Mio padre faceva sempre sventolare una bandiera degli Stati Uniti nel nostro giardino. La vernice azzurra della casa a due piani era perennemente scrostata; la staccionata, la ringhiera delle scale e la porta d’ingresso erano vecchie e rovinate, ma quella bandiera era sempre perfetta. Vivevamo in una casa isolata lungo il fiume, che nella nostra cittadina dell’Iowa divideva la zona dove vivevano i neri da quella dei bianchi. Sul bordo del prato, in cima a un’asta di alluminio, sventolava la bandiera, che mio padre sostituiva appena mostrava anche il minimo strappo.
Era nato da una famiglia di mezzadri in una piantagione bianca di
Greenwood, nel Mississippi, dove i neri stavano piegati sulle piante di cotone
dalle ore ancora buie del mattino alle ore già buie della sera, esattamente
come avevano fatto i loro antenati schiavi fino a non molto tempo prima. Il
Mississippi della giovinezza di mio padre era uno stato dove c’era la
segregazione razziale e dove i neri, che erano quasi la maggioranza della
popolazione, venivano sottomessi con incredibili atti di violenza. I bianchi
del Mississippi linciavano più neri di quelli di qualsiasi altro stato del
paese, e i bianchi della contea di mio padre ne linciavano più di quelli di
qualsiasi altra contea del Mississippi, spesso per “reati” come entrare in una
stanza dove c’erano donne bianche, scontrarsi involontariamente con una ragazza
bianca o cercare di fondare un sindacato. La madre di mio padre, come tutte le
persone nere di Greenwood, non poteva votare né entrare nella biblioteca
pubblica. E non poteva fare un lavoro che non fosse nei campi di cotone o nelle
case dei bianchi. Perciò negli anni quaranta prese i suoi pochi averi e i tre
figli piccoli e si unì alla marea di neri del sud che fuggivano a nord. Scese
dal treno delle ferrovie dell’Illinois a Waterloo, nell’Iowa, solo per rendersi
conto che le speranze su una mitica terra promessa erano un’illusione e per
accorgersi che la segregazione non finiva quando si usciva dal sud.
Trovò una casa in un quartiere della zona est della città abitato solo da
neri. Trovò anche un lavoro, l’unico considerato adatto a una nera, come donna
delle pulizie a casa di una famiglia di bianchi. Anche mio padre cercò invano
la terra promessa. Nel 1962, a 17 anni, si arruolò nell’esercito. Lo fece per
sfuggire alla povertà ma anche per un altro motivo, comune a molti neri:
sperava che, se lo avesse servito, forse un giorno il suo paese lo avrebbe
finalmente trattato come un americano. Non andò così. Nell’esercito gli fu
negata qualsiasi opportunità e le sue ambizioni furono soffocate. Fu congedato
per motivi poco chiari e lavorò a servizio per il resto dei suoi giorni. Come
tutti gli uomini e le donne della mia famiglia, credeva nel duro lavoro, ma
come tutti gli uomini e le donne della mia famiglia non riuscì mai a fare
carriera. Perciò da giovane pensavo che quella bandiera davanti a casa nostra
non avesse senso. Come poteva quell’uomo, che aveva vissuto sulla sua pelle il
razzismo contro i neri, essere fiero della bandiera statunitense? Non capivo il
suo patriottismo. Anzi, mi metteva profondamente in imbarazzo.
A scuola avevo imparato che la bandiera non era veramente nostra, che la
storia del nostro popolo era cominciata con la schiavitù e che noi
afroamericani avevamo contribuito poco al successo di questa grande nazione.
Sembrava che la cosa più vicina all’orgoglio culturale dei neri americani
andasse cercata in un vago legame con l’Africa, un posto dove non eravamo mai
stati. Che mio padre si sentisse onorato di essere americano mi sembrava un
segno della sua umiliazione, della sua accettazione del fatto che eravamo
subordinati.
Come molti giovani, pensavo di capire tutto, mentre in realtà capivo molto
poco. Quando alzava la bandiera mio padre sapeva esattamente quello che faceva.
Sapeva che il contributo del nostro popolo alla costruzione del paese più ricco
e più potente del mondo era indelebile, che gli Stati Uniti senza di noi
semplicemente non sarebbero esistiti.
Le fortune dei bianchi
Nell’agosto del 1619, appena dodici anni dopo che gli inglesi si erano
insediati a
Jamestown, in Virginia, un anno prima che i pellegrini puritani sbarcassero a
Plymouth Rock e circa 157 anni prima che i coloni inglesi decidessero di
fondare un loro paese rompendo i legami con la corona britannica, gli abitanti
di Jamestown comprarono una trentina di schiavi africani dai pirati inglesi. I
pirati li avevano rubati da una nave portoghese che li aveva trascinati via con
la forza da quello che oggi è l’Angola. Gli uomini e le donne che scesero a
terra in quel mese di agosto segnarono l’inizio della schiavitù americana.
Erano i primi dei 12,5 milioni di africani che furono rapiti e trasportati in
catene dall’altra parte dell’oceano Atlantico nella più grande migrazione
forzata di massa della storia prima della seconda guerra mondiale. Quasi due
milioni di persone morirono durante quel viaggio estenuante.
