per noi,
ormai abituati a frequentare gli anonimi ed impersonali nonluoghi del transito
veloce e del consumo, è sempre più difficile comprendere questo radicamento nella
terra. Tra centri commerciali, aeroporti e McDonald’s, spazi a-storici ed
interscambiabili perché uguali ovunque, pensati per un utilizzo strumentale e
passeggero, fatichiamo a comprendere il rapporto ecologico e spirituale tra la
terra, i suoi frutti e chi vive della cura di questi. Io credo che questo
scarto antropologico, questa differenza nel modo di rapportarsi alla terra sia
fondamentale per la comprensione del conflitto in Palestina. Refaat Alareer
aveva ben presente una tale distanza. O’Live Tree è il
racconto di un ulivo che sa perfettamente che chi ora calpesta le sue radici
con stivali pesanti, chi batte le sue fronde con bastoni di metallo non può che
essere uno straniero, un usurpatore: But you belong not here/ You do
not even know/ How to touch me/ How to gently sqeeze me/ How to hug me/ How to
wipe off the dust[8].
E l’umiliazione che l’ulivo pazientemente sopporta è la sofferenza di tutto il
popolo palestinese. Ecco l’identificazione, il radicamento: The humiliation,
I do not care/ But take me not/ Steal me not/ Even if I burn/ Here I belong[9].
E cosa fa il colonialismo israeliano davanti ad simile legame? Come ci
comportiamo con quegli ulivi secolari noi, che abbiamo visto nell’agricoltura
intensiva e nello sfruttamento più estremo del mondo l’unica ragione del nostro
sviluppo? Li sradichiamo. Sì, perché la pulizia etnica della Palestina prevede
di estirpare quelle radici così profonde. Nei territori occupati, tra le mille
preoccupazioni della popolazione palestinese c’è anche quella di difendere gli
ulivi dalle irruzioni dei coloni e dai bulldozer dell’esercito israeliano. Non
dobbiamo limitarci a vedere in queste brutalità semplicemente la distruzione
delle risorse palestinesi e la lotta per il controllo del territorio. Estirpare
gli ulivi significa cancellare la storia e la memoria di cui sono testimoni.
Ricordate la nostra indignazione quando Daesh distrusse i templi di Bel e
Baalshamin a Palmira, in Siria? Gli ulivi palestinesi sono monumenti viventi
che ci raccontano di generazioni e generazioni di uomini vissuti sul suolo più
venerato di tutti i tempi, che ancora nutrono i suoi abitanti. Distruggerli è
un crimine contro la storia, contro l’universale senso del Sacro, il danno
prodotto non ha prezzo. Simone Weil vedeva proprio nello sradicamento la
malattia corrosiva dell’Occidente. Si tratta di un processo iniziato
sostanzialmente con la modernità, e consiste secondo la filosofa francese nella
perdita di un rapporto pieno con la propria storia ed il proprio passato, nella
perdita della propria radice. “L’Europa è stata sradicata
spiritualmente, separata da quell’antichità nella quale tutti gli elementi
della nostra civilizzazione hanno la loro origine; e a partire dal XVI secolo è
a sua volta andata a sradicare gli altri continenti”[10]. Dice poi Weil,
sempre a proposito dello sradicamento coloniale: “Quando un conquistatore
rimane straniero nel territorio conquistato, lo sradicamento è una malattia
quasi mortale per la popolazione conquistata”[11]. Nonostante il
riferimento biblico al regno d’Israele, i coloni sionisti rimangono coloni, ed
il colono è sempre l’opposto del locale. Con ciò non voglio sminuire il legame
spirituale che un ebreo, così come un cristiano, un musulmano o chiunque altro,
può avere con la Terra Santa. Quello che voglio semplicemente dire è che il
sionismo era e resta un progetto coloniale, e questo è peraltro un fatto
abbastanza pacifico per i coloni stessi. Gli sforzi degli archeologi israeliani
di dimostrare l’autoctonia israeliana in Palestina, riferendosi ad un passato
reale o mitico, non possono modificare una semplice realtà di fatto: quando
consolidano i loro possedimenti nei territori palestinesi, i coloni si
comportano da coloni, ossia da stranieri, da stranieri che distruggono. Il
colonialismo è l’opposto del radicamento, dell’appartenenza profonda ad un
luogo. E devono in qualche modo essersene accorti anche, soprattutto le
migliaia e miglia di ulivi sradicati dal 1967. La terra non può darla
Dio, ma la fame e l’amore di averla.
In Palestina la raccolta delle olive è diventata una forma di resistenza. È
usanza qui da noi sminuire ogni condanna del genocidio palestinese precisando,
con una certa pedanteria, che bisogna prima prendere le distanze dagli aspetti
ingiustificabili della resistenza armata palestinese come il terrorismo. Io non
entrerò nella questione, mi limito a dire che finché parte delle mie tasse
verrà usata per bombardare, affamare, deportare e sterminare un popolo inerme
sarebbe un’offesa alla mia dignità impartire lezioni di dirittumanismo a chi
ogni giorno è ucciso dalla nostra accondiscendenza. Eppure, per la gioia (o
l’imbarazzo) dei moralisti nostrani, in Palestina la resistenza nonviolenta
esiste. Un giorno, spero, gli abitanti dei villaggi palestinesi che ogni anno
rischiano la vita per la raccolta, sfidando la violenza dei coloni e dell’IDF,
saranno ricordati insieme a Gandhi e Martin Luther King[12]. Donne e uomini
coraggiosi che lanciano un messaggio potentissimo: Tutto quello che vi
chiediamo è di poter amare queste piante e questa terra, come abbiamo sempre
fatto. Un giorno, spero, la Storia saprà leggere questo messaggio sepolto
dalla nostra indifferenza. Un giorno ci si ricorderà di quanto è ridicolo,
nella sua cieca brutalità, chi si oppone con la forza ad una richiesta simile.
