[Chi ripete la narrazione tossica su Donald Trump
che ha avuto, tout court, «il
voto della working class», ha una minima idea
di cosa sia la classe lavoratrice americana,
di come abbia votato o non votato, e perché?
Plausibilmente no.
Quanti sanno che Trump è stato votato da una netta – anche più netta che in passato – minoranza della società americana, e la fascia di reddito dove ha ottenuto il miglior risultato è quella dai 250.000 dollari all’anno in su?
A quanto pare, pochissimi.
Ecco perché pubblichiamo un contributo che ci è appena arrivato dagli Usa e ci sembra contenere importanti spunti.
N.B. Il titolo è nostro, quello di Valentina era «Benvenuti a Trumplandia».
Buona lettura. WM]
Plausibilmente no.
Quanti sanno che Trump è stato votato da una netta – anche più netta che in passato – minoranza della società americana, e la fascia di reddito dove ha ottenuto il miglior risultato è quella dai 250.000 dollari all’anno in su?
A quanto pare, pochissimi.
Ecco perché pubblichiamo un contributo che ci è appena arrivato dagli Usa e ci sembra contenere importanti spunti.
N.B. Il titolo è nostro, quello di Valentina era «Benvenuti a Trumplandia».
Buona lettura. WM]
di Valentina Fulginiti
1.
Lavoro in un’università della Ivy League nel
nord-est degli USA: una piccola isola felice di politica liberale e di
privilegio economico. I miei studenti sono gentili, miti, studiosi. Forse sarà
perché insegno nel collegio delle arti liberali, ma i giovani che incontro
quotidianamente sono idealisti—anche se rispettosi delle regole fino
all’ossequio—attenti a riciclare, aperti alla diversità sessuale e di genere,
educati, sensibili, colti. Molti di loro sono privilegiati dalla nascita (come
chiunque in questo paese possa permettersi di sborsare fino a 50.000 dollari
annui tra retta e spese di vitto e alloggio). Anche i conservatori (pochi, per
la verità) sono gentili, civili — ragazzi che sembrano usciti da un film dei
primi anni ’50, con le loro cravatte regimental, i pantaloni beige, i blazer
blu, la riga tra i capelli. Tutto è ovattato, quasi irreale. Anche nelle
discussioni politiche (rare, perché tra persone beneducate non si parla di
politica a meno che non si sia già tutti d’accordo), si avverte la costante
preoccupazione a non urtare le altrui sensibilità, a non emettere alcuna nota
dissonante.
È la mattina del 9 novembre, e il
campus è avvolto in una calma innaturale. Nell’ultimo anno e mezzo la nostra
comunità è stata segnata da diverse tragedie. In
agosto, il suicidio di un ragazzo giovanissimo e talentuoso. All’apertura
dell’anno accademico, l’assurda morte di un diciannovenne in una rissa
scoppiata ai margini del campus. La scorsa primavera, la morte inaspettata e
prematura della Rettrice, stroncata da un cancro fulminante. Occasioni
tragiche, che hanno portato a momenti di silenzio, riflessione, raccoglimento.
Eppure in nessuna in queste occasioni il campus si era immerso in un silenzio
tanto raggelato e spettrale.
Gli studenti dei miei corsi sono
traumatizzati. Per quasi tutti si trattava del primo voto: il paragone con i
loro fratelli maggiori, diventati maggiorenni nell’epoca di Obama, è impietoso.
Ripenso all’entusiasmo che, appena un anno fa, alcuni dei miei ragazzi avevano
mostrato nel promuovere la campagna di Bernie; ricordo le loro animate
discussioni, i capannelli cospiratori nei cambi d’ora, gli zaini e le bottiglie
riutilizzabili per l’acqua tappezzate di adesivi, e la progressiva delusione a
mano a mano che la vittoria del loro candidato alle primarie si faceva sempre
più irreale. Tutto ciò sembra appartenere a un passato ormai remoto.
