martedì 22 novembre 2016

Donald Trump e la nuova gerarchia delle minacce - Fulvio Scaglione


Secondo il presidente della Commissione Europea Juncker, Trump è un ignorante: sfottò di cui agli elettori nulla importa. Più interessante, invece, il timore che il miliardario possa sconvolgere gli equilibri internazionali. Anche perché al primo posto dei pericoli ci sarà il terrorismo islamico. Quindi, perché non tentare un accordo con la Russia di Putin, impegnata
Il violento attacco che Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, ha rivolto al neo-eletto presidente degli Usa, non farà un grammo di danno a Donald Trump(che non a caso ha vinto con lo slogan “America first”, prima di tutto l’America) ma potrebbe rendere ancor più difficili i raaporti tra le due rive dell’Atlantico e più precari gli equilibrii interni alla Ue. Juncker, infatti, ha detto due cose. La prima è che Trump è un ignorante, non conosce l’Europa né il mondo. Uno sfottò, un’offesa di cui agli elettori di Trump nulla importa. E poi, ha aggiunto Juncker, l’elezione di Trump può sconvolgere gli equilibrii internazionali.
Qui le cose si fanno più interessanti. Con il Medio Oriente a pezzi, l’Unione Europea sull’orlo della disgregazione, i flussi migratori senza controllo sia all’origine (dove l’Occidente, che molto spende in guerre, è del tutto assente) sia alla fine (manca una politica collettiva di gestione dei flussi), una crisi economica ancora irrisolta e il rapporto con giganti come la Cina e la Russia tra critico e drammatico, ci piacerebbe sapere di quale “equilibrio” il buon Juncker vada parlando.
Lui, e altri come lui, hanno sperato che vincesse Hillary Clinton per proseguire in una politica che era assai più tranquillizzante per loro che per i popoli della terra. Trump promette di fare l’esatto contrario, facendo perno sull’interesse del cittadino medio americano. Populismo? Utopia?È probabile. Ma considerare Trump un salto nel vuoto e la Clinton una garanzia di saggezza è quasi una truffa.
Certo, l’Europa ha giuste ragioni di preoccupazione. Donald Trump non ama i trattati economici internazionali, che considera (a torto o a ragione) penalizzanti per l’economia americana. È assai difficile, ora, che il già travagliato Ttip (il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti), così caro a Barack Obama e Angela Merkel ma poco gradito a Francia e Italia, veda la luce. Se poi Trump decidesse di adottare anche misure a protezione dell’industria americana, la Ue, che nel 2014 ha vantato un attivo di 105 miliardi di euro negli scambi commerciali con gli Usa, avrebbe di che lagnarsi.
Analogo discorso per quanto riguarda la sicurezza. In campagna elettorale Trump si chiedeva perché gli Usa debbano sostenere il 75% delle spese per tenere in attività la Nato e perché in prima linea in Ucraina ci fossero loro e non, per esempio, la Germania. Certo, all’Europa l’ombrello Usa ha sempre fatto comodo e le ha finora consentito di non affrontare sul serio il compito di darsi una politica di difesa. Da domani, se Trump agirà di conseguenza, bisognerà farlo, affrontando anche le spese e gli impegni relativi. Cosa quasi impossibile nella Ue litigiosa e divisa degli ultimi anni.
Anche perché nel frattempo Trump propone una diversa gerarchia delle minacce. Il primo pericolo, secondo lui, è il terrorismo islamico. Quindi, perché non tentare un accordo, o almeno una distensione, con la Russia, impegnata in Siria sullo stesso fronte? Se poi gli europei hanno davvero paura di essere invasi da Mosca, come la propaganda atlantista ha raccontato in questi anni, provvedano da sé a difendersi. Anche con la Nato, ma senza far ricadere l’onere di spesa e di impegno militare sui soli Stati Uniti. Comprensibile che il povero Juncker sia un po’ agitato.
L’altro protagonista che osserva le mosse di Trump con attenzione e un po’ di ansia è la Cina. Ansia relativa, perché si tratta pur sempre di un colosso che, tra l’altro, detiene da solo il 10% del debito americano (che per il 47% è controllato da altri Paesi, ennesima ragione per cui parlare di isolazionismo è fuorviante) ed è ormai capace di competere al massimo livello.
Ma proprio perché di competizione di tratterà, la Cina flette i muscoli e accoglie Trump con una bella svalutazione della moneta, lo yuan, in modo da rendersi ancor più concorrenziale sui mercati mondiali. Trump ha criticato lo stato dei rapporti tra Usa e Cina e si è proposto di raddrizzare quello che considera un pericoloso squilibrio, ovvero il disavanzo di 257 miliardi di dollari (dati 2016) che gli Usa scontano nei commerci con la Cina. Il tema è molto sentito dall’elettorato Usa (secondo le analisi del Wall Street Journal, le polemiche sugli accordi commerciali hanno portato a Trump più voti delle provocazioni su immigrati e musulmani) ma non è facile da affrontare. Il 35% delle esportazioni cinesi in America è formato da prodotti che nascono in Giappone, Corea e Taiwan e che la Cina si limita ad assemblare. Colpire la Cina (Trump ha avanzato l’ipotesi di mettere dazi sul 45% delle importazioni) significherebbe, in questi casi, colpire anche Paesi legati agli Usa da una lunga amicizia. Con quali effetti, economici e politici?
Come si vede, Trump tutto potrà fare tranne che isolarsi nel giardino protetto della superpotenza Usa. E non è chiaro perché le sue ricette debbano per forza appartenere alla galassia, peraltro indefinita, del “populismo”. Rappresentano, invece, una netta inversione di rotta rispetto al recente passato. Ma se non avevamo previsto che gli americani avessero tanta voglia di cambiare la colpa è nostra, non di Donald Trump.

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