venerdì 21 agosto 2020

La grande illusione - Carlo Ridolfi


Due fra i più importanti e recenti film che raccontano la guerra hanno una singolare consonanza nella scelta di mettere il tempo cronologico come primo e fondamentale elemento del racconto.

DUNKIRK (2017) di Christopher Nolan racconta con una costruzione spiazzante ciò che accade in una settimana, in un giorno e in un’ora nella drammatica evacuazione di Dunkerque nel maggio 1940.

1917 (2019) di Sam Mendes descrive con un unico (apparente) piano sequenza di due ore le vicende accadute il 6 aprile 1917 su fronte francese della Prima guerra mondiale.

Si è spesso usata la metafora bellica, a proposito della pandemia causata dal Covid 19. Metafora quasi del tutto impropria, perché una guerra, per quanto evento non auspicabile, non accade quasi mai da un giorno all’altro. Il Coronavirus, invece, per quanto già arrivassero notizie allarmanti dalla Cina, si manifesta all’improvviso un giorno di fine febbraio in Veneto e poi dilaga con la virulenza che purtroppo ci è ormai familiare.

In questa situazione, tuttavia, pare che abbia preso il sopravvento la discussione sullo spazio (i distanziamenti, le separazioni, le cautele di ogni tipo), mentre si tenga in scarsa considerazione la prioritaria questione dello spazio.

Forse non è una guerra, ma, come nei due splendidi film citati in apertura, se non prendiamo seriamente in esame la questione-tempo stiamo probabilmente apparecchiando una clamorosa ed epocale sconfitta per le realtà dell’educazione.

In un bellissimo articolo pubblicato su Repubblica domenica 26 luglio Franco Lorenzoni ricorda che stiamo per celebrare i cinquant’anni del tempo pieno scolastico, riportandoci alla memoria le prime esperienze torinesi, e auspica e propone una estensione generalizzata del tempo pieno per le scuole di ogni ordine e grado.

Auspicio e proposta del tutto condivisibili e che ciascuno di noi dovrebbe sostenere con forza e tenacia.

Purtroppo però i segnali che si stanno raccogliendo in giro per l’Italia sulle modalità organizzative per la famosa (o famigerata?) “riapertura” di settembre vanno in una direzione completamente diversa.

Ciò che si sta proponendo in moltissime scuole italiane è una effettiva riduzione del tempo scuola. Ore che con una torsione cronologica che nemmeno Heisenberg o il più lisergico sceneggiatore degli Avengers avrebbero probabilmente immaginato diventano di quaranta minuti. Settimane che sembrano gli schemi degli allenatori di calcio, più vicini a Oronzo Canà che a Pep Guardiola: 3-2 (tre giorni a scuola e due a casa con la didattica a distanza); 4-1 (quattro giorni a scuola e uno a casa); 3-2-2-3 (metà classe a scuola e metà a casa con la DAD per una settimana, la settimana successiva chi stava a scuola sta a casa e viceversa) etc.

Non si tratta, ovviamente, né di sottovalutare un rischio che purtroppo è ancora più che presente (e non sappiamo fino a quanto), né di irridere gli sforzi che moltissimi Dirigenti scolastici e amministrazioni comunali, provinciali e regionali stanno facendo per immaginare una ripartenza quanto più efficace possibile.

Parafrasando una bellissima canzone di De Gregori, vorrei dire che “un educatore si vede dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia”.

Serve cioè il coraggio (non l’incoscienza) di tutte e di tutti i soggetti inseriti nel processo educativo: bambini e bambine, ragazze e ragazzi, genitori, insegnanti, personale non docente, educatori esterni e consulenti.

Serve l’altruismo: pensare che ad una drammatica situazione come quella che il l’intero pianeta sta attraversando si possa rispondere con soluzioni individuali sarebbe un tragico errore.

Serve la fantasia: immaginare modalità di strutturazione didattica e pedagogica diverse da quelle pre-Covid (che, diciamoci la verità, non sempre erano ineccepibili).

Pensare ad una riapertura che, di fatto, dia già per scontato che il tempo-scuola sarà ridotto, significa pensare ad un prossimo futuro nel quale i nostri figli e le nostre figlie, i nostri alunni e le nostre alunne avranno, in concreto, minori opportunità e possibilità di istruzione delle generazioni precedenti.

Certo, non è possibile generalizzare: i bambini del nido sono diversi da quelli dell’infanzia, quelli dell’infanzia diversi da quelli della primaria e così via. Mentre è assai improbabile (per non dire impossibile) pensare a qualche risultato utile ottenuto con la DAD con bambini di tre o cinque anni, forse per i ragazzi delle superiori qualcosa di meglio si può raggiungere. Ma anche in quel caso se le ore sono di quaranta minuti ne risultano, ben che vada, almeno venti in meno di attività didattica.

Come si farà a recuperare il tempo al quale già programmaticamente abbiamo rinunciato? Con lo studio individuale? Con attività di potenziamento? Con precettori ad personam pagati da chi potrà permetterselo e accettando di perdere, forse definitivamente, tutti coloro che non potranno?

Non sono domande a cui è facile rispondere e non è nemmeno facile farlo con superficialità o ricorrendo a schemi rigidi, preconfezionati, indici di pigrizia intellettuale e di totale disamore per lo studio e l’approfondimento.

Ma sono domande alle quali tutti noi adulti siamo chiamati a dar risposta.

Altrimenti, e la prospettiva sarebbe davvero drammatica, non ci resterà, per raccontare quel che avrebbe potuto essere della scuola italiana, che ricorrere al titolo di un altro film di guerra, immortale capolavoro realizzato nel 1937 da Jean Renoir: La grande illusione.

da qui

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