Gli africani venduti agli Stati Uniti prima dell’abolizione della tratta
internazionale degli schiavi furono 400mila. Quelle persone e i loro
discendenti trasformarono le terre su cui erano stati trascinati con la forza
nelle colonie più ricche dell’impero britannico. Si spezzarono la schiena per
disboscare tutta la regione del sudest. Insegnarono ai coloni a piantare il
riso. Coltivarono e raccolsero il cotone che al culmine dello schiavismo era la
merce più preziosa del paese, visto che in quel periodo gli Stati Uniti
producevano il 66 per cento del cotone mondiale. Crearono le piantagioni dei
padri fondatori degli Stati Uniti, tra cui George Washington, Thomas Jefferson
e James Madison: enormi tenute che oggi attirano migliaia di visitatori
affascinati dalla storia della più grande democrazia del mondo. Gettarono le
fondamenta della Casa Bianca e del palazzo del congresso. Posarono le pesanti
rotaie delle ferrovie che attraversavano il sud e trasportavano il cotone fino
alle fabbriche tessili del nord, alimentando la rivoluzione industriale.
Costruirono vaste fortune per i bianchi del nord e del sud, tanto che a un
certo punto il secondo uomo più ricco del paese era un mercante di schiavi del
Rhode Island. I profitti del lavoro rubato ai neri aiutarono il paese appena
nato a pagare i suoi debiti di guerra e finanziarono alcune delle sue
università più prestigiose. Lo schiavismo fece prosperare il settore bancario,
assicurativo e commerciale di Wall street e trasformò New York nella capitale
della finanza mondiale.
Gli Stati Uniti sono un paese fondato su un ideale e
al tempo stesso su una menzogna
Ma sarebbe sbagliato parlare solo del contributo materiale dei neri per
creare ricchezza. Gli americani neri sono stati, e continuano a essere,
fondamentali per l’idea di libertà del paese. Più di qualsiasi altro gruppo di
persone, noi neri abbiamo svolto, generazione dopo generazione, un ruolo
sottovalutato ma fondamentale: siamo stati noi a perfezionare la democrazia
statunitense.
Gli Stati Uniti sono un paese fondato su un ideale e al tempo stesso su una
menzogna. La dichiarazione d’indipendenza dalla corona britannica, ratificata
il 4 luglio del 1776, afferma che “tutti gli uomini sono creati uguali” e
“dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili”. Ma gli uomini
bianchi che hanno scritto queste parole non credevano che valessero anche per
le centinaia di migliaia di neri che all’epoca costituivano un quinto della
popolazione.
Eppure, anche se gli venivano negate libertà e giustizia, i neri avevano
una fede cieca nel credo americano. Resistendo e protestando abbiamo aiutato il
paese a essere all’altezza degli ideali su cui era stato fondato. E non lo
abbiamo fatto solo per noi: le lotte per i diritti dei neri hanno aperto la
strada alle lotte per altri diritti, compresi quelli delle donne, degli
omosessuali, degli immigrati e dei disabili. Senza l’impegno coraggioso,
idealistico e patriottico degli americani neri, molto probabilmente oggi gli
Stati Uniti sarebbero una democrazia diversa, forse non sarebbero neanche una
democrazia.
La prima persona a morire per questo paese durante la rivoluzione americana
fu un nero che non era libero. Crispus Attucks era uno schiavo fuggiasco, ma
diede la vita per una nazione che nel secolo seguente avrebbe negato la libertà
al suo popolo. I neri sono stati in prima linea in tutte le guerre combattute
dagli Stati Uniti, e oggi sono il gruppo più presente nell’esercito
statunitense.
Mio padre, uno dei tanti neri che risposero alla chiamata del loro paese,
sapeva una cosa che io avrei impiegato anni a capire: che per la storia
americana il 1619 è importante quanto il 1776; che i neri americani sono i
“padri fondatori” quanto lo sono gli uomini ritratti nelle statue a Washington.
E che nessuno ha più diritto di noi a rivendicare quella bandiera.
Ereditabile e permanente
Nel giugno del 1776 Thomas Jefferson si sedette al suo scrittorio portatile in
una stanza di Filadelfia e annotò queste parole: “Noi riteniamo che siano per
se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che
essi sono dal creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi
diritti sono la vita, la libertà, e il perseguimento della felicità”. Da 243
anni questa fiera affermazione del diritto naturale e fondamentale degli esseri
umani alla libertà e all’autogoverno definisce la nostra fama nel mondo come
terra della libertà. Ma mentre Jefferson scriveva quelle parole, un ragazzo che
non avrebbe goduto di nessuno di quei diritti aspettava accanto a lui gli
ordini del padrone. Si chiamava Robert Hemings, ed era il fratellastro di
Martha Jefferson, la moglie del politico americano. Il padre di Martha
Jefferson aveva avuto Hemings da una donna nera di sua proprietà. Succedeva
spesso che i padroni bianchi tenessero come schiavi i loro figli mulatti.
Jefferson aveva scelto Hemings, uno dei circa 130 schiavi impiegati nel campo
di lavoro forzato che chiamava Monticello, perché lo accompagnasse a Filadelfia
e gli garantisse tutte le comodità mentre stilava il testo che segnava la
nascita di una nuova repubblica democratica.
All’epoca un quinto della popolazione delle 13 colonie era vittima del più
brutale sistema di schiavismo che fosse mai esistito. La schiavitù era legata
esclusivamente all’appartenenza razziale. Non era temporanea ma ereditabile e
permanente, nel senso che generazioni di neri nascevano schiavi e trasmettevano
questa condizione ai loro discendenti. Gli schiavi non erano considerati esseri
umani ma proprietà che potevano essere ipotecate, scambiate, comprate e
vendute, usate come garanzia, regalate ed eliminate in modo violento.
