E’
certamente noto a chi mi sta leggendo che nell’agosto scorso la Business
Roundtable, associazione di cui sono membri i Chief Executive Officer delle
principali società statunitensi, hanno reso pubblico uno Statement of Purpose, una Dichiarazione di intenti.
I CEO si
impegnano ad “offrire valore ai nostri clienti”, “investire nei nostri
dipendenti”, “trattare in modo equo ed etico con i nostri fornitori”,
“supportare le comunità in cui lavoriamo”. Qualcuno, da noi come negli Stati
Uniti, accoglie queste affermazioni di principio come passaggio storico, come
segnale di profonda discontinuità rispetto al passato. Dove stia questa
discontinuità però, a guardar bene, non è così chiaro.
Ciò di cui
parlano i CEO è argomento della teoria degli stakeholder -possiamo
dire in italiano portatori di interessi-, resa
pubblica verso l’inizio degli Anni Settanta del secolo scorso, proprio negli
anni cui iniziavano le riunioni della Roundtable. Nessuna impresa può veramente
prosperare se un interesse prevale eccessivamente sugli altri, schiacciandoli.
Eppure in tutti questi anni i CEO hanno operato al servizio di un solo
stakeholder: lo shareholder o azionista.
Che ora i
CEO dichiarino che gli interessi degli azionisti non devono essere collocati al
di sopra di tutto il resto appare un passo avanti. Dobbiamo però chiederci se
non si tratti di una mera affermazione di principio.
Dire che è
essenziale per il successo di ogni impresa il contributo di tutti gli attori
sociali -dipendenti, clienti e fornitori- è dire l’ovvio. Dire che l’azienda è
una costruzione comune, e che un’azienda esiste solo se esiste una comunione di
intenti è dire cosa nota ad ogni lavoratore, ad ogni manager ed ad ogni
cittadino. Gli stessi CEO della Roundtable già a partire dagli Anni Settanta si
sono espressi varie volte a favore della Corporate Social Responsibility, che
consiste appunto nel prendere in considerazione i diversi interessi in gioco.
Cosa c’è di diverso ora? Ben poco, o forse nulla.
Il CEO è
nominato e pagato dagli azionisti. Anzi, è quasi sempre un azionista lui
stesso, perché una parte della sua remunerazione passa sotto forma di azioni
della società. E addirittura in qualche caso è, come Bezos di Amazon, uno dei
membri della Roundtable, l’azionista di maggioranza.
Se leggiamo
lo Statement, vediamo che le belle affermazioni di
principio non sono accompagnate da nessun impegno dei CEO a far accettare agli
azionisti una riduzione della loro fetta della torta. Non viene messo in
discussione insomma il fatto fondamentale: sono gli azionisti a decidere come
dividere le fette della torta.
Dunque, più
che plaudire allo Statement, prendendolo per un
forte, salutare nuovo vento che soffia sulle imprese e la loro gestione, è
opportuno chiedersi se si tratti di una mera strategia comunicativa: nel
momento in cui cresce un’onda di critica sociale contro certe eccessive
remunerazioni dei CEO e contro la loro sudditanza rispetto alle aspettative
dello shareholder dominante: l’azionista, i CEO fanno propria l’argomentazione,
dichiarandosi a favore degli interessi di lavoratori, clienti, fornitori,
eccetera. Abbagliati dalla dichiarazione, finiamo credervi, senza notare che
non contiene nessun vero impegno.
Se i CEO
avessero voluto essere veramente ‘discontinui’, avrebbero dovuto compiere un
atto coraggioso, dal quale si sono tenuti ben lontani. Avrebbero dovuto
impegnarsi ad un radicale mutamento nella Governance, proponendo che ad
indicare loro strategie ed obiettivi e a definire la loro remunerazioni siano
non solo gli azionisti, ma siano invece, in parti uguali, tutti gli stakeholder
citati nello Statement: azionisti, lavoratori,
clienti e fornitori, e comunità.
Che una
simile via -coinvolgere di tutti gli stakeholder nel governo dell’impresa- sia
praticabile, resta da vedere. Resta da vedere anche se e come sia possibile
costruire meccanismi efficaci, tali per cui la strategia emersa come punto di
incontro tra interessi diversi non sia un compromesso al ribasso.
E comunque,
questa sì sarebbe una storica discontinuità. Non lo è lo Statement dell’agosto scorso. Così come sono stati
proposti, l’“investire nei nostri dipendenti”, il “trattare in modo equo ed
etico con i nostri fornitori”, il “supportare le comunità in cui lavoriamo”
resteranno vaghi indirizzi, che l’azionista potrà in ogni momento decidere di
disattendere.
Un ultimo
commento è doveroso: forse il favore con il quale lo Statement è accolto dipende da questo: fa comodo
pensare che di fronte all’impellente bisogno, da tutti percepito, di business
più ‘sostenibili’, più aperti al futuro, più equi, siano i CEO a farsi carico
del cambiamento. Non è così: un ‘nuovo ordine’ nel business si affermerà solo
se ogni manager ed ogni lavoratore, ed ogni attore sociale contribuiranno
fattivamente, assumendosi responsabilità personali.
Questo
articolo appare come Editoriale sul numero 140, ottobre 2019, di Persone & Conoscenze, rivista che dirigo.
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