Nell’attesa della lezione alcuni
— i più giovani — provano a sdrammatizzare, chi con una battuta, chi con la
promessa di emigrare in Canada. La lezione di lingua italiana li distrae. Per
un’ora, alle prese con i verbi riflessivi e il presente indicativo, dimenticano
l’attualità; ma mentre lasciano la mia aula, li vedo ripiombare nello stesso
silenzio apatico e disperato. Nella mia seconda lezione (un corso sulla cultura
italo-americana e le sue intersezioni con razza, genere e sessualità) il clima
è decisamente più cupo. Robert*, studente di lettere, entra in classe e
annuncia con voce rotta (ma in perfetto italiano) di essere «senza parole».
Mike, un ragazzo riflessivo e sensibile, senz’altro tra i più diligenti e
motivati della classe, fatica a trattenere le lacrime mentre partecipa alla
nostra analisi testuale e deve uscire brevemente durante la lezione. X, figlia
di due immigrati, le lacrime non prova nemmeno a nasconderle: a più riprese si
lascia andare a un pianto tanto silenzioso quanto incontrollabile. Mi viene
difficile trovare paragoni. L’unico che mi viene in mente è l’11 settembre (un
paragone sentito più volte ieri sera rispetto al tonfo del Dow Jones, 800 punti
persi in un solo giorno). Mi tornano in mente le reazioni sgomente e
traumatizzate che seguono un attentato terroristico. Si apre così l’era Trump:
il terrore al potere.
2.
In facoltà tra i colleghi il
clima non è molto diverso. Alcuni hanno lo stesso sguardo vitreo dei miei
studenti. «Buona giornata», scandisce con voce rotta E., una delle ultime
colleghe assunte, naturalizzata da quasi vent’anni eppure incredula di fronte
alla caporetto democratica.
Poi ci siamo noi: gli italiani
che ricordano fin troppo bene i tre cicli elettorali dominati da Berlusconi,
quasi due decenni passati a fissare in volto la Gorgone; noi che l’abbiamo
visto subito, fin dalle primarie, che la minaccia di Trump non andava né
sottovalutata né derisa ma presa terribilmente sul serio; noi che abbiamo
riconosciuto i segni e speravamo (pregavamo!) di sbagliarci. Noi che abbiamo
visto l’insipida inconsistenza della campagna di Clinton e la sanguigna
volgarità del Capo, e abbiamo tremato. La stessa terrificante sottomissione
all’avversario; una campagna elettorale sbagliata dall’inizio alla fine, perché
priva di un’identità e di una narrazione proprie, e di fatto asservita
all’agenda dettata da Trump, il quale ha saputo invece imbastire una narrazione
potente, accattivante, galvanizzante, per quanto retorica e superficiale.
Nel pomeriggio, al silenzio segue
il vociare; piccoli capannelli si formano; tra gli spezzoni di frasi,
«electoral college», «rust belt», «nobody» e «the polls were wrong» sono i più
ricorrenti. Si cerca, invano, di ricomporre i pezzi del puzzle.
La cosiddetta fallacia del
giocatore, la difficoltà estrema di immaginare un sommovimento dello status quo, il fatto che i sondaggisti e gli analisti
fossero tutti pro-Clinton (con l’eccezione di Nate Silver che ha saggiamente
evitato di sbilanciarsi fino all’ultimo), lo schieramento pro-Clinton di quasi
tutta la stampa tradizionale e di area liberal, dal New York Times fino
a diverse testate locali di tradizione repubblicana, e la stessa impensabilità
di Trump presidente: sono molti i motivi che spiegano lo choc. Ma viene quasi
da pensare che i sondaggi abbiano sbagliato anche perché a volte non bastano i
numeri: quell’immagine che i sondaggi restituivano mossa e sfocata forse
avrebbero potuto darcela i tanto vituperati saperi umanistici e discorsivi: la
retorica, l’analisi delle strategie comunicative, l’analisi critica. Per fare
un esempio, il regista Michael Moore ci aveva azzeccato, con mesi d’anticipo,
anche quando le statistiche davano la Clinton in netto vantaggio. Sarà un caso?
3.
Com’è possibile, mi domando, che
nessuno si aspettasse la vittoria di Trump?
