mercoledì 30 novembre 2016

La guerra al sapere critico - Alvaro Belardinelli


La notizia è dell’8 novembre: la ministra Stefania Giannini ha firmato il decreto “Scuola breve”. Cento scuole superiori sperimenteranno il liceo articolato su quattro anni anziché in cinque. Gli istituti votati alla “sperimentazione” verrebbero scelti mediante un bando di gara da redigere entro dicembre 2016, e da pubblicarsi ufficialmente a settembre 2017.
I genitori interessati dovrebbero quindi iscrivere i propri figli attraverso una domanda di partecipazione. Le ore del quinto anno soppresso verrebbero “recuperate” spalmandole sui quattro anni rimasti: milleventitré ore per il Liceo Classico, novecentonovanta per lo Scientifico, Millecentocinquantacinque per l’Artistico. Nei quattro anni superstiti, dunque, si starebbe sui banchi più ore.
Quasi che la quantità potesse compensare la qualità (anzi, a scuola, sono inversamente proporzionali tra loro). Sarebbe come dire che la domenica, per non perdere tempo a mangiare, si starà a digiuno, ma si recupereranno i pasti perduti mangiando di più dal lunedì al sabato. Con quale danno per la digestione e per la salute?
Qual è, d’altronde, il vantaggio del liceo a quattro anni? Avere un anno in più per lavorare! Non è in fondo il lavoro lo scopo della scuola? Così la pensa il governo Renzi. A scuola si perde tempo. Meglio lavorare. Tutta la propaganda governativa va in questa direzione. Così come in questa direzione va la legge 107/2015 (sedicente Buona Scuola), che obbliga gli studenti a quattrocento ore di “alternanza scuola-lavoro” negli istituti tecnici, e a duecento nei licei.
Lo aveva annunciato il ministro Giuliano Poletti il 23 marzo 2015, con il celebre affondo nel quale disse che non sarebbe male per gli studenti partecipare a stage lavorativi d’estate, come facevano i suoi (eroici) figli, adusi a “spostare casse di frutta in magazzino nei mesi estivi”. I giovani non devono imparare ad usare il cervello, ma i muscoli. O al massimo i polpastrelli, per usare tastiere di computer. Credere, obbedire, farsi spremere: questo sembra essere il motto del governo del Partito “Democratico”. Un’autentica educazione alla schiavitù del lavoro gratuito.
Che i giovani acquisiscano conoscenze non interessa ai nostri ineffabili (s)governanti. Non interessa alla Troika, non al Vaticano, non a Confindustria, non ai banchieri, non alle mafie. A nessuna delle forze che dettano legge in Italia, insomma. Interesserebbe ai docenti degni di questo nome; ma quelli non contano: Renzi li ha già asfaltati con la Legge 107, nell’indifferenza dell’opinione pubblica, che ancora vede gli insegnanti come dei privilegiati rompiballe (anche se ormai hanno stipendi da povertà vera).
Ora devono stare zitti e mosca, quei docenti “contrastivi” – come li ha definiti l’Associazione Nazionale Presidi in un celebre documento dai toni bellici – che hanno sempre tentato di difendere la Scuola Statale (l’unica pubblica) e la propria professionalità. Altrimenti possono essere trasferiti, demansionati, puniti economicamente. Ma agli italioti sta bene così, perché non hanno capito che il pilastro fondamentale di ogni democrazia è proprio la scuola.
I poteri forti vogliono questo: una scuola che lasci la maggior parte dei cittadini nell’incapacità di acquisire conoscenze in modo autonomo, analitico e critico, e di trasformare questa autonomia in indipendenza di giudizio. Solo pochi devono essere intelligenti e colti (cioè umani nel senso più completo della parola): i figli di Lorsignori ed i loro lacchè. Ma per ottenere ciò non serve la ScuolaStatale (soprattutto se non è asservita): essa quindi va dissanguata, disinnescata, ridotta, umiliata, svuotata dall’interno. Scuola povera per poveri.
Per gli altri, per i rampolli del ceto egemonico, ci sono le scuole private d’alto bordo, quelle che pretendono rette annuali da decine di migliaia di euro (dai cinquantaquattromila dell’Eton College a Windsor in Inghilterra agli oltre centomila dell’Istituto Le Rosey presso Ginevra). Questo il mondo progettato dai grandi della Terra: una massa sconfinata di polli d’allevamento, dominati da un’eletta schiera di facoltosissimi nababbi.
Il progetto del “liceo breve”, va esattamente in questa direzione. È un altro tassello dell’infinita serie di scelte politiche che hanno già terremotato la scuola italiana, e che stanno definitivamente spianando quel tanto di buono che comunque ancora (malgrado i governi) sopravvive. Se al referendum del 4 dicembre prossimo dovesse vincere il Sì, l’esecutivo avrebbe la strada ancora più libera per la demolizione totale del sistema scolastico che ha in centocinquant’anni trasformato l’Italia da Paese analfabeta in grande nazione moderna.
A quel punto il governo potrebbe tranquillamente procedere con le deleghe che già la Legge 107/2015 gli assegna in materia scolastica, e il cerchio si chiuderebbe definitivamente. Attenzione, però: che la scuola diventi un contenitore vuoto (come tutte le altre istituzioni democratiche di questo Paese) non sarà un guaio solo per i poveri insegnanti, costretti a morire di demotivazione e di burocrazia. Tutti i cittadini pagheranno lo scotto della distruzione della scuola, perché il Paese s’imbarbarirà sempre più, e sarà sempre più difficile vivervi in pace.
Il governo risparmierà, sì, un miliardo o due (licenziando gli insegnanti “inutili”), ma l’ignoranza ci costerà molto di più. Molto più degli armamenti che, intanto, il governo Renzi continua pervicacemente ad acquistare. Del resto, si sa: armi e guerre ingrossano il Pil (e le saccocce degli amici); i docenti no.
da qui

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