Gli schiavi non potevano sposarsi legalmente. Non potevano imparare a
leggere né riunirsi in privato. Non avevano nessun diritto sui loro figli, che
potevano essere comprati e venduti alle aste insieme ai mobili e al bestiame o
nei negozi con la scritta “negri in vendita”. Gli schiavisti e i tribunali non
riconoscevano i legami di parentela di madri, fratelli, cugini. Nella maggior
parte dei tribunali gli schiavi non godevano di nessun diritto. I padroni
potevano violentare o assassinare le loro proprietà senza subire conseguenze.
Gli schiavi non potevano possedere né ereditare niente. La tortura era
legalizzata, anche nella tenuta di Jefferson. Spesso gli schiavi morivano per
il troppo lavoro, per garantire il massimo profitto ai padroni.
Costituzione ipocrita
Dalla mitologia fondante degli Stati Uniti è stato opportunemente cancellato il
fatto che i coloni decisero di dichiarare l’indipendenza dalla Gran Bretagna
anche e soprattutto perché volevano proteggere l’istituto della schiavitù. Nel
1776 la Gran Bretagna aveva ormai un rapporto profondamente conflittuale con il
ruolo che aveva svolto nella nascita di quella pratica barbarica. A Londra in
molti ne chiedevano l’abolizione. Se quelle proposte fossero state accolte
l’economia delle colonie americane, sia al nord sia al sud, ne avrebbe
risentito enormemente. La ricchezza che permise a Jefferson – che all’epoca
della dichiarazione d’indipendenza aveva solo 33 anni – e agli altri padri
fondatori di credere di poter uscire da uno dei più potenti imperi del mondo
derivava proprio dai profitti generati dallo schiavismo. In altre parole, forse
i coloni non si sarebbero mai ribellati alla madrepatria se non avessero capito
che era proprio la schiavitù a consentirglielo; e non lo avrebbero fatto se non
fossero stati convinti che l’indipendenza era necessaria per garantire che la
schiavitù continuasse. Non è un caso se dieci dei primi dodici presidenti degli
Stati Uniti erano proprietari di schiavi.
Nella versione finale della dichiarazione d’indipendenza non si fanno cenni
alla schiavitù. E undici anni dopo, quando arrivò il momento di scrivere la
costituzione, i suoi autori elaborarono con cura un documento che preservava e
difendeva la schiavitù senza neanche nominarla.
La costituzione degli Stati Uniti si occupa direttamente della schiavitù in
sei punti, come ha spiegato lo storico David Waldstreicher, mentre in altri
cinque ne parla indirettamente. Il testo proteggeva le “proprietà” degli
schiavisti, vietava al governo federale d’intervenire per mettere fine
all’importazione di schiavi africani per un periodo di vent’anni, consentiva al
congresso di mobilitare le milizie per sedare le rivolte degli schiavi e
costringeva gli stati dove la schiavitù era illegale a consegnare le persone
fuggite dagli stati schiavisti. Lo scrittore e abolizionista Samuel Bryan
denunciò l’inganno contenuto nella costituzione dicendo: “Le sue parole sono
oscure e ambigue, tanto che nessun uomo semplice e di buon senso le avrebbe mai
usate, e sono chiaramente state scelte per nascondere all’Europa che in questo
paese illuminato la pratica dello schiavismo ha i suoi sostenitori anche tra
gli uomini che ricoprono le più alte cariche di potere”.
Secondo molti studiosi, il paradosso di continuare il traffico di schiavi
in un paese fondato sulla libertà individuale portò a un irrigidimento del
sistema delle caste basato sull’appartenenza razziale. Questa ideologia,
rafforzata non solo dalle leggi ma dalla scienza e dalla letteratura razziste,
sosteneva che i neri erano subumani, permettendo agli americani bianchi di
continuare a vivere nella menzogna. Secondo gli storici Leland Ware, Robert Cottrol
e Raymond Diamond, gli americani bianchi, che fossero o meno coinvolti nello
schiavismo, “investivano psicologicamente ed economicamente sulla dottrina
dell’inferiorità dei neri”. Mentre la libertà era un diritto inalienabile delle
persone considerate bianche, la schiavitù e l’assoggettamento erano la
condizione naturale delle persone che avevano anche una sola goccia di sangue
“nero”.
La legalità di questo concetto fu sancita dalla corte suprema nel 1857: i
giudici del massimo organo della giustizia statunitense decretarono che i neri,
sia gli schiavi sia le persone libere, discendevano da una razza “schiava”.
Questo li rendeva inferiori ai bianchi e, di conseguenza, incompatibili con la
democrazia statunitense. Questa teoria legittimò il razzismo endemico che gli
Stati Uniti non sono ancora riusciti a estirpare. Se i neri non potevano mai
diventare dei cittadini, se erano una casta separata da tutti gli altri esseri
umani, non avevano bisogno dei diritti sanciti dalla costituzione, e così quel
“noi” contenuto nella frase “noi il popolo” non era una bugia.
La soluzione di Lincoln
Il 14 agosto del 1862, solo cinque anni dopo la sentenza della corte suprema,
il presidente Abraham Lincoln organizzò alla Casa Bianca un incontro con cinque
stimati uomini liberi neri. Non succedeva spesso che dei neri entrassero nella
residenza del presidente. La guerra civile tra il nord e il sud infuriava da
più di un anno e gli abolizionisti neri, che facevano sempre più pressione su
Lincoln perché abolisse la schiavitù, dovevano essere emozionati e orgogliosi
per quell’invito.