Certo, noi che viviamo nella piccola bolla liberale di Ithaca—un isolotto blu nel mare rosso repubblicano che è lo stato di New York (ben distinto dalla città di New York City) corriamo il rischio di separarci dal resto della società, convinti che la nostra quotidianità fatta di zone pedonali, biciclette e mercati della terra sia la normalità. Ma bastava allontanarsi di una ventina di chilometri per respirare un’aria diversa. Si esce da Ithaca per andare verso Groton, Dryden, Cortland, in direzione di Syracuse: un mare di cartelli blu per Trump/Pence, raramente punteggiati dall’azzurro chiaro di qualche cartello pro Clinton e – un po’ più spesso – da quelli per Bernie. Diamine, anche dentro Ithaca bastava andare a fare la spesa al Walmart locale per vedere le magliette «HILLARY FOR PRISON 2016» (per tacere di altri slogan ben più volgari) e i pick-up ricoperti di adesivi strillanti, più «maleducati» di una canzone di Vasco.
Certo, noi che viviamo nella piccola bolla liberale di Ithaca—un isolotto blu nel mare rosso repubblicano che è lo stato di New York (ben distinto dalla città di New York City) corriamo il rischio di separarci dal resto della società, convinti che la nostra quotidianità fatta di zone pedonali, biciclette e mercati della terra sia la normalità. Ma bastava allontanarsi di una ventina di chilometri per respirare un’aria diversa. Si esce da Ithaca per andare verso Groton, Dryden, Cortland, in direzione di Syracuse: un mare di cartelli blu per Trump/Pence, raramente punteggiati dall’azzurro chiaro di qualche cartello pro Clinton e – un po’ più spesso – da quelli per Bernie. Diamine, anche dentro Ithaca bastava andare a fare la spesa al Walmart locale per vedere le magliette «HILLARY FOR PRISON 2016» (per tacere di altri slogan ben più volgari) e i pick-up ricoperti di adesivi strillanti, più «maleducati» di una canzone di Vasco.
C’è ben poco a tenere a galla
queste aree semi-rurali, tra laghetti da cartolina e dolci colline: molte
fattorie, alcune pericolanti e abbandonate, altre riconvertite in vigneti e
birrerie, più che altro popolate di turisti e di qualche festa di addio al
nubilato; qualche piccola università statale e qualche college a vocazione
professionale; case fatiscenti e macchine lasciate ad arrugginire sotto un
eterno cartello “Vendesi”; qua e là un ambulatorio, magari specializzato nel
trattamento del dolore – che si tratti di un «pill mill», una di quelle
discutibili cliniche spuntate come funghi negli ultimi dieci anni e che
distribuiscono legalmente ricette per oppiacei? Ogni tanto appare uno strip mall, un susseguirsi amorfo di supermercati e
grandi magazzini. Pochissimi i servizi: un raro ufficio postale, un bar
sgangherato, un diner di provincia dove consumare caffè,
uova e bacon a qualsiasi ora del giorno. Un’abitazione dove ha soggiornato
qualche personaggio storico trasformata in attrazione turistica. Una Main
Street lucidata e pulita, con mattoni a vista e coccarde tricolori, circondata
da vie deserte e case in rovina. Lungo le strade semi-abbandonate di cittadine
un tempo fiorenti, la metà dei negozi ha le vetrine coperte di compensato. E se
pure in questo stato la grande mela, con i suoi 8 milioni di abitanti
cosmopoliti e post-razziali, è bastata pressoché da sola a controbilanciare la
marea rossa dei collegi rurali regalando alla Clinton tutti i 29 voti dei
grandi elettori in blocco, vista da qui la fotografia appare nitida. Non
stupisce che Trump, con la sua virulenta retorica anti-cinese, abbia vinto
nella cosiddetta «rust belt», la fascia del nord de-industrializzato e
arrugginito, tra le contee dell’industria mineraria ormai smantellata e nelle
aree rurali devastate dall’epidemia di oppiacei.
4.
