Secondo il presidente della Commissione
Europea Juncker, Trump è un ignorante: sfottò di cui agli elettori nulla
importa. Più interessante, invece, il timore che il miliardario possa
sconvolgere gli equilibri internazionali. Anche perché al primo posto dei
pericoli ci sarà il terrorismo islamico. Quindi, perché non tentare un accordo
con la Russia di Putin, impegnata
Il violento attacco che Jean-Claude Juncker,
presidente della Commissione europea, ha rivolto al neo-eletto presidente degli
Usa, non farà un grammo di danno a Donald Trump(che non a caso ha
vinto con lo slogan “America first”, prima di tutto l’America) ma potrebbe
rendere ancor più difficili i raaporti tra le due rive dell’Atlantico e più
precari gli equilibrii interni alla Ue. Juncker, infatti, ha detto due cose. La
prima è che Trump è un ignorante, non conosce l’Europa né il mondo. Uno sfottò,
un’offesa di cui agli elettori di Trump nulla importa. E poi, ha aggiunto
Juncker, l’elezione di Trump può sconvolgere gli equilibrii internazionali.
Qui le cose si fanno più interessanti. Con il Medio
Oriente a pezzi, l’Unione Europea sull’orlo della disgregazione, i flussi
migratori senza controllo sia all’origine (dove l’Occidente, che molto
spende in guerre, è del tutto assente) sia alla fine (manca una politica
collettiva di gestione dei flussi), una crisi economica ancora irrisolta e il
rapporto con giganti come la Cina e la Russia tra critico e drammatico, ci
piacerebbe sapere di quale “equilibrio” il buon Juncker vada parlando.
Lui, e altri come lui, hanno sperato che vincesse Hillary Clinton per
proseguire in una politica che era assai più tranquillizzante per loro che per
i popoli della terra. Trump promette di fare l’esatto contrario,
facendo perno sull’interesse del cittadino medio americano. Populismo? Utopia?È
probabile. Ma considerare Trump un salto nel vuoto e la Clinton una garanzia di
saggezza è quasi una truffa.
Certo, l’Europa ha giuste ragioni di preoccupazione. Donald Trump
non ama i trattati economici internazionali, che considera (a torto o a
ragione) penalizzanti per l’economia americana. È assai difficile, ora, che
il già travagliato Ttip (il Partenariato transatlantico per il commercio e gli
investimenti), così caro a Barack Obama e Angela Merkel ma poco gradito a
Francia e Italia, veda la luce. Se poi Trump decidesse di adottare
anche misure a protezione dell’industria americana, la Ue, che nel 2014 ha
vantato un attivo di 105 miliardi di euro negli scambi commerciali con gli Usa,
avrebbe di che lagnarsi.
Analogo discorso per quanto riguarda la sicurezza. In campagna
elettorale Trump si chiedeva perché gli Usa debbano sostenere il 75% delle
spese per tenere in attività la Nato e perché in prima linea in Ucraina
ci fossero loro e non, per esempio, la Germania. Certo, all’Europa
l’ombrello Usa ha sempre fatto comodo e le ha finora consentito di non
affrontare sul serio il compito di darsi una politica di difesa. Da
domani, se Trump agirà di conseguenza, bisognerà farlo, affrontando anche le
spese e gli impegni relativi. Cosa quasi impossibile nella Ue litigiosa e
divisa degli ultimi anni.
Anche perché nel frattempo Trump propone una diversa gerarchia delle
minacce. Il primo pericolo, secondo lui, è il terrorismo islamico.
Quindi, perché non tentare un accordo, o almeno una distensione, con la Russia,
impegnata in Siria sullo stesso fronte? Se poi gli europei hanno davvero paura
di essere invasi da Mosca, come la propaganda atlantista ha raccontato in
questi anni, provvedano da sé a difendersi. Anche con la Nato, ma senza far
ricadere l’onere di spesa e di impegno militare sui soli Stati Uniti. Comprensibile
che il povero Juncker sia un po’ agitato.
L’altro protagonista che osserva le mosse di Trump con
attenzione e un po’ di ansia è la Cina. Ansia relativa, perché si tratta pur
sempre di un colosso che, tra l’altro, detiene da solo il 10% del
debito americano (che per il 47% è controllato da altri Paesi,
ennesima ragione per cui parlare di isolazionismo è fuorviante) ed è ormai
capace di competere al massimo livello.
Ma proprio perché di competizione di tratterà, la Cina
flette i muscoli e accoglie Trump con una bella svalutazione della moneta, lo yuan, in modo da
rendersi ancor più concorrenziale sui mercati mondiali. Trump ha criticato lo
stato dei rapporti tra Usa e Cina e si è proposto di raddrizzare quello che
considera un pericoloso squilibrio, ovvero il disavanzo di 257 miliardi di
dollari (dati 2016) che gli Usa scontano nei commerci con la Cina. Il
tema è molto sentito dall’elettorato Usa (secondo le analisi del Wall
Street Journal, le polemiche sugli accordi commerciali hanno portato a Trump
più voti delle provocazioni su immigrati e musulmani) ma non è facile da
affrontare. Il 35% delle esportazioni cinesi in America è formato da
prodotti che nascono in Giappone, Corea e Taiwan e che la Cina si
limita ad assemblare. Colpire la Cina (Trump ha avanzato l’ipotesi di mettere
dazi sul 45% delle importazioni) significherebbe, in questi casi, colpire anche
Paesi legati agli Usa da una lunga amicizia. Con quali effetti, economici e
politici?
Come si vede, Trump tutto potrà fare tranne che
isolarsi nel giardino protetto della superpotenza Usa. E non è chiaro
perché le sue ricette debbano per forza appartenere alla galassia, peraltro
indefinita, del “populismo”. Rappresentano, invece, una netta inversione di
rotta rispetto al recente passato. Ma se non avevamo previsto che gli
americani avessero tanta voglia di cambiare la colpa è nostra, non di Donald
Trump.
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