La guerra non stava andando bene per Lincoln. La Gran Bretagna stava
valutando la possibilità di intervenire al fianco della confederazione sudista,
e Lincoln, che non riusciva a trovare abbastanza volontari bianchi da mandare a
combattere, fu costretto a prendere in considerazione l’idea di arruolare
americani neri tra le file dell’esercito nordista. Al momento della riunione
con i leader neri Lincoln stava pensando a un proclama che emancipasse tutti
gli schiavi negli stati che si erano staccati dall’unione se non si fossero
arresi. Il proclama avrebbe anche permesso agli ex schiavi di arruolarsi
nell’esercito dell’unione e di combattere contro i loro ex “padroni”. Ma
Lincoln era preoccupato per le conseguenze di una decisione così radicale. Come
molti americani bianchi era contrario alla schiavitù, che considerava un
sistema crudele in contrasto con gli ideali americani, ma era anche contrario a
riconoscere l’uguaglianza dei neri. Pensava che i neri liberi fossero una
“presenza problematica” incompatibile con una democrazia destinata solo ai
bianchi. Quattro anni prima aveva detto: “Liberarli e renderli politicamente e
socialmente nostri pari? Questo i miei sentimenti non lo accettano, e anche se
lo facessero, sappiamo bene che la grande maggioranza dei bianchi non lo
accetterebbe”.
In quel giorno di agosto, quando arrivarono alla Casa Bianca, i cinque neri
furono accolti dalla figura imponente di Lincoln e da James Mitchell, che otto
giorni prima era stato nominato dal presidente commissario per l’emigrazione,
una posizione appena creata nell’amministrazione. Dopo un breve scambio di
convenevoli, Lincoln andò subito al punto e informò i suoi ospiti di aver
convinto il congresso a stanziare i fondi per mandare via i neri dagli Stati
Uniti una volta liberati.
“Perché i neri dovrebbero lasciare questo paese? Questa è forse la prima
questione su cui ragionare”, disse Lincoln. “Perché voi e noi apparteniamo a
razze diverse. La vostra razza ha molto sofferto vivendo tra noi, mentre la
nostra soffre per la vostra presenza. In poche parole, tutti soffriamo”.
Potete immaginare il silenzio che cadde in quella stanza, mentre il peso di
quello che il presidente aveva detto toglieva momentaneamente il respiro a quei
cinque uomini neri. Erano passati esattamente 243 anni da quando i loro primi
antenati erano sbarcati su quelle spiagge, prima della famiglia di Lincoln e
molto prima della maggior parte dei bianchi che insistevano nel sostenere che i
neri non potevano vivere in quel paese. L’unione non era scesa in guerra per
mettere fine alla schiavitù ma per impedire che il sud si separasse, eppure
molti neri si erano arruolati. Gli schiavi fuggivano dai loro campi di lavoro
forzato – che ancora oggi chiamiamo piantagioni – e cercavano di unirsi ai
combattimenti, servivano come spie, sabotavano i confederati, imbracciavano le
armi per difendere la loro causa e quella dell’unità della nazione. E ora
Lincoln li accusava di essere responsabili della guerra. “Anche se a molti
uomini impegnati da entrambe le parti non importa nulla di voi, senza
l’istituto della schiavitù e la razza nera, la guerra non sarebbe scoppiata”,
disse il presidente. “È meglio per tutti, quindi, se ci separiamo”.
Quando Lincoln ebbe finito di parlare, Edward Thomas, che guidava la
delegazione, lo informò, forse in modo un po’ brusco, che intendevano
consultarsi sulla sua proposta. “Prendetevi tutto il tempo che volete”, disse
Lincoln. “Non c’è nessuna fretta”.
Gli anni della speranza
Circa tre anni dopo quell’incontro, il generale Robert E. Lee, comandante delle
truppe confederate, si arrese all’esercito nordista. All’improvviso quattro
milioni di neri americani stavano per diventare liberi. E, contrariamente a
quello che pensava Lincoln, la maggior parte di loro non aveva nessuna
intenzione di andarsene, in linea con una risoluzione presentata a un convegno
di leader neri a New York decine di anni prima: “Questa è la nostra patria e il
nostro paese. Sotto la sua terra giacciono le ossa dei nostri padri. Qui siamo
nati e qui moriremo”.
Il fatto che gli ex schiavi si rifiutassero di lasciare il paese è una
sorprendente dimostrazione della loro fedeltà agli ideali fondanti degli Stati
Uniti. Come scrisse lo storico nero W.E.B. Du Bois: “Pochi uomini hanno
venerato la libertà come hanno fatto i neri americani per due secoli”. I neri
invocavano da tempo l’uguaglianza ed erano convinti, come scrisse
l’abolizionista Martin Delany, che “Dio ha dato lo stesso sangue a tutti i
popoli che vivono sulla faccia della terra”. Così, finita la guerra, non
volevano vendicarsi dei loro oppressori, come temevano Lincoln e tanti altri
americani bianchi. Al contrario, tra il 1865 e il 1877 (il periodo successivo
alla guerra conosciuto come “ricostruzione”) gli ex schiavi s’impegnarono per
migliorare il processo democratico.
La maggiore conquista dei neri fu la creazione di un
sistema d’istruzione pubblico
Mentre le truppe federali cercavano di arginare la violenza dei bianchi, i
neri del sud aprirono sedi della Equal rights league – una delle prime
organizzazioni del paese per la difesa dei diritti umani – per combattere le
discriminazioni e mobilitare gli elettori. Andarono in massa alle urne,
riuscendo a eleggere degli ex schiavi nei seggi che erano stati dei loro
padroni. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, il sud cominciò a
somigliare a una democrazia, con i neri che ricoprivano cariche politiche a
livello locale, statale e federale. Al congresso ne arrivarono sedici, tra cui
Hiram Revels del Mississippi. Più di seicento neri entrarono nei parlamenti
degli stati del sud e centinaia ricoprirono incarichi a livello locale.
