Nel capitalismo odierno si verifica una situazione singolare: ciò che per natura sarebbe scarso è divenuto sovrabbondante, mentre ciò che per natura sarebbe sovrabbondante è divenuto
risorsa scarsa. Parlo, rispettivamente, di lavoro e valuta. Il
lavoro, cioè la manodopera, in natura è una risorsa scarsa: esistono infinite
cose da fare, ma non esisterà mai tutta la manodopera necessaria a farle. La
valuta, invece, “in natura” è illimitatamente disponibile, dato che si tratta
di null’altro che un codice convenzionale: numeri. Ieri pezzi di carta, oggi
bit nei computer.
Nella maggior parte delle economie moderne, tuttavia, la
disoccupazione, cioè la sovrabbondanza di manodopera rispetto alla valuta
disponibile per remunerarla, è una realtà ben nota. Ciò ha dell’assurdo. La
mancanza di valuta, cioè di numeri, fa sì
che milioni di disoccupati non solo non possano dare il loro contributo per
costruire una società migliore, ma che siano anche costretti a vivere nella disperazione. E questo per un solo
motivo: il monopolista della valuta, cioè lo Stato, ne immette troppo poca nel
settore privato. In altre parole, il deficit pubblico è troppo
piccolo.
Aumentare il deficit pubblico al livello di piena occupazione
significa immettere nel sistema economico la valuta fisiologicamente necessaria
a remunerare tutta la manodopera disponibile. Se così venisse fatto, si
tornerebbe ad avere il mondo per come la natura l’ha plasmato: le persone
avrebbero tutte la possibilità di contribuire alla società in cui vivono e la
valuta sarebbe un mezzo di pagamento facilmente reperibile, che permetterebbe
di sfruttare al massimo ciò che il progresso può offrire.
Il deficit pubblico è quindi la soluzione alla disoccupazione.
È lo strumento tramite cui ristabilire l’ordine naturale delle cose. Ma non può
bastare, e il motivo è puramente antropologico: la società umana è per sua
natura suddivisa in classi di potere e di interesse, e se lo stimolo monetario
può sopperire alla scarsità di remunerazioni disponibili, esso non può impedire
una distribuzione polarizzata della ricchezza e del reddito, dove chi possiede
più valuta ha i mezzi per accumulare sempre più potere, e chi ne possiede di
meno non può che vedere peggiorare la propria condizione.
È proprio in opposizione a questa problematica che il deficit
pubblico può essere sfruttato al meglio, attraverso l’istituzione di un Piano di Lavoro Garantito (PLG). Applicando questo strumento di
politica economica, il monopolista della valuta si impegna a garantire un posto
di lavoro remunerato a tutti coloro i quali possano e vogliano lavorare. Tale
strumento porterebbe ad un innalzamento del deficit che, aumentando la spesa
totale nell’economia, favorirebbe l’espansione del settore privato e la
transizione della manodopera dal PLG al settore privato stesso. Il salario nel
PLG ammonterebbe ad un importo minimo che assicuri l’autosufficienza del
lavoratore, mentre verrebbero garantite le migliori condizioni igieniche ed
ambientali sul posto di lavoro.
Da un punto di vista sociale, il Piano di Lavoro Garantito
rappresenta un’avanguardia per la civiltà,
in quanto è lo strumento con il quale un soggetto democraticamente
riconosciuto, lo Stato, interviene per smussare considerevolmente gli squilibri
che naturalmente intercorrerebbero tra classi sociali. Garantendo
un’occupazione nelle migliori condizioni di lavoro e remunerata da un salario
minimo, lo Stato elimina di fatto il ricatto del “mercato del lavoro”, in cui
la classe più svantaggiata subisce una sempre crescente deprivazione in diritti
e ricchezza.
Intervenendo prima con il deficit e poi con la garanzia della
piena occupazione, lo Stato, in quanto monopolista della valuta e quindi forza
incontrastabile nell’economia moderna, garantisce che la tendenza naturale
delle classi sociali più facoltose a sfruttare le classi meno abbienti sia
efficacemente ridimensionata, stabilendo un ordine conforme ai principi morali
più nobili del pensiero umano, dei quali la giustizia sociale è sicuramente un
elemento imprescindibile.
Per eliminare la possibilità della disoccupazione
involontaria è quindi indispensabile comprendere i principi di funzionamento
della moneta moderna: come viene creata, come viene distrutta, qual è la sua
natura intrinseca. La tecnica viene così messa al servizio della realizzazione
di un progetto squisitamente umano, che vede l’etica al centro del discorso
politico e porta la civiltà a compiere un sostanziale e consistente
passo in avanti.
(Articolo già pubblicato sulla rivista Caffè Graziani)
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