Eliminiamo, una volta per tutte,
un clamoroso fraintendimento: una delle più grandi menzogne di queste elezioni
post-fattuali (in cui la verità è stata sostituita dalla continua riscrittura
di una finzione, e in cui le narrazioni hanno riaffermato, ancora una volta, il
loro potere attraverso media vecchi e nuovi) è che «la classe operaia» si sia
schierata per Trump. C’è un elemento di verità in questa affermazione, ma la
questione è molto più complessa di così; e non solo per via di altri fattori
come la maggior astensione del voto nero e di tutto il voto democratico (oltre sette
milioni di voti persi dal 2012 a oggi), le politiche di soppressione del
diritto di voto attive soprattutto in Wisconsin, North Carolina e Arizona
(guarda caso), la sopravvalutazione del blocco latino da parte dei Democratici
oppure la «sorpresa» nel voto delle donne bianche laureate, che si è rivelato
più pro-Trump di quanto non ci si aspettasse. Sia ben chiaro, questi fattori
sono tutti reali e hanno avuto un peso determinante; ma decine di analisti li
già hanno rilevati, scrivendone in modo ben più approfondito e corretto di
quanto non riuscirei a fare io con la mia laurea in Lettere Moderne.
Quella di Trump non è la «rivolta
della classe operaia». Perché dire che i «Reagan democrats» della «rust belt»
corrispondono, in toto, alla «working class» significa cancellare la
pluralità di altre esperienze, voci, conflitti e facce che pure compongono la
classe lavoratrice in questo paese. Le contraddizioni sono moltissime. Gli
elettori bianchi della West Virginia, dell’Ohio centrale, della Pennsylvania e
del Michigan rurali rimpiangono i bei tempi in cui un diploma di scuola
superiore dava accesso a lavori di fabbrica ben pagati e dignitosi, ma non
rimpiangono necessariamente i sindacati forti che quei salari dignitosi li
garantivano. Come imprenditore Trump è a dir poco ostile ai sindacati, e come
candidato è contrario all’innalzamento del salario minimo a 15$; anzi, una
delle sue presunte strategie per riportare le fabbriche negli USA è deprimere
gli stipendi della classe operaia per renderli di nuovo
«competitivi». (Queste cose Trump le ha affermate in campagna elettorale
anche se, bisogna ammetterlo, le ha dette un po’ di sfuggita tra una giravolta
e l’altra).
In questa particolare visione
della «working class», non si trova alcuna solidarietà con le altre voci che
pure compongono la lotta di classe in questo paese: le madri single che
beneficerebbero di politiche lavorative attente al genere; tutte le persone a
cui l’Affordable Care Act (per quanto imperfetta, parziale e criticabile) aveva
garantito un minimo di copertura sanitaria e che si troverebbero senza
assicurazione dall’oggi al domani; i lavoratori e le lavoratrici precari e
sotto-qualificati che devono mettere insieme due lavori per portare a casa un
mezzo stipendio. Al contrario, fra i sostenitori di Trump con cui mi è capitato
di parlare (qualche conoscente purtroppo ce l’ho anch’io), si avverte un
profondo risentimento all’idea che le proprie tasse siano usate per aiutare chi
non se lo merita, gli altri. Chi sono gli altri? I parassiti. Gli immigrati. I
rifugiati. Gli ispanici. (Questi ultimi sono sempre tutti visti come
«clandestini», anche se magari hanno la green card da quindici anni e
probabilmente pagano più tasse di quante ne abbia mai pagate Trump in vita
sua). Le madri single. I neri. Gli «Islamici». Gli «Orientali». I vituperati
Millennials—una definizione pseudo-generazionale ed anti-intellettualistica dei
giovani, che mette insieme i diciottenni e chi ormai va per i trentacinque.
È successo, a farla breve, che la
sinistra (tutta: quella radicale e quella moderata) si è lasciata rubare il
semantema della classe operaia. E
il principale artefice di questo disastro culturale e politico è stato proprio
il clintonismo (così come le varie declinazioni del centrosinistra europeo),
nell’illusione che tutti fossero diventati ricchi di colpo grazie all’esplodere
dell’economia dot.com e del terziario globale. In questo
vuoto si sono fatte strada le narrazioni tossiche, la nostalgia, la paura della
complessità, la xenofobia, il razzismo, il discorso esclusivo dei suprematisti
bianchi e dell’integralismo cristiano.