Questi deputati neri si unirono ai repubblicani bianchi, alcuni dei quali
venivano dal nord, per scrivere le costituzioni statali più ugualitarie che il
sud avesse mai avuto. Contribuirono all’approvazione di norme fiscali più eque
e di leggi che proibivano qualsiasi discriminazione sui trasporti pubblici e
nel mercato immobiliare. La loro maggiore conquista fu la creazione della più
democratica delle istituzioni statunitensi: la scuola pubblica.
Invenzione geniale
Prima della ricostruzione, nel sud del paese non esisteva una vera scuola
pubblica. I bianchi ricchi mandavano i figli nelle scuole private, mentre i
bambini bianchi di famiglia povera non potevano studiare. Ma i neri appena
liberati, che fino a quel momento non avevano potuto imparare a leggere e a
scrivere, avevano un disperato desiderio di istruzione. Perciò i politici neri
riuscirono a far approvare leggi che crearono un sistema scolastico finanziato
dallo stato e destinato a tutti, non solo ai loro figli. I deputati neri
contribuirono anche all’approvazione delle prime leggi sull’istruzione
obbligatoria nella regione. I bambini del sud, bianchi o neri che fossero,
furono obbligati ad andare a scuola come i loro fratelli del nord.
Appena cinque anni dopo l’inizio della ricostruzione, tutti gli stati del
sud avevano inserito nelle loro costituzioni il diritto all’istruzione pubblica
per tutti i bambini. In alcuni stati, come la Louisiana e la South Carolina,
per un breve periodo un piccolo numero di bambini bianchi e neri andò a scuola
insieme.
Negli anni immediatamente successivi all’abolizione della schiavitù, negli
Stati Uniti ci fu la più grande espansione dei diritti umani e civili che il
paese abbia mai vissuto. Nel 1865 il congresso approvò il tredicesimo
emendamento, che faceva degli Stati Uniti uno degli ultimi paesi del continente
a dichiarare fuorilegge la schiavitù. L’anno successivo, esercitando il loro
nuovo potere, i neri spinsero i politici bianchi ad approvare il Civil rights
act, la più importante legge sui diritti civili che il congresso abbia mai introdotto.
Stabiliva per la prima volta il diritto di cittadinanza per i neri americani,
vietava le discriminazioni nell’affitto delle case e dava a tutti gli americani
il diritto di acquistare ed ereditare beni, stipulare contratti e ricorrere ai
tribunali se non erano rispettati.
Nel 1868 il congresso ratificò il quattordicesimo emendamento, che
garantiva la cittadinanza a chiunque fosse nato negli Stati Uniti. Oggi, grazie
a quel provvedimento, la costituzione garantisce automaticamente la
cittadinanza e gli stessi diritti giuridici a tutti i bambini nati negli Stati
Uniti da immigrati europei, asiatici, latinoamericani o mediorientali. Da
allora quasi tutti gli altri gruppi emarginati hanno invocato quell’emendamento
nelle loro lotte per la parità (per esempio nel dibattito alla corte suprema
sui matrimoni tra persone dello stesso sesso). Infine, nel 1870 il congresso
approvò il quindicesimo emendamento, che concedeva il diritto di voto a tutti
gli uomini a prescindere da “razza, colore o precedente condizione di servitù”.
Durante il breve periodo della ricostruzione la maggioranza del congresso
sembrò abbracciare l’idea che dalle ceneri della guerra civile potesse nascere
la democrazia multirazziale che gli americani neri avevano immaginato.
Ma non durò a lungo.
Il razzismo nei confronti dei neri scorre nel dna di questo paese, come la
convinzione, ben espressa da Lincoln nell’ottocento, che i neri costituiscano
un ostacolo all’unità nazionale. I bianchi del sud reagirono alle molte
conquiste di quel periodo con una resistenza feroce: violenze inimmaginabili
nei confronti degli ex schiavi, repressioni su vasta scala degli elettori,
brogli elettorali e perfino, in alcuni casi estremi, il rovesciamento di
governi democraticamente eletti. Di fronte a queste azioni, il governo federale
decise che la causa del problema erano i neri, e che la soluzione migliore per
preservare l’unità nazionale fosse lasciare che i bianchi del sud facessero
quello che volevano. Nel 1877, per raggiungere un compromesso con i democratici
del sud che gli avrebbe garantito la vittoria in un’elezione contestata, il
presidente Rutherford B. Hayes accettò di ritirare le truppe federali dal sud.
Una volta andati via i soldati, i bianchi cominciarono subito a cancellare le
conquiste della ricostruzione. La sistematica repressione dei neri fu così
pesante che quel periodo, tra gli anni ottanta dell’ottocento e gli anni venti
e trenta del novecento, fu chiamato il Grande nadir, o la seconda schiavitù. Al
sud la democrazia non sarebbe tornata per quasi un secolo.
Mentre riportavano i neri in condizioni di quasi schiavitù, i bianchi del
sud di tutte le classi sociali videro migliorare notevolmente le loro
condizioni di vita, anche grazie alle leggi e alle politiche progressiste
volute dai neri. Come ha detto una volta Waters McIntosh, ex schiavo e leader
del movimento per i diritti civili: “Furono i bianchi poveri a essere liberati
dalla guerra civile, non i neri”.