Negli ultimi mesi, lo sterminio fisico della popolazione di Gaza ha
monopolizzato l’attenzione di chiunque nel mondo abbia un briciolo di
coscienza. Tra questi, quelli che in Occidente contano qualcosa sono
pochissimi. Abbiamo scoperto che il potere è un anestetico ben più forte del
previsto, ed è capace di disumanizzare chi lo esercita ad un punto che io, che
pure credevo di essere un cinico, non ritenevo possibile. Eppure la gente
comune, quella che non comanda, è rimasta sconcertata dalle foto dei bombardamenti
e dei bambini che muoiono di fame a Gaza, mentre a poche centinaia di metri
l’esercito israeliano blocca l’arrivo di aiuti umanitari. Non c’è più alcun
dubbio sul fatto che in Palestina stia avvenendo un genocidio, e le stramberie
sul “diritto a difendersi” di Israele sono solo appannaggio di un’egemonia
incancrenita e putrescente nei media e nella politica occidentale, a cui non
crede più nessuno. Eppure ho voluto raccontarvi la storia di Refaat Alareer e
del suo ulivo perché credo che al di là dell’evidenza del torto abbiamo ancora
molto da riflettere sulle cause profonde di questa mattanza umana e culturale.
Quando questo orribile capitolo della nostra storia si sarà chiuso, se vorremo
ristabilire rapporti equilibrati con il mondo e con noi stessi dovremo
riflettere su cosa ci ha portato a sradicare quegli alberi, e su che fine
abbiano fatto le nostre radici. Abbiamo ancora molto da
imparare dagli ulivi, che da tempi antichissimi ci raccontano di incontri nel
nostro Mediterraneo, testimoni di cura e di pace. Ho voluto parlarvi di Refaat
e del suo ulivo perché non voglio rassegnarmi all’idea che una volgare
pallottola possa uccidere la poesia. Mahmoud Darwish accolse serenamente la sua
ora. Ormai vecchio, consegnò alla Fine la sua “parte d’argilla”[13]. E dopo una vita
passata a sbeffeggiare il potere, il grande poeta palestinese si prese gioco
anche della visitatrice più temibile: O morte, ti hanno sconfitta tutte
le arti/ E allora fa’ di noi, fa’ di te ciò che vuoi. Non può essere tanto
facile uccidere una Musa. Come tutto ciò che è divino, anche la Dea dell’arte e
della poesia può rivivere nei cuori che sanno cercarla. Per questo da sempre i
tiranni hanno tanta paura dei poeti.
Voglio crederlo, lo credo.
[1] R.
Vecchioni, Shalom
[2] Refaat Alareer
insegava letteratura e scrittura creativa alla IUG. Si occupava principalmente
di letteratura inglese, in particolare Shakespeare e Donne. Il suo blog, dove
pubblicava poesie e brevi riflessioni (https://thisisgaza.wordpress.com/), il suo profilo
Twitter (https://twitter.com/itranslate123) ed il suo attivismo
lo hanno reso molto popolare a Gaza. È inoltre co-fondatore del progetto We
are not numbers (https://wearenotnumbers.org/), che racconta la
vita sotto l’occupazione israeliana attraverso le voci di giovani scrittori e
scrittrici palestinesi
[3] Euro-Med Human
Rights Monitor, Israeli strike on Refaat al-Aleer Apparently Deliberate https://euromedmonitor.org/en/article/6014
[4] Al Jazeera
English, Gaza University destroyed: Israel accused of targeting
education centers
[5] R.
Alareer, Poems of Mass Destruction at Gaza University, in R. Alareer
et. Al. (a cura di), Gaza Unsilenced, Charlottesville 2015
[6] R.
Alareer, If I must die. “Se devo morire, che sia una storia”
[7] S.
Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 15-16
[8] R.
Alareer, O’Live Tree. “Ma tu non sei di qui/ Tu non sai
nemmeno/ Come toccarmi/ Come spremermi dolcemente/ Come abbracciarmi/ Come
pulirmi dalla polvere”
https://thisisgaza.wordpress.com/category/my-poetry/
[9] “Dell’umiliazione,
non mi importa/ Ma non portarmi via/ Non rubarmi/ Anche dovessi bruciare/ Il
mio posto è qui”.
[10] S. Weil, Lettre
à un religieux, Gallimard, Paris 1951, p. 32
[11] S. Weil, La
prima radice, SE, Milano 2013, p. 49
[12] Sulla resistenza
nonviolenta degli agricoltori palestinesi, si veda per esempio Rete Italiana
ISM, Raccolta delle olive con International Solidarity Movement
https://www.assopacepalestina.org/2012/09/11/raccolte-delle-olive-con-international-solidarity-movement/
[13] M.
Darwish, Murale
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