Abidemi in Nigeria faceva
la maestra elementare. Ha dovuto smettere quando i terroristi islamici del Boko
Haram – quelli che nel 2014 hanno sequestrato più di duecento studentesse,
buona parte della quali sono ancora tenute in ostaggio – hanno cominciato a
uccidere in modo sistematico i cristiani della sua regione. Le è stato
suggerito di scomparire, possibilmente di raggiungere l’Europa. Come la maggior
parte delle sue connazionali che intraprendono questo lunghissimo viaggio, ha
raggiunto la Libia. Dopo l’arrivo ha creduto di trovare – nella casa di una
donna - un rifugio provvisorio per il tempo dell’attesa di un posto su
barcone. Ma, appena accettata l’ospitalità, ha scoperto d’essersi
consegnata agli aguzzini. Le è stato ordinato di prostituirsi. Ha tentato
di ribellarsi.
Scritto sulla pelle
Per
spiegare quel che le è successo, Abidemi non ha bisogno di parole. Le
basta abbassare il collo del maglione di lana e scoprire la spalla
sinistra. E’ come se la pelle fosse coperta dalla carne di un altro corpo. Una
poltiglia scura, gonfia, indurita. Sono le cicatrici delle ustioni causate
dall’acqua bollente. Le torture sono andate avanti per giorni: acqua bollente e
poi sale sulle piaghe. Finché, grazie all’aiuto di due donne che si sono
impietosite e le hanno aperto la porta della prigione, è riuscita a fuggire. Il
viaggio sul barcone è cominciato il 19 ottobre dalla costa libica e si è
concluso dopo tre giorni, il 22, in Calabria. A bordo c’erano complessivamente
duecento persone, e anche dodici ragazze con storie simili alla sua. Una di loro,
Joy, era incinta di sette mesi.
L'odio all'arrivo in
Italia
Abidemi
ha raccontato la sua storia al quotidiano “l’Avvenire” che l’ha
pubblicata con grande rilievo benché, in fondo, non sia poi storia
straordinaria. E’ la stessa di ragazze che fuggono dalla Nigeria e vengono
ridotte in schiavitù dai trafficanti. Non è nemmeno una storia nuova. Per
trovarne altre, molto simili, è sufficiente andare in una biblioteca ben
fornita e chiedere, per esempio, di consultare “Le ragazze di Benin City”, un
saggio di Laura Maragnani, Isoke Aikpitanyi pubblicato da Melampo nel 2007. O
anche “Il mio nome non è Wendy”, di Paola Monzini e Wendy Uba, uscito lo stesso
anno per Laterza. La novità non è la storia della fuga e delle ragioni che
l’hanno determinata. La novità è quel che è successo all’arrivo. Abidemi e Joy,
infatti, sono due delle dodici donne che il la notte del 24 ottobre (cioè due
giorni dopo essere approdate in Italia) furono respinte con le barricate
dalla popolazione di Gorino, il piccolo centro in provincia di Ferrara a
cui erano state destinate dalla prefettura. Adesso otto di loro vivono a
Ferrara, ospiti di un’associazione cattolica, la Viale K, altre quattro a
Codigoro, un altro comune della provincia, e sono seguite dalla cooperativa, la
“Airone”. “L’Avvenire” le ha raggiunte e ha raccolto le loro storia
per offrile ai suoi lettori. E anche agli abitanti di Gorino.
Diritto d'asilo
"contro" diritti dei cittadini
Il
“pregio”, chiamiamolo così, di questa vicenda è che pone, in modo radicale, il
problema del diritto d’asilo e dell’atteggiamento dei cittadini italiani.
Abidemi certamente non è un “migrante economico”. Non è una delle persone che
“vengono a rubarci il lavoro”. E’ stata costretta a fuggire per via della sua
religione e nel corso del viaggio è stata vittima di torture. Una biografia che
impedisce di addurre – per spiegare l’atto ostile del quale è rimasta vittima –
i principali tra gli argomenti anti-accoglienza. E che obbliga a rispondere a
una domanda semplice e dolorosa: i fondamentali principi umanitari – quelli
scritti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e nella Costituzione – sono
condivisi da tutti? L’Italia ha un sistema di accoglienza che ne garantisce
l’applicazione?
"Perché proprio
da noi?"
Il
problema è infatti di sistema. E’ immaginabile che anche quanti hanno issato le
barricate – pare essere proprio questa la scommessa dell’Avvenire, quotidiano
di ispirazione cattolica – si porranno qualche problema nel sapere che hanno
cacciato via persone realmente bisognose di aiuto. E, probabilmente, lo
risolveranno domandando: “Sì, vabbene. Ma perché proprio da noi?”. Una domanda
che sarà legittima fino a quando non si arriverà a una distribuzione equa
dell’impegno umanitario. D’altra parte esistono già, nel sistema Sprar – la
rete dei comuni italiani che hanno dato disponibilità a ospitare i richiedenti
asilo – dei criteri che consentono di individuare, per esempio, il numero di
rifugiati adeguato alla dimensione della città o del paese ospitante. Il
problema è che a questa rete aderisce solo il dieci per cento dei comuni
italiani. E che, quindi, manca la “base di calcolo” che consenta di arrivare a
una distribuzione equa. E’, in scala nazionale, lo stesso problema che si pone
a livello europeo. E che non si è riusciti ancora a risolvere.
Spiegare le cose ai
cittadini
Il
fatto è che il problema dell’equa ripartizione dell’impegno a sostegno dei
rifugiati non può essere risolto attraverso atti di imperio, come appunto
dimostrano il caso di Gorino a altre analoghe vicende avvenute un po’ in tutte
le parti d’Italia. E’ anche necessario far conoscere ai cittadini l’antefatto.
Spiegare bene che i richiedenti asilo sono persone che hanno realmente bisogno
di aiuto e che sono arrivate da noi perché l’unica alternativa era rischiare di
essere uccisi o incarcerati. Chiarire con i fatti (quindi con la buona
amministrazione e con il welfare) che l’atto di ospitare non toglie nulla, ma
eventualmente può dare qualcosa. E, in definitiva, consentire ai cittadini di
affrontare l’incontro con gli ospiti in modo sereno, senza avvertirli come
concorrenti o come invasori. E’ anche necessario, ovviamente, rassicurarli sul
fatto che esistono filtri e controlli che consentono di individuare gli
impostori.
Basta con le
giustificazioni
E’
un processo molto lungo. E mai si arriverà all’individuazione di criteri
perfetti. Per questa ragione il carattere sistemico del problema non può essere
un alibi per giustificare il rifiuto aprioristico, spesso alimentato da
organizzazioni politiche che lucrano voti sull'odio, dell’accoglienza. Storie
come quella di Abidemi sono segnate dall'emergenza e dall'urgenza. Bisogna
trovare subito una sistemazione. E può accadere di non individuare il luogo
adatto. Cioè un comune dove la cittadinanza sia preparata e informata. Quando
avviene è ogni singolo cittadino, facendo i conti con la sua coscienza, a dover
decidere su come regolarsi. Se fare le barricate o se, invece, affrontare la
situazione con un atteggiamento responsabile. Abidemi in fondo obbliga
quanti l’hanno cacciata a mettere in relazione il loro disagio personale con la
più grave sciagura umanitaria del nostro tempo.
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