Ritorno doloroso
I pini della Georgia scorrevano veloci fuori dai finestrini dell’autobus
Greyhound che riportava Isaac Woodard a Winnsboro, in South Carolina. Dopo aver
servito per quattro anni nell’esercito durante la seconda guerra mondiale, dove
si era guadagnato una medaglia, era stato congedato con onore e stava tornando
a casa per rivedere la moglie. Quando l’autobus si fermò davanti a un negozio a
un’ora da Atlanta, Woodard ebbe una breve discussione con l’autista bianco a
cui aveva chiesto se poteva andare in bagno. Circa mezz’ora dopo, l’autista si
fermò di nuovo e gli disse di scendere dall’autobus. Quando scese, Woodard, che
era ancora in uniforme, trovò la polizia ad aspettarlo. Prima che potesse
parlare, uno degli agenti lo colpì alla testa con uno sfollagente, così forte
da fargli perdere coscienza. I colpi erano stati talmente violenti che il
giorno dopo, quando si svegliò in prigione, non vedeva più. Il pestaggio era
avvenuto solo quattro ore e mezzo dopo il suo congedo. Woodard aveva 26 anni, e
non avrebbe mai recuperato la vista.
La sua non era una storia insolita. Faceva parte dell’ondata di violenza
contro i neri cominciata dopo la ricostruzione sia al nord sia al sud. Mentre
lo spirito ugualitario del dopoguerra veniva cancellato dal desiderio di
riunificazione nazionale, con la loro semplice esistenza i neri americani ricordavano
al paese i suoi fallimenti. I bianchi reagirono a questo disagio creando un
sistema di apartheid razziale imposto con
la violenza che escludeva quasi completamente i neri dalla vita del paese, un
sistema così grottesco che in seguito la Germania nazista ne avrebbe tratto
ispirazione per le sue politiche razziste.
Nel 1896 la corte suprema affermò che la segregazione razziale dei neri non
era incostituzionale, nonostante il quattordicesimo emendamento. Con la
benedizione del più alto tribunale del paese e nessuna volontà da parte del
governo federale di rivendicare i diritti dei neri, a partire dalla fine
dell’ottocento gli stati del sud approvarono una serie di leggi e di decreti
che rendevano permanente il sistema delle caste del periodo schiavista, negando
ai neri i diritti politici, l’uguaglianza sociale e la più elementare dignità.
Introdussero test di alfabetismo per impedire ai neri di votare e istituirono
primarie per le elezioni a cui potevano partecipare solo i bianchi. I neri non
potevano far parte delle giurie e testimoniare in tribunale contro i bianchi.
In South Carolina le fabbriche tessili avevano porte separate per bianchi e
neri. L’Oklahoma costrinse le società telefoniche a creare cabine separate. A
Baltimora fu approvata un’ordinanza che vietava ai neri di trasferirsi in un
isolato abitato per più della metà da bianchi e ai bianchi di trasferirsi in un
isolato abitato per più della metà da neri. In Georgia diventò illegale
seppellire i bianchi e i neri gli uni accanto agli altri. L’Alabama vietò ai
neri di usare le biblioteche pubbliche finanziate con le loro tasse. Nel nord i
politici bianchi approvarono leggi che segregavano i neri in quartieri
degradati e in scuole solo per loro; c’erano piscine pubbliche solo per i
bianchi, nelle fiere di paese c’erano le giornate per “la gente di colore”, e
c’erano negozi che si rifiutavano regolarmente di servire i neri. La California
si unì agli stati del sud vietando i matrimoni misti, mentre l’Illinois e il
New Jersey imposero scuole separate.
Il secondo sforzo
Nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale il razzismo aumentò
perché i bianchi capirono che se i neri fossero andati all’estero e avessero
visto come si viveva fuori dalla soffocante atmosfera di repressione razziale
degli Stati Uniti, difficilmente avrebbero accettato di farsi sottomettere una
volta tornati a casa. Durante la prima guerra mondiale James K. Vardaman,
senatore del Mississippi, disse che i soldati neri che tornavano al sud
avrebbero “inevitabilmente provocato una catastrofe”.
Molti americani bianchi vedevano i neri in uniforme non come patrioti ma
come persone che esibivano un pericoloso orgoglio. Centinaia di reduci neri
furono picchiati, mutilati, aggrediti con le armi e linciati. All’apice di quel
periodo di terrorismo razziale, i neri americani non venivano solo uccisi ma
castrati, bruciati vivi, smembrati, con parti del loro corpo messe in mostra
davanti ai negozi. Questa violenza aveva lo scopo di terrorizzarli e
controllarli, ma forse, cosa altrettanto importante, era un balsamo per la
supremazia bianca. Nessuno avrebbe mai trattato così un essere umano. L’eccesso
di violenza era un sintomo del meccanismo psicologico necessario per assolvere
gli americani bianchi dal peccato originale del loro paese. Per rispondere a
chi chiedeva come potevano apprezzare tanto la libertà all’estero e
contemporaneamente negare la libertà a un’intera comunità a casa loro, gli
americani bianchi risuscitarono l’ideologia razzista che Jefferson e gli autori
della costituzione avevano usato per fondare il paese.
L’ideologia secondo cui i neri appartenevano a una razza inferiore non era
scomparsa una volta abolita la schiavitù. Se gli ex schiavi e i loro
discendenti avessero studiato, se avessero dimostrato di saper fare anche i lavori
dei bianchi o di eccellere nelle scienze e nelle arti, l’esistenza della
schiavitù non sarebbe più stata giustificata. I neri liberi erano una minaccia
per l’idea che il paese aveva di se stesso, sollevavano uno specchio in cui gli
altri americani non volevano guardarsi. Così la disumanità nei confronti dei
neri praticata da tutte le generazioni di bianchi giustificava la disumanità
del passato.