La sinistra si è così disfatta
dell’identità di classe: la sinistra moderata con il suo appeal centrista alla
classe media; e quella radicale prima col suo slogan, tanto inclusivo quanto
ingenuo, «Siamo il 99%» (come se non ci fosse differenza tra chi frequenta
l’università e chi nelle aule ci va a passare lo straccio), e poi con la sua
preferenza per le determinazioni identitarie. Così facendo, tra l’altro, si è
privato il lavoro de-strutturato (quello ai gradini più bassi della scala dei
servizi, quello sotto-pagato e sotto-qualificato, spesso femminile, talora
illegale) di una propria identità di classe. Non è un caso che, a fronte del
tradimento storico dei sindacati ufficiali, le lotte più radicali siano quelle
che partono dall’autorganizzazione in luoghi atipici e quelle per
l’innalzamento del salario minimo, dai lavoratori nei fast-food a chi fa le
pulizie nei grandi alberghi, dove spesso i lavoratori (e di conseguenza i
sindacalisti) parlano in spagnolo.
Quella che ha spinto alla
vittoria prima la Brexit e oggi Trump è un
feticcio di working class: depurata di ogni diversità, non
inclusiva ma esclusiva, fondata non su un comune ideale di solidarietà ma sulla
comune appartenenza razziale; una comunità che rimpiange i tempi in cui si
dormiva senza il chiavistello alla porta, ma che sogna muri, cancelli e divieti
d’ingresso. È, soprattutto, un’immagine prevalentemente maschile, virile, di
una classe che si vorrebbe operaia o artigiana (nessuna solidarietà per chi
lavora nel settore dei servizi, magari ai ranghi più bassi).
È una classe che rimpiange i tempi in cui studiare non serviva o comunque non
era richiesto, e che infatti, indipendentemente dal titolo di studi posseduto,
si fa forte di un certo anti-intellettualismo (nessuna solidarietà per i
neolaureati indebitati fino al collo, visti come dei mocciosi viziati, o per i
professori a contratto pagati 2,000 dollari a corso, il cui lavoro non viene
considerato «serio»). Se non interamente maschile, è comunque una classe
rigidamente «eterosessuale», i maschi nelle fabbriche o al fronte e le donne al
loro posto, in pochi ruoli codificati e rassicuranti. È, infine, un’immagine di un bianco uniforme e
monocromatico. Così definita, questa non è una classe sociale, ma un mito delle
origini.
5.
Ho aspettato un paio di giorni
per scrivere questa conclusione. Come sempre accade in questi casi, dopo i
primi giorni di panico, confusione e disperazione, le situazioni si sedimentano
e si viene a patti lentamente con quanto è accaduto. Mentre nelle grandi città
la protesta incendia l’aria, il vento della protesta è arrivato persino nella
mite Ithaca: veglie a lume di candela, un sit-in notturno, una marcia pacifica
e affollata sul campus. Nel frattempo attraverso la nazione si moltiplicano le
testimonianze di aggressioni e intimidazioni razziste (non tutte vere, ma purtroppo
molte confermate); e i quotidiani alternano acute e pregnanti disamine del
fallimento di Clinton ai primi tentativi di normalizzazione. Fra i miei
studenti c’è chi, galvanizzato dalla sconfitta, intende moltiplicare gli
sforzi, mobilitarsi e protestare e magari riprendersi la DNC; ma molti sembrano
semplicemente esausti da una campagna elettorale lunghissima e dalle molte
delusioni, e vorrebbero che tutto questo potesse essere cancellato con un
tratto di penna. È un desiderio umano e comprensibile, anche se, purtroppo,
moltissimi non potranno permettersi il lusso di chiudere gli occhi.
* Tutti i
nomi sono stati modificati per proteggere la privacy.
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