Due fra i
più importanti e recenti film che raccontano la guerra hanno
una singolare consonanza nella scelta di mettere il tempo cronologico come
primo e fondamentale elemento del racconto.
DUNKIRK (2017) di Christopher Nolan racconta con una costruzione
spiazzante ciò che accade in una settimana, in un giorno e in un’ora nella
drammatica evacuazione di Dunkerque nel maggio 1940.
1917 (2019) di Sam Mendes descrive
con un unico (apparente) piano sequenza di due ore le vicende accadute il 6
aprile 1917 su fronte francese della Prima guerra mondiale.
Si è spesso
usata la metafora bellica, a proposito della pandemia causata dal Covid 19.
Metafora quasi del tutto impropria, perché una guerra, per quanto evento non
auspicabile, non accade quasi mai da un giorno all’altro. Il Coronavirus,
invece, per quanto già arrivassero notizie allarmanti dalla Cina, si manifesta
all’improvviso un giorno di fine febbraio in Veneto e poi dilaga con la
virulenza che purtroppo ci è ormai familiare.
In questa
situazione, tuttavia, pare che abbia preso il sopravvento la discussione sullo
spazio (i distanziamenti, le separazioni, le cautele di ogni tipo), mentre si
tenga in scarsa considerazione la prioritaria questione dello spazio.
Forse non è
una guerra, ma, come nei due splendidi film citati in apertura, se non
prendiamo seriamente in esame la questione-tempo stiamo probabilmente
apparecchiando una clamorosa ed epocale sconfitta per le realtà dell’educazione.
In un
bellissimo articolo pubblicato su Repubblica domenica 26 luglio Franco
Lorenzoni ricorda che stiamo per celebrare i cinquant’anni del tempo pieno
scolastico, riportandoci alla memoria le prime esperienze torinesi, e auspica e
propone una estensione generalizzata del tempo pieno per le scuole di ogni
ordine e grado.
Auspicio e
proposta del tutto condivisibili e che ciascuno di noi dovrebbe sostenere con
forza e tenacia.
Purtroppo
però i segnali che si stanno raccogliendo in giro per l’Italia sulle modalità
organizzative per la famosa (o famigerata?) “riapertura” di settembre vanno in
una direzione completamente diversa.
Ciò che si
sta proponendo in moltissime scuole italiane è una effettiva riduzione del
tempo scuola. Ore che
con una torsione cronologica che nemmeno Heisenberg o il più lisergico
sceneggiatore degli Avengers avrebbero probabilmente immaginato diventano di
quaranta minuti. Settimane che sembrano gli schemi degli allenatori di calcio,
più vicini a Oronzo Canà che a Pep Guardiola: 3-2 (tre giorni a scuola e due a
casa con la didattica a distanza); 4-1 (quattro giorni a scuola e uno a casa);
3-2-2-3 (metà classe a scuola e metà a casa con la DAD per una settimana, la
settimana successiva chi stava a scuola sta a casa e viceversa) etc.
Non si
tratta, ovviamente, né di sottovalutare un rischio che purtroppo è ancora più
che presente (e non sappiamo fino a quanto), né di irridere gli sforzi che
moltissimi Dirigenti scolastici e amministrazioni comunali, provinciali e
regionali stanno facendo per immaginare una ripartenza quanto più efficace
possibile.
Parafrasando
una bellissima canzone di De Gregori, vorrei dire che “un educatore si vede
dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia”.
Serve cioè
il coraggio (non l’incoscienza) di tutte e di tutti i soggetti inseriti nel
processo educativo: bambini e bambine, ragazze e ragazzi, genitori, insegnanti,
personale non docente, educatori esterni e consulenti.
Serve
l’altruismo: pensare che ad una drammatica situazione come quella che il
l’intero pianeta sta attraversando si possa rispondere con soluzioni
individuali sarebbe un tragico errore.
Serve la
fantasia: immaginare modalità di strutturazione didattica e pedagogica diverse
da quelle pre-Covid (che, diciamoci la verità, non sempre erano ineccepibili).
Pensare ad
una riapertura che, di fatto, dia già per scontato che il tempo-scuola sarà
ridotto, significa pensare ad un prossimo futuro nel quale i nostri figli e le
nostre figlie, i nostri alunni e le nostre alunne avranno, in concreto, minori
opportunità e possibilità di istruzione delle generazioni precedenti.
Certo, non è
possibile generalizzare: i bambini del nido sono diversi da quelli
dell’infanzia, quelli dell’infanzia diversi da quelli della primaria e così
via. Mentre è assai improbabile (per non dire impossibile) pensare a qualche
risultato utile ottenuto con la DAD con bambini di tre o cinque anni, forse per
i ragazzi delle superiori qualcosa di meglio si può raggiungere. Ma anche in
quel caso se le ore sono di quaranta minuti ne risultano, ben che vada, almeno
venti in meno di attività didattica.
Come si farà
a recuperare il tempo al quale già programmaticamente abbiamo rinunciato? Con lo studio individuale? Con
attività di potenziamento? Con precettori ad personam pagati da chi potrà
permetterselo e accettando di perdere, forse definitivamente, tutti coloro che
non potranno?
Non sono
domande a cui è facile rispondere e non è nemmeno facile farlo con
superficialità o ricorrendo a schemi rigidi, preconfezionati, indici di
pigrizia intellettuale e di totale disamore per lo studio e l’approfondimento.
Ma sono
domande alle quali tutti noi adulti siamo chiamati a dar risposta.
Altrimenti,
e la prospettiva sarebbe davvero drammatica, non ci resterà, per raccontare
quel che avrebbe potuto essere della scuola italiana, che ricorrere al titolo di
un altro film di guerra, immortale capolavoro realizzato nel 1937 da Jean
Renoir: La grande illusione.
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