Abbiamo visto il peggio dell’America, eppure ancora crediamo nella sua
parte migliore
Proprio come temevano gli americani bianchi, la seconda guerra mondiale fu
la miccia che diede vita al secondo sforzo dei neri per creare una vera
democrazia. Il pestaggio di Woodard è considerato una delle scintille della
decennale ribellione che oggi chiamiamo movimento per i diritti civili. Ma è
utile ricordare che quello fu il secondo movimento di massa per i diritti
civili dei neri. Mentre si avvicinava il centenario dell’abolizione della
schiavitù, i neri stavano ancora cercando di ottenere i diritti per i quali
avevano combattuto e che avevano momentaneamente conquistato dopo la guerra
civile: il diritto a essere trattati in modo giusto dalle istituzioni
pubbliche, che era stato garantito nel 1866 dal Civil righs act; il diritto a
essere considerati cittadini a pieno titolo davanti alla legge, che era stato
sancito nel 1868 dal quattordicesimo emendamento; e il diritto di voto,
introdotto nel 1870 con il quindicesimo emendamento. I bianchi risposero alle
rivendicazioni dei neri impiccandoli agli alberi, massacrandoli e gettando i
loro corpi nei fiumi, assassinandoli davanti alle loro case, facendoli saltare
in aria con le bombe sugli autobus e nelle chiese, attaccandoli con i cani e
bruciandoli con i lanciafiamme.
Un unico popolo
Nella maggior parte dei casi i neri combattevano da soli. Ma non combattevano
mai solo per se stessi. Le sanguinose lotte per la libertà del movimento per i
diritti civili dei neri gettarono le basi di tutte le altre lotte per i diritti
civili dell’era moderna. I fondatori bianchi degli Stati Uniti avevano stilato
una costituzione non democratica che emarginava le donne, i nativi americani e
i neri, e non avevano garantito il voto e l’uguaglianza a tutti gli americani.
Le leggi nate dalla resistenza dei neri hanno invece liberato tutti e vietato
qualsiasi discriminazione basata non solo sul colore della pelle ma anche sul
sesso, sulla nazionalità, sulla religione e sulle abilità. È stato il movimento
per i diritti civili, nel 1965, a portare all’approvazione dell’Immigration and
nationality act, che modificò il sistema delle quote per gli immigrati, un
sistema pensato per mantenere bianco il paese. Grazie agli americani neri, oggi
gli immigrati di ogni colore provenienti da tutto il mondo possono entrare
negli Stati Uniti e vivere in un paese dove le discriminazioni non sono
consentite dalla legge.
Nessuno apprezza la libertà più di chi non l’ha avuta. E ancora oggi gli
americani neri abbracciano gli ideali democratici del bene comune più di
qualsiasi altro segmento della popolazione. Secondo i sondaggi, i neri sono i
più favorevoli all’assistenza sanitaria per tutti e all’aumento del salario
minimo, e sono i più contrari alle misure che danneggiano i più deboli. Un
esempio: i neri sono i più colpiti dai crimini violenti, ma sono contrari alla
pena di morte; il tasso di disoccupazione tra i neri è quasi il doppio rispetto
a quello dei bianchi, ma i neri sono i più favorevoli ad accogliere i
rifugiati.
La verità è che tutta la democrazia di cui il paese gode è il frutto della
resistenza dei neri. Probabilmente i nostri padri fondatori non credevano
veramente negli ideali che avevano sposato, ma i neri sì. Per dirla con il
sociologo Joe R. Feagin: “Gli schiavi afroamericani sono stati i più grandi
combattenti per la libertà che questo paese abbia mai prodotto”. Per
generazioni, noi neri abbiamo dato a questo paese una fiducia che non meritava.
Abbiamo visto il peggio dell’America, eppure ancora crediamo nella sua parte
migliore.
Il potere dei nomi
Si dice che il nostro popolo sia nato sull’acqua.
Nessuno sa per certo quando è successo. Forse è stato durante la seconda
settimana, o la terza, ma sicuramente prima della quarta, quando quegli uomini
e quelle donne non vedevano la loro terra né nessun’altra terra da così tanti
giorni da aver perso il conto. È stato dopo che la paura si era trasformata in
disperazione, la disperazione in rassegnazione e la rassegnazione in profonda
comprensione. L’azzurra infinità dell’oceano Atlantico li aveva separati così
completamente da quella che un tempo era stata la loro casa che era come se
nulla fosse mai esistito prima, come se tutte le cose e le persone che amavano
fossero semplicemente sparite dall’universo. Non erano più mbundu, akan o
fulani. Quegli uomini e quelle donne di tanti paesi diversi, tutti incatenati
insieme nella soffocante chiglia della nave, erano diventati un unico popolo.
Solo qualche mese prima avevano famiglie, fattorie, vite e sogni. Erano
liberi. Avevano anche un nome, naturalmente, ma i loro padroni non si erano
presi la briga di registrarlo. Erano stati resi neri dalle persone che
credevano di essere bianche. Nel posto dove erano diretti, nero equivaleva a
“schiavo” e lo schiavismo richiedeva che degli esseri umani fossero trasformati
in proprietà, privati di qualsiasi elemento di individualità. Questo processo
si chiamava seasoning: le persone portate via
dall’Africa occidentale e centrale erano costrette, spesso con la tortura, a
smettere di parlare la loro lingua madre e di praticare la loro religione
d’origine.
Per quanto i bianchi fingessero di crederlo, i neri non erano oggetti. E
perciò quel processo di adattamento forzato, invece di cancellare la loro
identità, otteneva l’effetto contrario. Nel vuoto, abbiamo creato una nuova
cultura tutta nostra.
Oggi anche il nostro modo di parlare ricorda le lingue creole inventate
dagli schiavi per poter comunicare sia con gli africani che parlavano vari
dialetti sia con gli inglesi che li avevano schiavizzati. Il nostro modo di
vestire, quel pizzico di stile in più, nasce dal desiderio degli schiavi,
privati di qualsiasi individualità, di affermare la propria identità. Oggi le
nostre pettinature e la nostra moda all’avanguardia sono la conseguenza della volontà
degli schiavi di sentirsi pienamente umani esprimendo se stessi.
L’improvvisazione tipica dell’arte e della musica nere nasce da una cultura
che, sentendosi esclusa, non poteva aggrapparsi alle convenzioni. Perfino i
nostri nomi, spesso contestati, sono atti di resistenza. I nostri cognomi
appartengono ai bianchi che un tempo ci possedevano. Questo è il motivo per cui
tanti americani neri, soprattutto i più emarginati, continuano a dare ai loro
figli nomi di fantasia che non vengono né dall’Europa né dall’Africa, dove non
siamo mai stati. Anche questo è un atto di autodeterminazione. Quando il mondo
ascolta la tipica musica americana, sente la nostra voce. I tristi canti che
intonavamo nei campi per lenire il nostro dolore fisico e sperare in una libertà
che non ci aspettavamo di conoscere prima della morte sono diventati il gospel
americano. Tra la violenza devastante e la povertà del delta del Mississippi
abbiamo dato vita al jazz e al blues. Ed è stato nei quartieri impoveriti dove
erano costretti a vivere i discendenti degli schiavi che adolescenti troppo
poveri per comprarsi uno strumento hanno cominciato a usare vecchi dischi per
creare la nuova musica chiamata hip-hop.
Il nostro modo di parlare e di vestire e il suono della nostra musica
evocano l’Africa ma non sono africani. Nel nostro isolamento unico, sia dalle
nostre culture d’origine sia dall’America bianca, abbiamo creato la cultura più
originale e significativa di questo paese. Da parte sua, la società “dominante”
ha invidiato il nostro stile, il nostro slang, la nostra musica, e ha cercato
di appropriarsi dell’unica vera cultura americana. Come scriveva Langston
Hughes nel 1926: “Vedranno quanto sono bello / e si vergogneranno / anch’io
sono l’America”.
Su queste terre
Per secoli gli americani bianchi hanno cercato di risolvere “il problema dei
neri”, dedicando migliaia di pagine a questa impresa. Succede ancora oggi che
si parli del tasso di povertà dei neri, delle gravidanze fuori dal matrimonio,
della criminalità e del basso numero di neri iscritti all’università, come se
in un paese costruito su un sistema di caste questi fenomeni non fossero
prevedibili. Ma non si possono leggere queste statistiche senza tener conto di
un altro dato: negli Stati Uniti i neri sono stati schiavi più a lungo di
quanto non siano stati liberi.
Ho 43 anni e faccio parte della prima generazione di neri americani nata
quando gli afroamericani avevano già tutti i diritti di cittadinanza. Abbiamo
sofferto per 250 anni, siamo giuridicamente “liberi” solo da cinquanta. Eppure,
in questo breve periodo, nonostante le continue discriminazioni, e anche se non
è mai stato fatto un vero tentativo di riparare ai torti subiti dagli schiavi e
alle conseguenze della segregazione, i neri hanno fatto progressi sorprendenti,
non solo per se stessi ma per tutti gli americani.
E se finalmente, dopo quattrocento anni, l’America capisse che noi non
siamo mai stati il problema ma la soluzione?
Quando ero bambina, credo fossi in quinta elementare, un’insegnante ci
assegnò un compito che serviva a esaltare la diversità del grande crogiolo
americano. Ci chiese di scrivere un breve testo sulla terra dei nostri antenati
e poi disegnarne la bandiera. Mentre si girava per scrivere le istruzioni alla
lavagna, io e l’altra bambina nera della classe ci guardammo. La schiavitù
aveva cancellato qualsiasi legame avessimo mai avuto con un paese africano, e
anche se avessimo cercato di reclamare come nostro l’intero continente, non
esisteva nessuna bandiera “africana”. Era già abbastanza difficile essere una
delle due alunne nere della classe, e questo compito non avrebbe fatto altro
che ricordarci la distanza tra noi e i bambini bianchi. Alla fine mi avvicinai
al mappamondo che era accanto alla cattedra, scelsi un paese africano a caso e
decisi che era il mio.
Ora vorrei poter tornare da quella bambina che ero per dirle che i suoi
antenati avevano vissuto in America, su queste terre, e invitarla a disegnare
con coraggio e orgoglio la bandiera a stelle e strisce.
Un tempo ci dicevano che, a causa della nostra schiavitù, non avremmo mai
potuto essere americani: ma è proprio a causa di quella schiavitù che siamo
diventati i più americani di tutti.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Quattrocento anni dopo
L’articolo di queste pagine fa parte di uno speciale del New York Times
Magazine sull’eredità della schiavitù negli Stati Uniti intitolato 1619, l’anno in cui i primi schiavi africani furono
comprati dai coloni britannici della Virginia, in Nordamerica. Gli altri
articoli raccontano l’importanza della musica nera nella cultura degli Stati
Uniti, di come il sistema delle piantagioni ha influenzato il sistema penale e
carcerario, dei meccanismi che ancora oggi fanno sopravvivere la segregazione
razziale e di come gli sviluppi della guerra civile hanno impedito agli Stati
Uniti di avere un sistema sanitario pubblico e universale.
Questo articolo è uscito l’11 ottobre 2019 nel numero 1328 di Internazionale. L’originale
era stato pubblicato sul New York Times Magazine con il titolo Our democracy’s founding ideals were false when they
were written. Black americans have fought to make them true. Il 5
aprile 2020 ha vinto il premio Pulitzer nella categoria Commentary.
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